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Introduzione
Perché una tesi sulla sinestesia
L’idea di scegliere il fenomeno della sinestesia come oggetto di studio e di analisi
per una tesi di laurea in Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale
nasce da due esigenze, entrambe collegate al mio percorso di formazione: la
prima si inserisce nel quadro del processo di costruzione dell’identità personale –
ovvero di formazione intesa, in senso lato, come assunzione della propria
specifica forma –, caratterizzato dalla passione, antica, per il binomio musica/
immagini, binomio che a volte mi è apparso delinearsi sotto la forma di un
percorso sdoppiato o meglio di due percorsi separati, uno di tipo pianistico, ed un
altro di tipo cinematografico; il secondo aspetto si inserisce nell’ambito del mio
percorso di studi, universitario e non solo, e si traduce nella scelta di un
argomento che mi permettesse di sintetizzare e di rielaborare, in un discorso
unitario, quanto appreso in questi anni.
Mi è sembrato, dunque, che la trattazione del fenomeno della sinestesia potesse
offrirmi la possibilità di ri-conoscere una coerenza nel percorso intrapreso e di
approfondire, attraverso suggestioni teoriche afferenti a vari campi disciplinari, il
legame tra diverse sensibilità e diversi linguaggi.
Non è certo facile definire che cosa sia la sinestesia: è, infatti, un fenomeno che si
manifesta in diversi modi e forme e lo scopo di questo scritto non è certamente
quello di poter arrivare a definirne in maniera esaustiva ogni aspetto, bensì
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quello di fornire un quadro generale sufficientemente approfondito, a partire dal
quale si intende mostrare quanto la sinestesia, al di là del suo aspetto di
elemento retorico, sia da intendersi come capacità del soggetto di interagire con
la realtà.
Sulla base di queste riflessioni, la tesi vuole infine dimostrare come il fenomeno
sinestetico nel corso del tempo si sia rivelato, e si riveli tutt’ora, una forma di
comunicazione in perfetta sintonia con le trasformazioni culturali e, dunque,
anche tecnologiche della nostra società. La tesi, in questo modo proposta, si
occupa quindi, anche se in senso lato del “fare storia”, in questo caso la storia del
fenomeno sinestetico nel tempo, e di conseguenza pone anche il problema, affatto
secondario, del “come” fare storia. Come dice Gadamer, infatti, l'interpretazione
di un fatto storico emerge dall’incontro di un doppio movimento, quello della
trasmissione storica e quello dell'interprete, anch'esso immerso ed in
progressione nella propria storicità, che può essere più o meno distante dal
passato che si va ad affrontare. Questa tesi si vuole collocare in quella che il
filosofo Gadamer chiamava Wirkungsgeschichte , "storia degli effetti", la quale
non è solo la storia di un testo o nel nostro caso, di un fenomeno, nel corso del
tempo, ma la catena delle interpretazioni passate, le quali condizionano e
mediano la pre-comprensione che l'interprete può avere nei confronti
dell'oggetto di studio. Il comprendere e il fare storia sono dunque processi mai
conclusi e definitivi, che presuppongono una visione ed una relazione sempre
circolare tra il nostro oggetto di studio, la sinestesia, e le condizioni sociali,
culturali e tecnologiche che ne hanno di volta in volta permesso (o impedito) la
manifestazione. Prendendo quindi le distanze da ogni sorta di determinismo
possiamo infine utilizzare l’analisi storica così come descritta, una storia delle
rappresentazioni degli effetti che il fenomeno della sinestesia ha avuto sull’uomo
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e sulla società, come pretesto per un viaggio affascinante attraverso la
multisensorialità della percezione, spaziando dalla letteratura all’arte, dalle
scienze al cinema, alla musica.
Il quadro che si intende presentare è un quadro storico-teorico, che, partendo
dagli studi comportamentisti, toccando il culturalismo di Bruner e le recenti
scoperte delle neuroscienze sulla percezione, approda infine al modello
protomentale di Imbasciati, allo scopo di ottenere una sintesi efficace, come dice
lo stesso autore, tra psicoanalisi e cognitivismo. Accanto agli autori quindi
vengono considerate quelle che sono le linee di tendenza dominanti, non solo da
un punto di vista storico ed estetico, ma anche concettuale e filosofico, come il
comportamentismo, il costruttivismo, gli approcci teorici dell’ultimo decennio e il
versante multimediale con i media elettronici.
La nostra ricognizione può facilmente iniziare già in tempi molto antichi.
Aristotele nel De Anima intuisce una corrispondenza tra “ciò che è acuto o grave
all’udito e ciò che è aguzzo e ottuso al tatto”. Nel corso dei secoli non solo gli
umanisti, ma anche scienziati come Newton e Castel, ipotizzano una relazione tra
i colori e i suoni della scala musicale. Dalle “corrispondenze” di Baudelaire, senza
tralasciare ovviamente l’enorme influenza dell’ “arte totale” di Wagner si
continua lungo la linea di ricerca di sintesi delle arti perseguita nei più svariati
modi nell’alveo delle avanguardie del Novecento, che vedrà nascere studi
maggiormente approfonditi anche nell’arte, come quelli di Kandinskij, in cui si
avvia il tentativo di mettere in relazione il “visibile” dell’ arte pittorica con l’
“invisibile” del suono.
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Si propone dunque una breve analisi della nascita della musica tonale in Europa e
di come essa si rapporti, rispetto alle altre musiche transatlantiche, nei confronti
della dimensione sinestetica; si analizzano alcuni degli autori e delle
composizioni più significative, come Liszt o Skrjabin, il quale fu un pioniere nello
sperimentare un nuovo modo di fare arte che coinvolgesse tutti i sensi, attraverso
l’uso di luci colorate, musica, profumi e persino il gusto.
L’enorme contributo sarà poi dato da Walt Disney ; nel 1929 dalla collaborazione
con il compositore Carl Stalling, nascerà The Skeleton Dance, ispirato al pezzo di
Camille Saint-Saëns, che darà il via alla serie di cortometraggi animati musicali,
le Silly Simphonies. Sarà tuttavia “Fantasia” del 1940 (in Italia 1946) la prima
opera di carattere dichiaratamente sperimentale, fortemente voluta dallo stesso
Disney. La Philadelphia Orchestra d i r e t t a d a Daniel Colasanti, con la
supervisione di Ben Sharpstein e la partecipazione di Leopold Stokowski, riesce,
nelle stesse parole di Walt Disney, “a utilizzare nel cartone animato la grande
musica di tutti i tempi e l'ondata di nuove idee che essa suscita”. Fantasia
rappresenta un’opera controversa, ma senza dubbio un capolavoro assoluto che
costituisce una fonte inesauribile per uno studio sui “suoni colorati”; in quanto
tale, costituirà il nucleo centrale della tesi.
In chiusura si analizzeranno le tipologie sinestetiche più recenti, dai moderni
software grafici per player musicali, fino alle possibili applicazioni della sinestesia
nella formazione, e in particolare il [PGS], Parola Gesto Suono, che rielabora la
metedologia di Carl Orff, teorizzata dell’Orff-Schulwerk, utilizzando le nuove
tecnologie ed un approccio per l’appunto multimediale e sinestetico alla musica e,
in generale, all’apprendimento.
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Parte I
1. La sinestesia: che cos’è?
L’etimologia del termine sinestesia proviene dal greco syn-aisthanèstahai,
“percepire insieme, sentire insieme”, ed indica letteralmente una percezione
simultanea. Tuttavia il termine assume sfumature di significato diverse a
seconda del contesto disciplinare nel quale esso viene collocato. La sinestesia, da
un punto di vista psicologico e percettivo, può essere definita come l’involontaria
sensazione per cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita
come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Il sinesteta puro,
contemporaneamente all’informazione “diretta”, avverte a livello corporale una
percezione ulteriore su un altro livello sensoriale, le cui caratteristiche
fisiologiche la distinguono dall’associazione di idee e dalla metafora, per quanto il
fenomeno si attivi nella medesima area cerebrale.
Appare chiaro sin da queste prime battute come dare una risposta alla domanda
“che cos’è la sinestesia?” sia un’operazione estremamente complessa, poiché si
tratta di un fenomeno dai mille volti e dalle mille sfaccettature, ma soprattutto di
un fenomeno trasversale, che attraversa svariate discipline, dalla scienza all’arte.
Dorfles infatti propone una doppia definizione di sinestesia: una di tipo
prettamente estetico e l’altra invece di natura psicologia se non addirittura
psicopatologica. È fondamentale tenere presente questo doppio aspetto del
fenomeno per un’analisi corretta, anche se bisogna comunque considerare che il
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confine tra questi due aspetti è piuttosto labile, data anche la difficoltà di
riconoscere dei precetti sinestetici che siano “universali”. Di fatto la capacità di
associare modalità sensoriali diverse, comunque, è facoltà comune anche in
soggetti non sinesteti: un esempio quotidiano è quello dell’attribuzione di
sensazioni termiche ai colori; ad esempio il giallo, rosso o arancione sono colori
comunemente chiamati “caldi”, mentre il nero, il blu e il verde sono considerati
“freddi”.
Anche Levy-Strauss, che nella sua Antropologia strutturale ha applicato il
metodo strutturalista agli studi antropologici, ed in particolare al tabù
dell’incesto e alle pratiche del vivere sociale, afferma che gli individui istituiscono
un sistema di relazioni tra fonemi, suoni, colori e odori che corrisponde per
analogia alla struttura fonetica della lingua d’origine. Per Levy–Strauss la
corrispondenza tra la lingua fenomeni socio-culturali è evidente, ma se egli stesso
si troverà a precisare più tardi nella disputa con l’antropologo inglese Radcliffe-
Browne sul concetto di “struttura”, che non si tratta di un’analogia tra organismo
e struttura sociale, poiché questo ridurrebbe la struttura ad una forma
fenomenica. La struttura per Levy-Strauss è una categoria del pensiero che non si
riferisce alla realtà empirica, ma ai modelli costruiti in base ad essa. (C. Levy
Strauss, 1958, p. 311)
La riflessione di Levy-Strass sul concetto di struttura in etnologia, ci riporta al
nostro discorso: il fatto che esistano delle manifestazioni del fenomeno
sinestetico più tipiche e comuni di altre, ovvero associazioni sensoriali più
frequenti di contro ad altre quasi totalmente assenti, ha spesso indotto gli
studiosi, seppur appartenenti ad ambiti diversi, a voler fornire una sorta di
“gerarchia delle combinazioni”, cioè di analizzare certe corrispondenze e certe
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analogie come preferite ad altre. Il presupposto teorico del seguente scritto è
invece quello di dimostrare, avvalendoci del quadro storico della sinestesia, ma
anche del quadro storico relativo agli studi teorici sulla percezione e
sull’apprendimento, l’arbitrarietà di queste associazioni.
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2. Storia della sinestesia, parte I: il pensiero filosofico e la letteratura.
La storia del fenomeno sinestetico è piuttosto “antica”; questo fenomeno ha
infatti da sempre suscitato interesse e curiosità negli ambiti più disparati del
sapere, dalla letteratura, alla filosofia, alla scienza, all’arte. Già nell’antica Cina e
nell’antica Persia ritroviamo tentativi da parte degli studiosi di mettere in
relazione concetti differenti, principalmente suoni e colori e/o forme.
Nel mondo occidentale è stato Aristotele, considerato il primo grande
pensatore, nonché la mente più influente nella storia del pensiero filosofico,
all’incirca nel 354 a.C., a fare accenno ad una percezione polisensoriale. In
generale possiamo dire che la filosofia di Aristotele muove dalla stessa esigenza
platonica di ricercare un principio eterno e immutabile che spieghi il modo in cui
avvengono i mutamenti della natura, e in generale la cosiddetta “prima filosofia”
nasceva proprio allo scopo di dare una spiegazione razionale al mondo e alla
natura, la cui creazione era attribuita alle divinità. Il fulcro della riflessione
aristotelica è la scienza logica del pensiero e delle determinazioni, che ha
influenzato l'intera civiltà occidentale.
Nel “De Anima” (o Eudemo), uno dei suoi dialoghi, Aristotele cita infatti un
curioso parallelismo tra ciò che è acuto o grave all’udito e ciò che è aguzzo e
ottuso al tatto. Seppure appena accennata, questa relazione tra percezione
uditiva e tattile, ci fa immediatamente pensare ad una manifestazione sinestetica.
Per Aristotele, che riprende e supera il suo maestro Platone, la causa primaria
della percezione e della sensazione sta nel movimento, che a sua volta avrebbe
origine nell’anima, poiché essa tenda sempre verso qualcosa. Aristotele precisa,
come nei precedenti scritti, che la facoltà sensibile esiste solo in potenza e si attua
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solo quando vi sono oggetti da percepire. La percezione è un fatto “passivo” in
quanto si subisce l'azione degli oggetti esterni, mentre l'intelletto dipende invece
dalla nostra volontà. Per il filosofo l'apprendimento è u n ' alterazione di tipo
rafforzativo che permette al conoscente di passare dalla potenza all’atto.
Quindi Aristotele passa in disamina il funzionamento dei cinque sensi: ognuno di
essi ha un medium, un tramite che permette la corrispondenza tra l’oggetto
percepito e l’organo. La vista percepisce il colore e la luminosità e il suo medium
è il trasparente. L'udito invece percepisce il suono e i media sono l'aria e l 'acqua;
Aristotele nota infatti che il suono, oltre ad essere generato dalla vibrazione
dell’aria, si può propagare anche nell'ambiente acquatico. L'olfatto percepisce
l'odore e il medium è anche qui l'aria, anche se il filosofo nota che vi sono degli
animali che hanno l'odorato anche in un ambiente acquatico. L'uomo ha
l'odorato meno sviluppato rispetto agli altri animali perché percepisce ogni odore
come dolore o come piacere. Il tatto ha come medium la nostra stessa carne e ci
permette di percepire gli oggetti della realtà. Infine tramite il gusto si percepisce
il sapore. Diversamente dagli altri sensi il gusto non presenta alcun medium, la
percezione avviene nell'umido tramite la lingua. Quest’ultima ha una duplice
funzione: se percepisce il gusto di qualcosa funge da organo mentre quando
percepisce oggetti tattili funge da medium
Ancora Giamblico tra il III e il IV secolo a. C. scrive:
[...] valendosi di un divino potere, ineffabile e arduo a concepirsi, sapeva
tendere l'orecchio e fissare la mente alla sublime musica celeste. Ed era l'unico,
come spiegava, in grado di udire e intendere l'armonia universale e la musica
consonante delle sfere e degli astri che entro queste si muovevano. Questa
armonia rende una musica più pura e più piena di quella umana, grazie al
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movimento dei corpi celesti, il quale è caratterizzato da suprema melodiosità ed
eccezionale, multiforme bellezza. Queste ultime sono il prodotto dei suoni celesti,
i quali traggono sì origine dalle ineguali e in vario modo tra loro differenti
velocità, grandezza e posizione dei corpi, ma sono nondimeno collocati in
reciproca relazione nel modo più armonico.
Giamblico stava parlando di Pitagora, il grande scienziato fondatore
dell’omonima scuola, conosciuto oggi come il padre della geometria, che nel VI
secolo a.C., parlava di “musica delle sfere”. Pitagora fu il primo intellettuale
occidentale ad occuparsi delle relazioni tra gli intervalli musicali.
La chiave di questa scoperta fu uno strumento molto semplice utilizzato all’epoca,
chiamato monocorde, costituito da una sola corda tirata su una struttura in
legno. Usando il monocorde, Pitagora fu in grado di scoprire che la divisione
musicale creata dall'uomo dava origine a dei rapporti matematici. Esaminando
gli intervalli creati da questa divisione, Pitagora scoprì che tutti i rapporti
numerici potevano essere espressi. Questi rapporti numerici, come 2:1, 3:2, 4:3,
erano archetipi dell'armonia e dell'equilibrio e si potevano osservare, da livelli
microscopici a livelli macroscopici, in tutto l’universo, che poteva essere
considerato come un enorme monocorde. Egli applicò le sue leggi sugli intervalli
armonici a tutti i fenomeni naturali, dimostrando la relazione armonica insita in
elementi, pianeti e costellazioni. Da qui, la “musica delle sfere”, era il suono
prodotto dai movimenti dei corpi celesti che si spostavano nell'universo. Per
Pitagora ed i suoi studenti questa era più di una metafora. Come appunto scrive
Giamblico, si diceva che il maestro greco fosse in grado di sentire i suoni dei
pianeti che vibravano nell'universo. Per secoli gli scienziati hanno fatto ipotesi
sulla relazione tra il movimento dei corpi celesti ed il suono. I concetti pitagorici,
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in particolare quello di “musica delle sfere”, hanno conosciuto una grande
fortuna presso le dottrine esoteriche.
Un altro ambito delle conoscenza in cui la sinestesia inizia ad essere
“sperimentata” dall’uomo è la cosiddetta retorica, ovvero l’organizzazione del
discorso ai fini della persuasione, quella che oggi possiamo in senso lato definire
“comunicazione”, in quanto produzione dell’immaginario collettivo volta alla
creazione di consenso. I segni che infatti riceviamo dall’universo dei media sono
spinte all’azione. Sin dalle origini della cultura il potere della parola è stato
ritenuto fonte di pericolo e di rischio, tanto che gli stessi Platone e Aristotele,
prima citati, opponevano alla retorica rispettivamente la dialettica e la poetica.
Nel Medioevo a maggior ragione si tenta di arginare questo “strapotere”
attraverso la frammentazione; sarà poi durante il Rinascimento che l’arte della
parola riacquista la sua importanza. Oggi l’aggettivo “retorico” viene utilizzato
comunque in prevalenza con un significato dispregiativo, poiché ci si basa
sull’idea che la parola sia diventata il medium onnicomprensivo e non abbia
nulla al di fuori di sé. (L. Pignotti, 1993, p. 15).
Se assumiamo come vero che dietro ogni discorso si nasconde un’intenzione
pratica, allora tutto è retorica, e come diceva Nietzsche, “le verità sono illusioni di
cui ci si è dimenticati la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e
hanno perduto ogni forza sensibile” (Nietzche, 1973). Ma c’è anche un’altra
prospettiva, in cui assumiamo che la retorica ha una valenza essenzialmente
funzionale, ovvero serve, e la sua incidenza non è onnipotente, ma è relativa alle
dinamiche intersoggetive in cui essa è adoperata.
La sinestesia non può essere non considerata in questo ambito, ed in particolare
dalla linguistica, che la analizza come un caso particolare di metafora, pur
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osservando che la combinazione intersensoriale della sinestesia può manifestarsi
anche a livelli sintattici più complessi. Come nel pensiero filosofico, anche questi
“momenti sinestetici” ricorrono fin dall’antichità; basti pensare all’ Iliade (“voce
di giglio”), o a I Persiani di Eschilo, a Euripide, fino a Cicerone, Vitruvio e
Viriglio (le “grida che riempiono il cielo” dell’Enedide).
Procedendo nei secoli si osserva che a questa fecondità sinestetica della prima
letteratura, corrisponde nel Medioevo un momento di “aridità” e di inibizione nei
confronti di questa particolare espressione linguistica; fatta eccezione per il
sommo poeta Dante, che nella celebre Commedia ne farà largo uso, il pensiero
medioevale manifesta la volontà di attenuare qualsiasi espressione, anche
linguistica, che possa essere in qualche modo voluttuosa o sensuale. Tuttavia c’è
da specificare che il termine “Medioevo” indica una periodizzazione molto ampia
della storia occidentale, che comprende tanto i “secoli bui” (Alto Medioevo)
caratterizzati da condizioni economiche disagiate, tramonto degli antichi imperi,
invasioni barbariche e, in generale, una situazione di stasi da un punto di vista
culturale che vedrà l’ascesa del sistema feudale e della Chiesa Cattolica, tanto un
periodo di rivoluzione in senso positivo, dal punto di vista sia economico che
commerciale (Basso Medioevo), che vedrà la piena e completa fioritura del
sistema dei Comuni e delle Monarchie Nazionali europee.
Sarà l’età elisabettiana con Shakespeare e poi la poesia barocca europea a fare un
grande ricorso alla sinestesia. Il ‘600 può essere considerato il primo periodo
storico di grande sperimentazione in questa direzione. Queste esperienze
vengono poi accolte in forma compiuta in seno al romanticismo, dove il gusto per
l’esotismo, lo stile di vita dedito ad hashish e droghe dei cosiddetti “poeti
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maledetti”, ma anche lo stabilirsi di contatti e relazioni sociali tra artisti di vario
genere, poeti, pittori, musicisti, hanno di certo favorito l’innestarsi di un certo
“atteggiamento sinestetico”. È appunto in questo periodo che si stabilisce anche
una certa supremazia della vista e dell’udito rispetto altri sensi: il gusto, il tatto e
l’olfatto infatti non si prestavano ad una rappresentazione che avesse un rapporto
di verosimiglianza con la realtà, non permettevano in breve la costruzione di un
sistema di segni.
Ludwig Schrader in Sensaciòn y Sinestesia (1975) propone una classificazione
dei fenomeni letterario-sinestetici, che secondo lui sono di tre tipi: trasposizioni-
identificazioni, come le stelle profumate di Mallarmé; un tipo particolare di
accumulazione, evocazione enumerativa e simultanea di sensazioni afferenti a
diverse sfere sensoriali; comparazione delle sfere sensoriali, di cui farà largo
Baudelaire nella sua poetica. Un chiaro esempio né appunto il suo famoso
Spleen di Parigi.
Il brano si apre con la visione di un paesaggio; il paesaggio viene descritto per
sottrazione: senza strade, senza erba, senza un cardo, senza un’ortica. Poi
l’apparizione della Chimera, pesante come un sacco di farina o di carbone,
descritta quindi utilizzando la figura retorica del paragone, che in questo caso
unisce elementi afferenti a due aree diverse: la Chimera, l’essere fantastico, viene
accostato al peso concreto e reale della farina o del carbone, elementi della nostra
realtà. E poi: “l’irresistibile Indifferenza mi fu addosso col suo peso, a gravarmi
più di quanto non lo fossero quelli schiacciati sotto le loro Chimere.”
L’Indifferenza è dunque personificata come soggetto astratto, così come la stessa
Chimera, ed esprime la rinuncia a qualsiasi interpretazione da parte del poeta,
che può esprimere solo con una certa vaghezza, la stessa del paesaggio iniziale, e
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con espedienti appunto retorici, questa visione a metà tra il fantastico e il
mostruoso, tra l’impalpabile e l’inesperibile, e il vivo e concreto. La Chimera
rappresenta per Baudelaire il mondo dell’immaginario, aggrovigliato in maniera
inestricabile all’uomo, e dal qual l’uomo non può essere strappato. Baudelaire
ricorre dunque alla retorica, poiché il discorso diretto sarebbe impossibile: la
retorica permette al poeta di rielaborare quelle immagini per lui opprimenti, di
spostare il senso rispetto al senso comune dominante: è possibile quindi grazie
allo spostamento imprimere un senso nuovo alle immagini, una sorta di
deviazione (in questo caso dal significato mitologico della chimera) e spingere il
lettore stesso alla ricerca di un nuovo senso.
L’estrazione delle figure retoriche da un testo non può mai essere tale da indurre
a considerare le figure un fatto isolato, ma sempre in relazione con l’intero
enunciato.
Tra tutte le figure retoriche, la metafora è quella che, nell’ambito dell’analisi, vede
uno spostamento degli ambiti semantici coinvolti, ma quello che noi percepiamo
come scambio tra i cinque sensi, deve essere opportunamente configurato come
sinestesia. Per spiegarci cosa sia la sinestesia nell’ambito della retorica e
dell’analisi testuale, dobbiamo ricorrere nuovamente a Baudelaire ed in
particolare al sonetto “Corrispondenze”, tratto da I fiori del male del 1857:
Corrispondenze
E' un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l'uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori