2
quelle dei rappresentati, che tanta parte hanno nello studio attuale delle
assemblee elettive (anche in forme molto diverse dalle originali). Questo
secondo punto di vista è particolarmente attraente, perché permette di arrivare a
valutazioni di merito che sono invece precluse dallo studio descrittivo del
rapporto rappresentativo, che utilizza concetti neutri. D’altra parte la descrizione
pura appare necessaria come esigenza preliminare alla valutazione; è grazie ad
essa che si possono scoprire aspetti rilevanti di un sistema politico poco
conosciuto. Valutare qualcosa di cui non si conosce il funzionamento rischia di
essere un procedimento superficiale; scoprire gli oggetti rappresentativi a cui i
consiglieri si sentono più legati è fondamentale per una successiva scelta dei
metodi di valutazione del rapporto rappresentativo1. In mancanza di conoscenze
appropriate, è doveroso investigare i modelli di comportamento e le auto-
percezioni dei rappresentanti, che forniscono il primo mattone di un’analisi più
approfondita. La prima ragione di questo studio è allora l’esplorazione di un
contesto parzialmente nuovo.
L’analisi della politica municipale italiana ha riscosso un certo interesse
in questi ultimi anni. Infatti, tra le molte novità portate dal ciclone che ha
investito l’Italia nella prima metà degli anni novanta, una delle più rilevanti è
stata la riforma del sistema elettorale e del funzionamento dei comuni. Dal 1993
è nata una nuova forma di governo locale, da molti chiamata neo-parlamentare.
In primo luogo l’elezione diretta del sindaco, con la creazione di un rapporto più
diretto tra elettori ed esecutivo, ma anche le diverse ripartizioni di poteri tra
consigli e giunta hanno modificato notevolmente il funzionamento dei comuni.
Se all’influenza delle nuove regole del gioco si aggiunge la crisi del sistema
partitico, ci troviamo di fronte ad un sistema assai diverso dal precedente. Fino
ad adesso gli osservatori hanno posto l’accento sulla personalizzazione della
politica municipale (Baldini e Legnante 2000), sulla maggiore stabilità degli
esecutivi ed sul tendenziale miglioramento della loro capacità di proporre
politiche (Catanzaro et. al. 2002).
D’altra parte la nuova vocazione delle assemblee elettive sembra poco
chiara; la riforma si proponeva di evitare l’assemblearismo dei consigli
1
Ad esempio, se i consiglieri comunali fossero soltanto uomini di partito sarebbe certo utile verificare
l’esistenza degli altri requisiti del “responsible party model”. Al contrario, se i rappresentanti locali
rispondessero esclusivamente ai propri elettori, non ammettendo alcuna rivendicazione concorrente del
partito, sarebbe più conveniente utilizzare un altro approccio
3
comunali e le inefficienze dovute all’infiltrarsi dei consiglieri nelle micro-
decisioni amministrative, viste come strumento indebito nell’acquisizione del
consenso elettorale. Piuttosto, i consigli avrebbero dovuto acquisire un maggior
potere di controllo sull’esecutivo, conservando al tempo stesso il ruolo di
indirizzo sulle grandi scelte comunali. A dieci anni di distanza, sembra che la
riforma abbia centrato i suoi obiettivi principali al prezzo di mortificare i
consiglieri; recenti indagini li descrivono infatti “sconsolati dalla marginalità del
proprio ruolo” (Brasca e Morisi 2003), e senza un’idea precisa di come
ricostruirlo. Tutto questo, anche se la lettera della legge conferisce poteri
abbastanza rilevanti alle assemblee, che devono approvare il bilancio e possono
mandare a casa la giunta. La percezione di inefficacia che pervade le nostre
assemblee locali non va presa alla leggera; l’equilibrio del nuovo sistema locale
avrebbe bisogno di consiglieri motivati ed in grado di aiutare la giunta a fare ciò
che essa non può. In particolare il consiglio dovrebbe essere capace sia di
controllare l’attuazione del programma elettorale, sia di porre all’attenzione
dell’esecutivo le voci della società locale, che non può che essere rappresentata
solo in parte da un organo esecutivo. Lo studio dei ruoli di rappresentanza
potrebbe dare qualche indicazione su come i consiglieri si stiano adattando alle
loro nuove funzioni. In questa situazione, crediamo che un esercizio (altrimenti
solo intellettuale) come la definizione di stili e ruoli di rappresentanza possa
trovare una sua utilità pratica.
Il Primo Capitolo è una lunga descrizione dei consigli comunali da più
punti di vista; in primo luogo, dopo lettura del “momento” che sta attraversando
la politica locale, è sembrato necessario riassumere il nuovo quadro normativo
seguito all’elezione diretta del sindaco ed alle nuove competenze dei consigli.
D’altra parte le competenze devono essere esercitate da degli individui concreti,
con il loro bagaglio risorse e di capacità. Per questa ragione alla descrizione
normativa ne segue una sociologica; chi sono i nuovi consiglieri comunali? Che
professioni esercitano? Il livello d’istruzione si è alzato od è peggiorato? Il
Capitolo si conclude con una riflessione più generale sul ruolo che i consigli
dovrebbero svolgere nel nuovo sistema, anche alla luce delle trasformazioni che
stanno investendo la governance di tutte le istituzioni politiche che conosciamo,
senza riguardo per il livello territoriale.
4
Con il secondo capitolo si è cercato di assolvere due compiti
fondamentali nell’economia di una ricerca; la formazione di concetti chiari
(Parte Prima) e l’enunciazione di alcune ipotesi di lavoro (Parte seconda). Uno
studio empirico sui ruoli di rappresentanza pone alcune difficoltà concettuali,
dato che l’idea di rappresentanza non è delle più semplici; si è quindi passata in
rassegna la letteratura al riguardo per adottare una definizione condivisibile e
soprattutto chiara. Scendendo invece ai ruoli di rappresentanza abbiamo
abbracciato la classica distinzione in “oggetti” e “stili”, che pure ha richiesto un
certo adattamento al livello territoriale su cui ci siamo concentrati. Definiti i
concetti, sarà possibile formulare alcune ipotesi su quali variabili incidano
maggiormente nell’assunzione di certi ruoli, ovvero nella scelta di quali
interessi rappresentare e di come farlo. L’accento più forte l’abbiamo posto su
una variabile personale, la motivazione del consigliere a svolgere il suo
servizio; ma abbiamo considerato molti altri fattori quali la dimensione del
comune, l’appartenenza politica e le principali variabili biografiche.
Il Terzo Capitolo presenta i risultati dell’analisi empirica; varrà quindi la
pena di spiegare i suoi tratti fondamentali. Per questo lavoro abbiamo potuto
elaborare circa 260 questionari compilati dai consiglieri comunali di 16 comuni
toscani. Gran parte di questi, circa 180, sono stati realizzati per una ricerca
condotta dalla Prof. Annick Magnier dell’Università di Firenze, e
commissionata dal consiglio comunale della medesima città. I risultati di quella
ricerca sono stati presentati al Convegno “Rappresentanza politica nel Governo
Locale: il ruolo delle assemblee elettive”, che si è tenuto a Firenze nel Luglio
del 2002. I consiglieri coinvolti appartenevano prevalentemente ai comuni
capoluogo; per correggere questa distorsione sono stati raccolti altri 80
questionari in 4 comuni, realizzati con modalità e domande identiche ai
precedenti. Dato che la preparazione dei questionari è stata antecedente al
disegno della nostra ricerca, l’operazionalizzazione dei concetti ha dovuto
tenere conto della forma con cui i dati si sono resi disponibili. La discussione di
questi aspetti è sviluppata per esteso nel capitolo finale.
5
CAPITOLO PRIMO
La nuova stagione della politica locale
Chiunque sfogli gli studi sulla politica locale degli ultimi anni non potrà fare a
meno di notare la frequenza (sempre maggiore) con cui si parla di “democrazia
locale” per descrivere la vita di comuni e province: gli stessi enti che fino a
qualche decennio prima venivano appellati di norma “la periferia del sistema
politico”. Questo cambiamento linguistico è diretta conseguenza della nuova
stagione della politica locale, prontamente seguita da una nuova attenzione
accademica. Il governo locale è divenuto più importante sia nella pratica sia
nella teoria della democrazia, a causa di una serie di ragioni che coinvolgono
tutto il mondo occidentale: la crisi della rappresentanza e la globalizzazione
economica e culturale (o crisi dello stato nazione). A queste cause generali se
ne aggiunge una tutta italiana, la trasformazione che ha colpito il nostro sistema
politico agli inizi degli anni novanta.
Con riferimento al primo fenomeno bisogna premettere che parlando di
“crisi” non intendiamo tanto un fenomeno reale di degradamento della relazione
rappresentativa, quanto una serie di riflessioni critiche con l’essenza stessa della
rappresentanza così come si è affermata nelle democrazie contemporanee2.
L’obiezione principale al carattere democratico della rappresentanza trova la
sua esposizione più coerente nel pensiero di un filosofo politico contemporaneo,
Benjamin Barber. Il rappresentante moderno agisce principalmente secondo il
suo “giudizio indipendente”, e la sua democraticità risiede in tre momenti:
inizialmente egli riceve l’investitura popolare in elezioni libere (sulla base di un
programma, con l’etichetta di un partito, per la stima che si è guadagnato...),
durante il suo mandato segue le sue convinzioni sul bene pubblico, ed infine
viene premiato o punito alle successive elezioni a seconda della sua condotta:
secondo questa teoria chi perde il contatto con l’elettorato viene “rispedito a
casa”, ed il circuito della rappresentanza si ripara automaticamente. La critica
classica a questo modello viene derivata dalle conclusioni della teoria elitista,
secondo la quale non ci può essere uguaglianza tra rappresentati e
rappresentanti poichè questi ultimi, una volta giunti al potere, assumono un
2
Per un approfondimento vedi il capitolo 1 di questo lavoro.
6
nuovo status e quindi nuovi interessi, diversi da coloro che pretendono di
rappresentare3. Inoltre anche il momento della scelta elettorale è viziato da
limiti evidenti, quali l’incapacità del cittadino medio di sapere quale è stata la
condotta del rappresentante che chiede la riconferma. Questi sono i motivi
principali per cui quella rappresentativa sarebbe divenuta una forma “debole” di
democrazia (thin democracy): per superarla Barber (1984) ed i suoi molti
seguaci propongono di aumentare radicalmente la partecipazione dei cittadini,
dando origine a ad un modello di democrazia “forte” o deliberative democracy4.
La democrazia deliberativa sarebbe un sistema in cui le decisioni emergono da
approfondite discussioni tra rappresentati e i loro rappresentanti, in un processo
che dovrebbe prevedere sereni dibattiti capaci di far emergere nuove posizioni.
Questa ricetta, che tuttora influenza alcuni tentativi di decision making
(soprattutto a livello locale), ha attirato numerose critiche, alcune delle quali
simili a quelle rivolte in passato alle democrazie dirette. La partecipazione non
potrebbe essere estesa oltre certi limiti per problemi legati al tempo che ogni
cittadino ha a disposizione, allo scarso interesse per la politica, alla mancanza di
informazioni e competenze. Senza entrare nel merito del dibattito si nota
chiaramente che tutti questi problemi si verificano tanto più imponentemente
all’aumentare della dimensione della comunità politica e alla complessità dei
problemi da affrontare.
Un modello di democrazia partecipata sarebbe allora più praticabile nel
contesto locale che in quello nazionale: è quello che pensarono i Liberal-
Democratici Inglesi quando nel 1988 adottarono la strategia della “Community
Politics”. Dagli studi sinora realizzati si nota come i consiglieri appartenenti al
partito Liberal-Democratico attiribuiscono veramente molta più importanza agli
aspetti rappresentativi del loro ruolo e al rapporto diretto con gli elettori rispetto
ai loro colleghi dei due partiti maggiori: seppur il bilancio provvisorio di
quell’esperienza non può essere completamente positivo (Meadowcroft 2001) il
successo dei Liberali a livello locale dimostra che la “Community Politics” va
veramente incontro ad un bisogno diffuso degli elettori, che chiedono oggi
come mai governi locali ricettivi e responsabili (Rao 1998). D’altra parte ci
3
Oltre ai lavori classici di Mosca, Michels e Pareto si veda Dryzck 2000 al Cap 1
4
Ovvero democrazia deliberativa: ma in italiano si perde molto del senso dell’aggettivo inglese
“deliberative”, che pone l’accento più sull’approfondito dibattito precedente alla decisione che su
questa stessa. La deliberative democracy è una democrazia in cui molti soggetti partecipano alle
decisioni ricercando soluzioni a “somma positiva”.
7
sono altri segni chiari di questa nuova importanza che la politica locale sta
assumendo: anche il dibattito sulla sussidiarietà e sulla multi-level governance,
così attuali in Europa ed in Italia, traggono linfa dalla convinzione che sia
opportuno prendere le decisioni al livello più “basso” possibile, nell’istituzione
più vicina al cittadino. In conclusione si può dire che nella teoria democratica
attuale (o meglio, in una sua parte rilevante) si denuncia uno svuotamento del
principio rappresentativo, che sarebbe minato da una serie di cause relative alla
dimensione della comunità politica e alla distanza tra istituzioni e cittadini. Lo
spostamento di funzioni importanti a livello locale darebbe così la possibilità ai
cittadini di partecipare più direttamente e di valutare meglio l’opera dei propri
governanti. Lo spostamento dei “centri del potere” ad un livello più vicino a
quello degli elettori potrebbe consentire una maggiore qualità complessiva del
rapporto rappresentativo, che manterrebbe intatta la sua natura ma allo stesso
tempo sarebbe libertato da vari ostacoli di natura pratica.
Se a prima vista globalizzazione e governo locale non sembrano avere
nulla in comune, un’analisi più approfondita mostra un quadro più complesso.
La nuova possibilità di scambiare facilmente5 beni, servizi ed informazioni
nell’intero globo ha acceso il dibattito sulla “crisi dello stato nazione” (Ohmae
1995). Se lo stato nazione si è arrogato la sovranità assoluta e centralizzata ciò è
successo perché i suoi confini delimitavano un sistema relativamente chiuso, da
un punto di vista sia economico sia culturale. Quando queste condizioni non
esistono più, l’importanza dello stato nazione cade: secondo Kenichi Ohmae
questo fenomeno si sta già verificando, soprattutto a causa dell’accesso
universale ai flussi di comunicazione. Ogni insieme locale di individui sa (o
meglio, può sapere) come vivono, cosa pensano, come si organizzano, cosa
consumano gli altri infiniti gruppi che vivono sul pianeta. Inoltre, anche le
piccole realtà economiche possono creare delle relazioni importanti con soggetti
che vivono in paesi lontani, senza dover passare per intermediari a livello
statale. La relazione diviene immediata, e così cresce il desiderio di influire
direttamente sui fenomeni rilevanti che accadono in luoghi lontani. In altre
5
“facilmente” è la parola chiave di questa descrizione. Pur non potendo discutere in questa sede
la definizione di “globalizzazione”, è necessario ricordare che essa non può ridursi a “scambio
di beni e servizi a livello internazionale”. Questo esisteva già da decenni, forse da secoli;
neanche si può parlare di “maggiore interdipendenza” del mondo moderno, essendo provato
che oggi si commercia percentualmente meno che all’inizio del secolo (Andreatta 2003). La
novità sembra stare invece nella rivoluzione tecnologica, che rende appunto “facile” la
comunicazione ed il commercio con l’intero globo.
8
parole il locale si scopre direttamente in relazione con il globale, dove è libero
di perseguire i propri interessi economici e culturali: per avere un esempio
concreto di questo fenomeno basta pensare alla capacità internazionale che
hanno acquisito le Regioni italiane, i cui Presidenti viaggiano sempre più spesso
all’estero. Gli ambiti locali divengono insomma luoghi di decisione e “motori di
integrazione” (Magnier 2001) della globalizzazione culturale ed economica,
acquistando quindi maggiore importanza e considerazione anche di fronte allo
stato centrale.
Scendendo alla situazione italiana non si può tacere l’impatto della crisi
del regime politico che dopo gli eventi del 1992 è stato decapitato dalle
inchieste giudiziarie sulla corruzione. Gli scandali di “Tangentopoli” e lo
sfaldamento del sistema partitico italiano ebbe infatti conseguenze fatali anche
per la politica locale, dove anche alleanze storiche cominciarono a cadere anche
sotto il peso di inchieste giudiziare. In pochi mesi cadono le giunte di Torino,
Milano, Napoli, Roma e Genova, per citare soltanto le più importanti; le
elezioni anticipate non servirono che da rimedio temporaneo per non lasciare
città senza alcuna amministrazione, ma non potevano risolvere il vero
problema. In realtà era lo stesso tessuto democratico del paese ad essere in crisi,
poichè nessuna istituzione politica poteva godere della fiducia dei cittadini;
anche gli enti locali, tradizionalmente più vicini all’elettorato, avevano dissipato
la proprio credibilità. La natura della politica comunale, che stava già
cambiando a seguito della riforma delle autonomia locali avviata dalla legge
124/1990, ha subito un’altra e più imponente scossa con la legge 81 del 1993,
che ha modificato sia la forma di governo dei comuni sia la procedura elettorale
per i sindaci ed i consigli comunali. Nel resto del capitolo ci concentreremo sui
cambiamenti subiti dai comuni italiani, ed in particolare su come questi abbiano
influenzato il ruolo del rappresentante locale per eccellenza: il consigliere
comunale.
Il nuovo quadro normativo
Con la legge 142/1990 si apre la fase della trasformazione degli enti locali
italiani, che nelle intenzioni del legislatore doveva renderli più efficienti e
9
genuinamente rappresentativi. Una delle maggiori innovazioni introdotte
consiste nell’attribuzione alla legge regionale del compito di specificare le
competenze di comuni e province: agli stessi comuni invece è affidato il
compito di darsi uno statuto che regoli le attribuzioni di ogni organo. A queste
importanti novità non corrispose però una maggiore stabilità politica, che fu
anzi ancora ostacolata dai ricordati eventi dei primi anni novanta.
Il legislatore intervene nuovamente, e più incisivamente, con la legge 81
del 19936, varata grazie alla spinta (o meglio, al pungolo) dell’imponente
movimento referendario che scosse l’Italia. La riforma si proponeva varie
finalità, anche se tutte riconducibili al tentativo di ridare efficienza e legittimità
alle istituzioni locali. Più in particolare (concentrandoci sui comuni) il
legislatore voleva7
1. ridurre la frammentazione e l’assemblearismo dei consigli comunali
2. dare stabilità e durata ai governi locali
3. ampliare i poteri di scelta della maggioranza e del governo da parte dei
cittadini
4. aumentare la partecipazione dei cittadini non solo al momento del voto
ma stabilmente, cercando quindi di cambiare i rapporti cittadini-istituzioni
Schematicamente si possono riassumere gli strumenti che furono considerati atti
allo scopo:
1. Elezione diretta del sindaco
2. Estensione del sistema maggioritario per l’elezione del consiglio
comunale ai comuni sino a 15000 abitanti (era 5000)
3. Introduzione dei premi di maggioranza per la formazione dei consigli
dei comuni oltre i 15000 abitanti.
A queste misure si aggiungevano una serie di nuovi rapporti tra consigli
e istituzioni esecutive (sindaco e giunta), che secondo Alberto Zucchetti (in
Bassani et Al 1999, cap1) configurano un sistema di governo neo-
parlamentare. L’esecutivo, reso più stabile da salde maggioranze, si regge sulla
fiducia del consiglio, che per legge deve dare la sua approvazione all’indirizzo
6
Si passa in rassegna il nuovo sistema nella convinzione, formata anche in colloqui con testimoni
privilegiati, che influisca direttamente sul ruolo e sulle percezioni dei consiglieri comunali. La
riforma di cui parliamo è quella dettata dalla legge 81 del 1993 come modificata dalla legge 415 del
93 e dalla 120 del 1999. La materia è oggi regolata dal Testo Unico sugli Enti Locali (TUEL), dl
267/2000.
7
Queste considerazioni, e gran parte di quelle che seguono, sono dovute a Bassani et al 1999.
10
politico di governo. Il consiglio può quindi sfiduciare il sindaco o la giunta, ed a
sua volta il sindaco può sciogliere il consiglio. Nel primo caso anche il
consiglio si scioglie, ed anche nel secondo sindaco e giunta si condannano a
decadere. Nell’intenzione del legislatore questa serie di poteri e contro-poteri
dovrebbe assicurare stabilità alle istituzioni, garantita (entro certi livelli) anche
in presenza di conflitti da potenziali minacce incrociate.
Da un punto di vista puramente giuridico i consigli sono titolari di un
potere consistente (Barrera 1993): l’assemblea elettiva rimane l’organo di
indirizzo e di controllo politico, ed anche se perde la competenza generale (a
favore delle giunte) rimane titolare di prerogative molto rilevanti. Oltre a poter
sfiduciare la giunta, il consiglio deve approvare il bilancio e tutte le sue
variazioni, controllando così le politiche dell’ente. Inoltre il consiglio nomina il
collegio dei revisori, e nei comuni sopra i 15000 abitanti è presieduto non dal
sindaco ma da un consigliere che ne preserva l’autonomia dalla giunta. I
consiglieri comunali godono di alcune prerogative che gli permettono sia di
partecipare attivamente alla vita politica dell’ente (gli è attribuito il diritto di
iniziativa su ogni questione sottoposta al consiglio) sia di esercitare pressioni
sulla giunta, tramite interrogazioni ed altri strumenti ispettivi (per i quali
possono ottenere tutte le informazioni dagli uffici comunali).
Questo quadro normativo distingue per la prima volta in modo chiaro i
compiti di consiglio e giunta: questa, anche grazie alla nuova legittimità del
sindaco eletto direttamente, amministra il comune e sviluppa le politiche,
mentre l’assemblea dovrebbe garantire un’efficace rappresentanza contribuendo
all’indirizzo politico, vigilando sull’attuazione del programma e facendo valere
le istanze dei cittadini.
Per quanto riguarda la composizione dei nuovi consigli comunali
bisogna notare come il sindaco faccia parte del consiglio ope legis,
aggiungendosi così agli altri membri previsti. Il numero di consiglieri è ridotto
per ogni classe di comuni, ma proporzionalmente sono i grandi comuni ad aver
subito la riduzione più consistente. Infatti mentre questi avevano manifestato
tendenze pletoriche ed assembleari, nei piccoli, tendenzialmente meno litigiosi,
si è ritenuto prioritario difendere la rappresentatività. La riduzione numerica dei
consiglieri, come è noto, può determinare effetti di tipo maggioritario elevando
il quoziente elettorale necessario per l’elezione come se fosse introdotta una
11
soglia di sbarramento formale: ciò dovrebbe quindi spingere verso una
semplificazione del sistema partitico8 aumentando la stabilità. Secondo l’art. 37
del Testo Unico sugli Enti Locali (TUEL) il consiglio comunale è composto dal
sindaco e:
da 60 membri nei comuni con popolazione superiore ad un milione di abitanti;
da 50 membri nei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti;
da 46 membri nei comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti;
da 40 membri nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti o che,
pur avendo popolazione inferiore, siano capoluoghi di provincia;
da 30 membri nei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti;
da 20 membri nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti;
da 16 membri nei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti;
da 12 membri negli altri comuni.
Le candidature possono essere presentate solo in liste, che possono essere o
meno collegate ad un partito politico. Ai sensi dell’art.5 della legge 81 del 1993
i candidati della lista non possono essere mai superiori al numero dei consiglieri
da eleggere e non inferiori ai 3/4 o ai 2/3 degli eleggibili nel consiglio
(rispettivamente nei comuni al di sotto ed al di sopra dei 15000 abitanti). I
cittadini dell’Unione Europea residenti nel comune possono essere candidati.
La procedura elettorale, come abbiamo già detto, si differenzia a
seconda che i comuni superino o no la popolazione di 15.000 abitanti: nei
comuni inferiori a questa soglia si usa il maggioritario semplice per il sindaco e
il maggioritario di lista per i consigli comunali. L’elettore deve votare per il
candidato sindaco ed eventualmente per uno dei consiglieri incluso nella lista
collegata al primo. L’elezione del sindaco è immediata, venendo scelto il
candidato che ha riscosso il maggior numero di preferenze: alla lista vincente
sono assegnati automaticamente i ¾ dei seggi consiliari, senza riguardo per i
voti realmente conquistati. Alle liste sconfitte va il rimanente quarto dei seggi,
divisi proporzionalmente alle preferenze riscosse. Si assicura così al sindaco
eletto una maggioranza numericamente solidissima e si stimola la formazione di
pochissime liste contrapposte, che possano così aggregare e semplificare il
quadro politico. Ai candidati consiglieri vengono attribuiti i voti assegnati al
8
Sul punto, e più in generale sul rapporto sistemi elettoriali/sistemi partitici, si veda Pappalardo 2003.