CAPITOLO 1
Introduzione.
1. Storia della Psicologia Positiva.
Nel suo discorso del 1998 ai membri dell’American Psychological Association, il presidente
Martin Seligman, parlando agli psicologi presenti, sottolineò la necessità di tornare alle origini
della Psicologia e focalizzare gli sforzi non solo nella cura delle patologie mentali, ma anche
sull’obbiettivo di rendere la vita delle persone più produttiva e appagante, identificando i talenti
all’interno e aiutandoli a crescere (Seligman e Csikszentmihalyi, 2000). Queste erano infatti le
priorità che la psicologia si prefissava prima dell’avvento della Seconda Guerra Mondiale; finita
la guerra, con il ritorno dei soldati in patria, l’attenzione si spostò sul risolvere i problemi da
essa derivati e sul riorientamento della vita dei veterani. In quel periodo nacquero molti
ospedali per veterani e proliferò la ricerca per la cura della psicopatologie da parte dell’ Istituto
Nazionale per la Salute Mentale (Seligman e Csikszentmihalyi, 2000). Il risultato di questo
periodo di forte cambiamento di prospettive, fu l’adozione da parte dei terapeuti di un modello
del funzionamento dei pazienti basato sulle patologie, sulle mancanze, e sui deficit piuttosto che
sui punti di forza individuali, sulle virtù e sulle aree di benessere. Negli ultimi 10 anni, però la
ricerca in Psicologia Positiva ha avuto ampio respiro e nel 2008 fu pubblicata la prima edizione
del Journal of Positive Psychology dove furono raccolte tutte le ricerche che avevano come
tema le emozioni positive, i punti di forza e il benessere. Sono stati pubblicati anche una grande
varietà di libri esclusivamente sul tema della Psicologia Positiva, che inoltre, viene insegnata in
molti colleges ed università.
Sebbene la Psicologia Positiva sia ancora una branca in espansione e che ci sia ancora molto da
comprendere, la letteratura fino ad ora disponibile suggerisce che è possibile che essa possa
giocare un ruolo prominente anche nel counseling e nella psicoterapia.
Il vasto movimento della Psicologia Positiva ho portato quindi, a mettere in luce aspetti come il
ruolo fondamentale delle risorse e delle potenzialità individuali, che le ricerche precedenti, volte
ad individuare deficit e punti di debolezza, avevano trascurato. L’originalità della Psicologia
Positiva risiede anche nell’assunzione di un ruolo attivo nel promuovere e nello sviluppare le
proprie risorse personali. Alla base di questo approccio vi è il concetto di prevenzione, la
Psicologia Positiva studia i modelli teorici e i meccanismi che favoriscono il benessere
soggettivo, la felicità e la promozione della qualità della vita a partire da condizioni di normalità
(Sheldon e King, 2001, Seligman, 1990).
2. Il pensiero positivo.
Il pensiero positivo è un costrutto latente rappresentato da i tre indicatori di Autostima,
Ottimismo e Soddisfazione di vita, tre costrutti unici ma complementari fra loro (Steca e
Caprara,2005). L’ipotesi è che ognuno dei tre costrutti rappresenti uno specifico sistema di
pensiero che riflette un sottostante e comune processo cognitivo, che si manifesta nella tendenza
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a pensare positivamente ai diversi aspetti e ambiti del proprio vivere. L’ ottimismo, l’autostima
e la soddisfazione di vita differiscono in termini di contenuto cognitivo ma corrispondono a
valutazione ampie e positive che influenzano gli stati emotivi e i comportamenti individuali,
sono schemi conoscitivi ma anche disposizioni valutative stabili relativi a se stessi, alla vita e al
proprio futuro. Essi rappresentano il modo in cui le esperienze passate dell’individuo sono state
deposte in memoria e condizionano significativamente le esperienze correnti e predispongono a
quelle future. La logica adottata nella definizione di pensiero positivo risulta simmetrica a
quello adottata da Beck (1976) nella definizione nell’ambito della teoria cognitiva di
depressione. Se la depressione si caratterizza per un atteggiamento, un modo di “vedere” e
predisporsi in modo negativo rispetto a se stessi, la propria vita e il proprio futuro, una
simmetrica prospettiva di vita positiva è la caratteristica base del pensiero positivo. In entrambi i
casi non si tratta di caratteristiche personali di positività o negatività, ma di modalità cognitive
di vedere noi stessi e la nostra vita.
Autostima, Ottimismo e Soddisfazione di vita sostanziano la comune dimensione del “pensare
positivo” alla propria vita, a se stessi e al proprio futuro (Caprara et al. 2002, Caprara e Steca
2005, 2006). Questo fattore riflette stabili rapporti mentali probabilmente comuni ai tre costrutti
(di sé, degli eventi e delle circostanze di vita) e deriva da processi altrettanto comuni di
percezione, ricordo, anticipazione e confronto delle informazioni che danno luogo ad
un’accentuazione positiva dell’esperienza individuale nella sua totalità. Se soddisfazione di vita,
ottimismo e autostima vengano deprivati del fattore comune del pensiero positivo, i loro effetti
possono essere nulli, se non addirittura dannosi. Come si può essere soddisfatti dalla vita se non
si ha una buona considerazione di se e non si hanno aspettative positive rispetto al futuro? A
questo proposito, nell’ipotesi di privare dalle comuni strategie di percezione, interpretazione, e
valutazione del reale che sottendono il pensiero positivo, un’elevata autostima potrebbe
diventare egocentrismo e un eccessivo ottimismo può essere un ingenuo fatalismo.
Anche le convinzioni di autoefficacia, cioè quanto le persone si ritengono in grado di affrontare
le varie situazioni che si presentano nel corso della vita, sono determinanti (personali) del
pensiero positivo (Caprara,2002). In ciascuna convinzione si riflette la proprietà della persona di
concentrare e dirigere la condotta facendo riferimento a ciò che pensa di se stessa in quanto
agente di decisione, di iniziativa e di controllo. In ciascuna convinzione si riflette l’effettiva
capacità dell’individuo di autoregolarsi e operare con successo in particolari ambiti di attività.
Le persone sono poco motivate ad agire se non si credono all’altezza delle situazioni o se non
credono di avere buone possibilità di riuscita. Motivazione e azione individuale sono fortemente
regolati dalle valutazioni soggettive che le persone fanno rispetto alla controllabilità dei vari
aspetti connessi all’esercizio della loro azione. Un aspetto importante del concetto di controllo
percepito è rappresentato dalle convinzioni di autoefficacia che A. Bandura (1995, 1997)
definisce come le credenze sulle proprie capacità di eseguire determinate azioni e di raggiungere
livelli designati di prestazione, in specifici compiti ad ambienti di vita. La convinzione di “saper
fare” guida e determina la persistenza di fronte agli ostacoli e alle difficoltà. Di fronte a compiti
complessi ed eventi potenzialmente minacciosi, l’autoefficacia percepita modera i livelli di
ansia e preoccupazione soprattutto in attività complesse, promuove l’adozione di efficacia,
strategie di pianificazione e di risoluzione problemi. (Bandura, 1997)
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Le convinzioni di autoefficacia hanno un ruolo importante nella promozione della salute e del
benessere della persona. Possono avere influenza diretta sullo stato di salute fisica agendo sui
sistemi biologici implicati nella salute e nella malattia e anche attraverso la promozione di
adeguate abitudini comportamentali e stili di vita saltuari (Bandura,1997,2000,2004). Inoltre, le
convinzioni di autoefficacia hanno un ruolo importante in relazione alla gestione dello stress:
innalzare o abbassare la competenza percepita e il senso di controllo nella gestione dei compiti
difficili o stressanti determina una variazione dell’attivazione del Sistema Nervoso Autonomo
(O’Leary e Brown, 1995) e di alcuni parametri immunitari (Gruber, Hall, Hersh e Dubois,
1988), promuove l’adozione di comportamenti ed attività che favoriscono il benessere fisico,
soprattutto nel caso di malattie croniche (diabete) (Hurley e Shea, 1992), riabilitazione
cardiologica (Shoder, Schwarzer e Endler, 1997). Il miglioramento delle convinzioni di
autoefficacia risulta centrale sia a livello di prevenzione primaria e secondaria, attraverso
l’aumento della capacità di resistere ad attuare comportamenti dannosi, sia nelle fasi di
trattamento e di prevenzione della ricaduta, dove le convinzioni di saper fare sono centrali nel
promuovere il cambiamento delle abitudini, sostenere l’impegno e la perseveranza e riprendersi
dai fallimenti. Anche la gestione delle relazioni interpersonali costituisce un ulteriore ambito in
cui l’autoefficacia percepita può giocare un ruolo positivo nella promozione della salute: essere
convinti di saper reperire l’aiuto di un’ampia rete sociale e di saper gestire efficacemente i
rapporti con gli altri promuove comportamenti di avvicinamento e di richiesta che offrono la
possibilità di fruire del sostegno, della cura e del conforto che sono particolarmente preziosi in
situazioni di grave disagio o di disabilità (Duncan e McAuley,1993). La capacità percepita di
controllare rabbia, contrastare la tristezza, ridurre il malumore, in sinergia con la capacità
percepita di gioire, manifestare l’entusiasmo e la sorpresa, promuove e sostiene convinzioni più
solide rispetto alla propria capacità di gestire i rapporti con il proprio partner, gli amici, i
genitori e i figli (Crapara, 2002).
3. Relazione tra Depressione, Successo e Salute.
I tre concetti di Depressione, Successo e Salute, potrebbero sembrare a prima vista,
indipendenti. La depressione deriva da inferenze errate che traiamo dai “fallimenti” e dalle
esperienze spiacevoli in cui incorriamo nel corso della nostra vita. Essa si manifesta perché ci
costruiamo delle credenze pessimistiche sulle cause dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte,
o delle nostre disgrazie (Seligman, 2004).
Per quanto riguarda il successo invece, spesso si ritiene che esso risulti dalla combinazione di
due componenti: talento e desiderio/volontà. Quando si verifica un insuccesso, è perché o il
talento o la volontà sono stati inadeguati o insufficienti.
Il talento è spesso misurato con varie metodologie e tests e si ritiene che sia difficilmente
incrementabile.
Il desiderio/volontà, al contrario, si ritiene sia facilmente incrementabile, come dimostrano i
numerosi corsi motivazionali e la copiosa attività pubblicitaria che spesso addirittura cerca di
creare dal nulla nuovi desideri. La ricerca e gli studi di Seligman e della Psicologia Positiva
indicano che, nella formula del successo, è necessario un terzo fattore, forse più importante del
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talento della motivazione: la nostra predisposizione ottimistica o pessimistica nei riguardi della
situazione. Ottimismo e pessimismo influenzano il nostro stato di salute almeno altrettanto
profondamente di quanto fanno i fattori fisici. La nostra salute fisica è qualcosa sulla quale noi
possiamo avere più controllo personale di quanto forse sospettiamo. È ormai noto, che quello
che pensiamo e come lo pensiamo influenzano il nostro stato di salute. Infatti gli ottimisti
vivono più a lungo dei pessimisti. Diventare ottimisti non significa semplicemente “pensare
positivo”, l’ottimismo non significa pensare cose positive su noi stessi. Le affermazioni positive
fatte a noi stessi hanno un’influenza molto relativa, anche se non del tutto nulla. La cosa
veramente importante è quello che pensiamo quando sbagliamo o quando subiamo una sconfitta
o ancora quando manchiamo un obbiettivo. Possiamo imparare ad usare meglio il potere di un
nostro pensiero. La qualità del dialogo interiore, delle cose che diciamo a noi stessi, quando
sperimentiamo i fallimenti, le sconfitte, le avversità che la vita riserva a ciascuno di noi, è
l’abilità centrale degli ottimisti.
Successi e fallimenti possono essere analizzati e spiegati alla luce della teoria del controllo
personale, in cui ritroviamo due concetti chiave: impotenza appresa, intesa come reazione
svalutativa, la risposta emozionale e di passività comportamentale che consegue alla
convinzione che qualsiasi cosa si faccia, sarà inutile e stile esplicativo, inteso come modo in cui
abitualmente spieghiamo a noi stessi perché accadono gli eventi che ci accadono. Un Se
ottimista riduce e annulla l’impotenza appresa, mentre un Se pessimista, la rinforza.
La premessa centrale di quasi tutte le teorie dell’apprendimento, è che l’apprendimento si
realizza soltanto quando il soggetto, in risposta ad un’azione, ad un comportamento, ottiene un
premio o una punizione. Gli esperimenti condotti da Seligman e da Maier (1976) dimostrarono
invece, che la maggior parte del comportamento umano volontario è motivato dalle aspettative
riguardo alle sue conseguenze. Gli animali e le persone possono imparare che le loro azioni
sono inutili e quando si creano queste aspettative di inefficacia, si arrendono alle circostanze e
diventano passivi. La passività umana ha due sole fonti: il tornaconto manipolatorio (se il
soggetto ritiene che un atteggiamento arrendevole e passivo induce gli altri ad essere più
disponibili) oppure il convincimento che qualsiasi cosa fosse fatta sarebbe inutile. In entrambi i
casi, la passività è appresa con l’esperienza. Quando un individuo tenta di modificare l’ambiente
senza successo, dopo un certo numero di tentativi desisterà e non investirà più energie per
cercare di modificare la situazione, ma l’accetterà in modo passivo, questa possibilità è definita
Impotenza Appresa (Seligman, 1975) .
Il numero di insuccessi necessari per l’apprendimento dipenderà, dalla Resilienza
dell’individuo. Il termine Resilienza viene usato anche in fisica per intendere la capacità di un
materiale di resistere agli urti, in psicologia invece, viene utilizzato per indicare un particolare
processo di risposta a delle eventuali situazioni avverse, in cui l’individuo viene a trovarsi e gli
permette non solo di resistere ad esse ma anche di trasformarsi e svilupparsi in una condizione
più vantaggiosa (Malaguti, 2005). Un’ aspetto fondamentale degli apprendimenti, quindi è che
possono essere modificati ed anche cambiati radicalmente. Solamente se il soggetto si
concederà, avendola, l’opportunità di sperimentare ancora con successo il potere dell’azione
nell’adattare l’ambiente alle proprie necessità, o viceversa, riacquisterà permanentemente la
fiducia, di un agire efficace, rimanendo per cosi dire immunizzato. Negli esperimenti sul
condizionamento animale, si è visto che il premio è dato dopo ogni prestazione di successo
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(rinforzo continuo), non appena il somministratore smette di elargire la ricompensa, l’animale
dopo tre o quattro tentativi, rinuncia, smette di provare ancora ad agire il comportamento che in
passato gli aveva procurato il premio. Se però, lo sperimentatore elargisce il premio in modo
non continuo e randomizzato (rinforzo parziale) al cessare delle ricompense, l’animale
manifesterà quel comportamento appreso per molto più tempo e per molte più volte, prima che
si verifichi il processo di estinzione del comportamento. Tuttavia, con le persone, le cose vanno
diversamente. Alcune rinunciano subito, non appena il processo di estinzione, cominciava, altre
perseveravano. Si è visto, che le persone che pensavano che la causa fosse permanente,
smettevano subito, mentre quelli che pensavano che la causa fosse temporanea, perseveravano
perché si aspettavano che la situazione fosse mutata e la ricompensa sarebbe tornata. Era
dunque la spiegazione che essi si davano e non la modalità di somministrazione del rinforzo che
determinava la loro suscettibilità all’effetto di estinzione del rinforzo parziale. Quindi il
comportamento umano non è determinato soltanto dalla modalità di somministrazione del
rinforzo, ma dallo stato mentale interiore, dalle spiegazioni sul perché le cose accadono in un
certo modo, cioè dallo Stile Esplicativo.
4. Lo Stile Esplicativo e le sue dimensioni.
Lo Stile Esplicativo ha tre dimensioni fondamentali: Permanenza, Pervasività e
Personalizzazione (Seligman, 2004).
Le persone che rinunciano facilmente, credono che le cause degli eventi negativi chi gli
succedono siano permanenti, pensano che le contrarietà ci saranno sempre li a rovinare
l’esistenza, chi si rappresenta gli eventi sfavorevoli in termini di “sempre” “mai” e “tratti non
modificabili” ha uno stile permanente pessimistico. Chi invece pensa in termini di “qualche
volta”, “ultimamente”, chi usa aggettivi qualificativi, chi attribuisce le cause di eventi
sfavorevoli a condizioni transitorie, ha uno stile pessimistico. I fallimenti e i dispiaceri rendono
chiunque almeno temporaneamente impotente, indifeso, vulnerabile. Ma il dolore e il
dispiacere, per alcuni, va via quasi subito, mentre per altri, la ferita rimane a lungo. Essi
rimangono cosi per giorni, forse mesi; alcuni di fronte a grandi contrarietà, potrebbero non
riprendersi mai più. Per quanto riguarda gli eventi positivi invece, accade il contrario: gli
ottimisti li spiegano in termini di cause permanenti (tratti caratteriali, abilità, ecc.) I pessimisti,
invece, nominano cause temporanee: l’umore, lo sforzo, l’impegno. Coloro che pensano che gli
eventi positivi hanno cause permanenti, provano con maggiore impegno dopo ogni successo.
Coloro i quali, invece, attribuiscono a cause temporanee, potrebbero rinunciare anche quando
hanno avuto successo, credendo si sia trattato solamente di fortuna. La permanenza quindi si
riferisce alla dimensione temporale dell’esperienza, la pervasività attiene alle generalizzazioni e
categorizzazioni dell’esperienza, quindi alla dimensione spaziale, all’ampiezza delle categorie.
Alcune persone riescono a scindere i loro problemi e condurre la loro vita anche quando un
aspetto importante di essa presenta qualche difficoltà. Altri invece, catastrofizzano ogni piccola
contrarietà. Quelli che si danno spiegazioni universali dei loro insuccessi, rinunciano a molte
altre cose quando subiscono un contrattempo o un fallimento in qualche area (persone
pessimiste).
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Coloro i quali invece, davanti ad un insuccesso si danno delle spiegazioni specifiche, possono
diventare impotenti e rinunciatari in un’area limitata della loro vita, ma rimanere attivi nelle
altre (persone ottimiste). L’ottimista ritiene che gli eventi negativi hanno cause specifiche
mentre gli eventi positivi hanno cause universali. Il pessimista fa esattamente il contrario. La
speranza dipende dalle due dimensioni del nostro Se: la pervasività e la permanenza. Infatti,
trovare cause specifiche e temporanee per gli eventi negativi è la condizione per poter nutrire la
speranza che in futuro le cose andranno diversamente. Le cause temporanee limitano
l’importanza del tempo e le cause specifiche la confinano alla specifica situazione originaria.
La Personalizzazione è quando ci succede qualcosa di male, noi possiamo dare la colpa a noi
stessi (internalizzare) o agli altri e alle circostanze (esternalizzare). Chi incolpa sempre se stesso
per gli eventi negativi che gli accadono avrà come conseguenza una bassa autostima. Penserà
di essere sbagliato, di non avere talento, di non essere apprezzabile. Coloro che invece,
attribuiscono agli eventi la colpa, non perdono l’autostima, quando gli succede qualcosa. Delle
tre dimensioni dello Stile Esplicativo, la personalizzazione è quella più facile da apprendere. Fin
da piccoli, una delle prime cose che impariamo è proprio quella di cercare di attribuire agli altri
le proprie colpe. Dalla personalizzazione dipende il modo in cui ci sentiremo riguardo a noi
stessi. È dalla pervasività e dalla permanenza, che sono le dimensioni più importanti, che
dipende cosa faremo, per quanto tempo ci sentiremo impotenti e rispetto a quante situazioni più
o meno simili. Anche nella Personalizzazione, lo Stile Esplicativo della persona ottimista per gli
eventi positivi è esattamente l’opposto di quello usato per gli eventi negativi: esso è interno,
anziché esterno. I pessimisti naturalmente, fanno esattamente il contrario. Si prendono la colpa
delle loro disgrazie e attribuiscono al caso i loro successi. Si può concludere dicendo, che, se
vogliamo che una persona cambi il suo comportamento, il suo umore, il suo stato di salute,
l’internalità non è cosi cruciale come lo è la permanenza. Se la persona crede che le cause della
sua situazione sono permanenti - stupidità, mancanza di talento, bruttezza- non farà nulla per
cambiare le cose, per migliorarsi. Se invece, essa ritiene che la causa sia temporanea o
modificabile- peso eccessivo, cattivo umore, poco impegno- può fare qualcosa per rimuoverla.
5. Distorsione della realtà e Ottimismo.
È ormai ampiamente documentato che le persone ottimiste, distorcono la realtà più delle
persone pessimiste che tendono a vedere la realtà in modo più accurato. I pessimisti sembrano
essere alla stregua della realtà, mentre gli ottimisti hanno più difese nei confronti di essa
(Taylor e Brown, 1998). Gli ottimisti sovrastimano le loro capacità di controllo delle situazioni,
mentre i pessimisti giudicano la loro mancanza di abilità in modo più accurato. Un’altra
differenza importante fra ottimisti e pessimisti riguarda la memoria. I soggetti depressi (più
pessimisti) ricordano di più i cattivi eventi e di meno quelli buoni (Strunk, Lopez e DeRubeis,
2006).
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6. Le conseguenze del pessimismo.
Bisogna tenere presente che il pessimismo promuove inerzia e depressione, ci fa sentire di
cattivo umore, depressi, spaventati, ansiosi, ma è in qualche modo auto appagante, ci induce a
“volare basso”, a tenere sotto una certa soglia le nostre aspettative e le nostre speranze, in modo
da non rimanere mai delusi, accontentandosi di quel poco che ci viene dato normalmente dalla
vita, senza aspirare a niente di meglio. I pessimisti non insistono davanti alle sfide e pertanto
falliscono più frequentemente, anche quando il successo sarebbe ottenibile. A parità di
condizioni, i pessimisti sono sconfitti, quando concorrono per alti incarichi, o in competizioni
politiche o sportive (Beck, 1964). Il pessimismo è spesso associato a salute cagionevole e
cattivo funzionamento del sistema immunitario. Ottimismo e pessimismo sono due aspetti che
influenzano in modo marcato le nostre risorse immunitarie. L’ottimismo è legato ad una
tendenza al buon umore ed ad un’alta percentuale di linfociti T Helper e di cellule Natural
Killer. Lo hanno documentato degli studiosi dell’Università di Los Angeles, guidati da Suzanne
Segerstone (2001). In parte afferma Segerstone, l’effetto dell’ottimismo sul sistema immunitario
è modulato dal buon umore, ma in certa misura è diretto. Sempre Segerstone (2001) ha
constatato che l’essere apprensivi, preoccuparsi, abbia pesanti ripercussioni sul sistema
immunitario. Chi si preoccupa molto tende ad avere livelli di cellule Natural Killer molto bassi
rispetto al gruppo di controllo ed ad individui più concreti e realisti. Ci sono quindi prove
convincenti che lo stato psicologico influenza lo stato di salute. Depressione, tristezza,
pessimismo, sono stati mentali che peggiorano la salute, sia nel breve, che nel lungo termine.
Dal punto di vista biologico, il processo è il seguente: eventi come perdite, fallimenti, sconfitte
ci fanno sentire, almeno momentaneamente, impotenti e senza speranza. Le persone che hanno
un stile esplicativo molto pessimista possono cadere più facilmente in depressione; la
depressione produce una notevole diminuzione delle catecolamine (ormoni rilasciati dalla
midollare del surrene e del sistema nervoso simpatico in situazioni di stress psicologico e cali di
glicemia; le più note sono noradrenalina, adrenalina e dopamina) e un conseguente aumento
delle endorfine (neurotrasmettitori dotati di proprietà fisiologiche e analgesiche) che a sua volta
può ridurre l’attività del sistema immunitario. Quando il sistema immunitario funziona in
maniera ridotta, gli agenti patogeni prendono il sopravvento e l’insorgenza di malattie, talvolta
anche gravi, diventa più facile. Se questa è la sequenza che lega gli eventi negativi della vita alla
malattia fisica, allora tanto la terapia quanto la prevenzione possono essere applicati a qualsiasi
anello della catena, compreso lo stile esplicativo del soggetto.
Quindi, anche se le cose vanno realmente male e i pessimisti hanno ragione, essi si sentono
peggio. Il loro stile esplicativo li porta a trasformare l’avversità prevista in un disastro, il
disastro in una catastrofe. Tutti, anche quelli che sono estremamente ottimisti o pessimisti,
sperimentano, più o meno, entrambi gli stati, utilizzando entrambi gli stili esplicativi ,a seconda
dei momenti e delle circostanze. Durante i cosiddetti cicli arcadiani (cicli di ventiquattro ore,
come il ciclo sonno/veglia o il ritmo di secrezione del cortisolo e di varie altre sostanze
biologiche) ad esempio, noi siamo più depressi quando ci svegliamo, e man mano che la
giornata procede diventiamo più ottimisti. Durante i cicli ultradiani (più brevi di un giorno,
come il ciclo REM di novanta minuti o il ciclo dell’ormone della crescita di tre ore), abbiamo
grosso modo dei picchi al mattino tardi e in prima serata durante i quali siamo più ottimisti e le
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