2 
quelle dei rappresentati, che tanta parte hanno nello studio attuale delle 
assemblee elettive (anche in forme molto diverse dalle originali). Questo 
secondo punto di vista è particolarmente attraente, perché permette di arrivare a 
valutazioni di merito che sono invece precluse dallo studio descrittivo del 
rapporto rappresentativo, che utilizza concetti neutri. D’altra parte la descrizione 
pura appare necessaria come esigenza preliminare alla valutazione; è grazie ad 
essa che si possono scoprire aspetti rilevanti di un sistema politico poco 
conosciuto. Valutare qualcosa di cui non si conosce il funzionamento rischia di 
essere un procedimento superficiale; scoprire gli oggetti rappresentativi a cui i 
consiglieri si sentono più legati è fondamentale per una successiva scelta dei 
metodi di valutazione del rapporto rappresentativo1. In mancanza di conoscenze 
appropriate, è doveroso investigare i modelli di comportamento e le auto-
percezioni dei rappresentanti, che forniscono il primo mattone di un’analisi più 
approfondita. La prima ragione di questo studio è allora l’esplorazione di un 
contesto parzialmente nuovo. 
 L’analisi della politica municipale italiana ha riscosso un certo interesse 
in questi ultimi anni. Infatti, tra le molte novità portate dal ciclone che ha 
investito l’Italia nella prima metà degli anni novanta, una delle più rilevanti è 
stata la riforma del sistema elettorale e del funzionamento dei comuni. Dal 1993 
è nata una nuova forma di governo locale, da molti chiamata neo-parlamentare. 
In primo luogo l’elezione diretta del sindaco, con la creazione di un rapporto più 
diretto tra elettori ed esecutivo, ma anche le diverse ripartizioni di poteri tra 
consigli e giunta hanno modificato notevolmente il funzionamento dei comuni. 
Se all’influenza delle nuove regole del gioco si aggiunge la crisi del sistema 
partitico, ci troviamo di fronte ad un sistema assai diverso dal precedente. Fino 
ad adesso gli osservatori hanno posto l’accento sulla personalizzazione della 
politica municipale (Baldini e Legnante 2000), sulla maggiore stabilità degli 
esecutivi ed sul tendenziale miglioramento della loro capacità di proporre 
politiche (Catanzaro et. al. 2002).  
D’altra parte la nuova vocazione delle assemblee elettive sembra poco 
chiara; la riforma si proponeva di evitare l’assemblearismo dei consigli 
                                               
1
 Ad esempio, se i consiglieri comunali fossero soltanto uomini di partito sarebbe certo utile verificare 
l’esistenza degli altri requisiti del “responsible party model”. Al contrario, se i rappresentanti locali 
rispondessero esclusivamente ai propri elettori, non ammettendo alcuna rivendicazione concorrente del 
partito, sarebbe più conveniente utilizzare un altro approccio 
 3 
comunali e le inefficienze dovute all’infiltrarsi dei consiglieri nelle micro-
decisioni amministrative, viste come strumento indebito nell’acquisizione del 
consenso elettorale. Piuttosto, i consigli avrebbero dovuto acquisire un maggior 
potere di controllo sull’esecutivo, conservando al tempo stesso il ruolo di 
indirizzo sulle grandi scelte comunali. A dieci anni di distanza, sembra che la 
riforma abbia centrato i suoi obiettivi principali al prezzo di mortificare i 
consiglieri; recenti indagini li descrivono infatti “sconsolati dalla marginalità del 
proprio ruolo” (Brasca e Morisi 2003), e senza un’idea precisa di come 
ricostruirlo. Tutto questo, anche se la lettera della legge conferisce poteri 
abbastanza rilevanti alle assemblee, che devono approvare il bilancio e possono 
mandare a casa la giunta. La percezione di inefficacia che pervade le nostre 
assemblee locali non va presa alla leggera; l’equilibrio del nuovo sistema locale 
avrebbe bisogno di consiglieri motivati ed in grado di aiutare la giunta a fare ciò 
che essa non può. In particolare il consiglio dovrebbe essere capace sia di 
controllare l’attuazione del programma elettorale, sia di porre all’attenzione 
dell’esecutivo le voci della società locale, che non può che essere rappresentata 
solo in parte da un organo esecutivo. Lo studio dei ruoli di rappresentanza 
potrebbe dare qualche indicazione su come i consiglieri si stiano adattando alle 
loro nuove funzioni. In questa situazione, crediamo che un esercizio (altrimenti 
solo intellettuale) come la definizione di stili e ruoli di rappresentanza possa 
trovare una sua utilità pratica. 
Il Primo Capitolo è una lunga descrizione dei consigli comunali da più 
punti di vista; in primo luogo, dopo lettura del “momento” che sta attraversando 
la politica locale, è sembrato necessario riassumere il nuovo quadro normativo 
seguito all’elezione diretta del sindaco ed alle nuove competenze dei consigli. 
D’altra parte le competenze devono essere esercitate da degli individui concreti, 
con il loro bagaglio risorse e di capacità. Per questa ragione alla descrizione 
normativa ne segue una sociologica; chi sono i nuovi consiglieri comunali? Che 
professioni esercitano? Il livello d’istruzione si è alzato od è peggiorato? Il 
Capitolo si conclude con una riflessione più generale sul ruolo che i consigli 
dovrebbero svolgere nel nuovo sistema, anche alla luce delle trasformazioni che 
stanno investendo la governance di tutte le istituzioni politiche che conosciamo, 
senza riguardo per il livello territoriale.  
 4 
 Con il secondo capitolo si è cercato di assolvere due compiti 
fondamentali nell’economia di una ricerca; la formazione di concetti chiari 
(Parte Prima) e l’enunciazione di alcune ipotesi di lavoro (Parte seconda). Uno 
studio empirico sui ruoli di rappresentanza pone alcune difficoltà concettuali, 
dato che l’idea di rappresentanza non è delle più semplici; si è quindi passata in 
rassegna la letteratura al riguardo per adottare una definizione condivisibile e 
soprattutto chiara. Scendendo invece ai ruoli di rappresentanza abbiamo 
abbracciato la classica distinzione in “oggetti” e “stili”, che pure ha richiesto un 
certo adattamento al livello territoriale su cui ci siamo concentrati. Definiti i 
concetti, sarà possibile formulare alcune ipotesi su quali variabili incidano 
maggiormente nell’assunzione di certi ruoli, ovvero nella scelta di quali 
interessi rappresentare e di come farlo. L’accento più forte l’abbiamo posto su 
una variabile personale, la motivazione del consigliere a svolgere il suo 
servizio; ma abbiamo considerato molti altri fattori quali la dimensione del 
comune, l’appartenenza politica e le principali variabili biografiche. 
 Il Terzo Capitolo presenta i risultati dell’analisi empirica; varrà quindi la 
pena di spiegare i suoi tratti fondamentali. Per questo lavoro abbiamo potuto 
elaborare circa 260 questionari compilati dai consiglieri comunali di 16 comuni 
toscani. Gran parte di questi, circa 180, sono stati realizzati per una ricerca 
condotta dalla Prof. Annick Magnier dell’Università di Firenze, e 
commissionata dal consiglio comunale della medesima città. I risultati di quella 
ricerca sono stati presentati al Convegno “Rappresentanza politica nel Governo 
Locale: il ruolo delle assemblee elettive”, che si è tenuto a Firenze nel Luglio 
del 2002. I consiglieri coinvolti appartenevano prevalentemente ai comuni 
capoluogo; per correggere questa distorsione sono stati raccolti altri 80 
questionari in 4 comuni, realizzati con modalità e domande identiche ai 
precedenti. Dato che la preparazione dei questionari è stata antecedente al 
disegno della nostra ricerca, l’operazionalizzazione dei concetti ha dovuto 
tenere conto della forma con cui i dati si sono resi disponibili. La discussione di 
questi aspetti è sviluppata per esteso nel capitolo finale.  
 
 
 
 5 
CAPITOLO PRIMO 
 
La nuova stagione della politica locale 
 
Chiunque sfogli gli studi sulla politica locale degli ultimi anni non potrà fare a 
meno di notare la frequenza (sempre maggiore) con cui si parla di “democrazia 
locale” per descrivere la vita di comuni e province: gli stessi enti che fino a 
qualche decennio prima venivano appellati di norma “la periferia del sistema 
politico”. Questo cambiamento linguistico è diretta conseguenza della nuova 
stagione della politica locale, prontamente seguita da una nuova attenzione 
accademica. Il governo locale è divenuto più importante sia nella pratica sia 
nella teoria della democrazia, a causa di una serie di ragioni che coinvolgono 
tutto il mondo occidentale: la crisi della rappresentanza e la globalizzazione 
economica e culturale (o crisi dello stato nazione). A queste cause generali se 
ne aggiunge una tutta italiana, la trasformazione che ha colpito il nostro sistema 
politico agli inizi degli anni novanta. 
Con riferimento al primo fenomeno bisogna premettere che parlando di 
“crisi” non intendiamo tanto un fenomeno reale di degradamento della relazione 
rappresentativa, quanto una serie di riflessioni critiche con l’essenza stessa della 
rappresentanza così come si è affermata nelle democrazie contemporanee2. 
L’obiezione principale al carattere democratico della rappresentanza trova la 
sua esposizione più coerente nel pensiero di un filosofo politico contemporaneo, 
Benjamin Barber. Il rappresentante moderno agisce principalmente secondo il 
suo “giudizio indipendente”, e la sua democraticità risiede in tre momenti: 
inizialmente egli riceve l’investitura popolare in elezioni libere (sulla base di un 
programma, con l’etichetta di un partito, per la stima che si è guadagnato...), 
durante il suo mandato segue le sue convinzioni sul bene pubblico, ed infine 
viene premiato o punito alle successive elezioni a seconda della sua condotta: 
secondo questa teoria chi perde il contatto con l’elettorato viene “rispedito a 
casa”, ed il circuito della rappresentanza si ripara automaticamente. La critica 
classica a questo modello viene derivata dalle conclusioni della teoria elitista, 
secondo la quale non ci può essere uguaglianza tra rappresentati e 
rappresentanti poichè questi ultimi, una volta giunti al potere, assumono un 
                                               
2
 Per un approfondimento vedi il capitolo 1 di questo lavoro. 
 6 
nuovo status e quindi nuovi interessi, diversi da coloro che pretendono di 
rappresentare3. Inoltre anche il momento della scelta elettorale è viziato da 
limiti evidenti, quali l’incapacità del cittadino medio di sapere quale è stata la 
condotta del rappresentante che chiede la riconferma. Questi sono i motivi 
principali per cui quella rappresentativa sarebbe divenuta una forma “debole” di 
democrazia (thin democracy): per superarla Barber (1984) ed i suoi molti 
seguaci propongono di aumentare radicalmente la partecipazione dei cittadini, 
dando origine a ad un modello di democrazia “forte” o deliberative democracy4. 
La democrazia deliberativa sarebbe un sistema in cui le decisioni emergono da 
approfondite discussioni tra rappresentati e  i loro rappresentanti, in un processo 
che dovrebbe prevedere sereni dibattiti capaci di far emergere nuove posizioni. 
Questa ricetta, che tuttora influenza alcuni tentativi di decision making 
(soprattutto a livello locale), ha attirato numerose critiche, alcune delle quali 
simili a quelle rivolte in passato alle democrazie dirette. La partecipazione non 
potrebbe essere estesa oltre certi limiti per problemi legati al tempo che ogni 
cittadino ha a disposizione, allo scarso interesse per la politica, alla mancanza di 
informazioni e competenze. Senza entrare nel merito del dibattito si nota 
chiaramente che tutti questi problemi si verificano tanto più imponentemente 
all’aumentare della dimensione della comunità politica e alla complessità dei 
problemi da affrontare.  
Un modello di democrazia partecipata sarebbe allora più praticabile nel 
contesto locale che in quello nazionale: è quello che pensarono i Liberal-
Democratici Inglesi quando nel 1988 adottarono la strategia della “Community 
Politics”. Dagli studi sinora realizzati si nota come i consiglieri appartenenti al 
partito Liberal-Democratico attiribuiscono veramente molta più importanza agli 
aspetti rappresentativi del loro ruolo e al rapporto diretto con gli elettori rispetto 
ai loro colleghi dei due partiti maggiori: seppur il bilancio provvisorio di 
quell’esperienza non può essere completamente positivo (Meadowcroft 2001) il 
successo dei Liberali a livello locale dimostra che la “Community Politics” va 
veramente incontro ad un bisogno diffuso degli elettori, che chiedono oggi 
come mai governi locali ricettivi e responsabili (Rao 1998). D’altra parte ci 
                                               
3
 Oltre ai lavori classici di Mosca, Michels e Pareto si veda Dryzck 2000 al Cap 1 
4
 Ovvero democrazia deliberativa: ma in italiano si perde molto del senso dell’aggettivo inglese 
“deliberative”, che pone l’accento più sull’approfondito dibattito precedente alla decisione che su 
questa stessa. La deliberative democracy è una democrazia in cui molti soggetti partecipano alle 
decisioni ricercando soluzioni a “somma positiva”. 
 7 
sono altri segni chiari di questa nuova importanza che la politica locale sta 
assumendo: anche il dibattito sulla sussidiarietà e sulla multi-level governance, 
così attuali in Europa ed in Italia, traggono linfa dalla convinzione che sia 
opportuno prendere le decisioni al livello più “basso” possibile, nell’istituzione 
più vicina al cittadino. In conclusione si può dire che nella teoria democratica 
attuale (o meglio, in una sua parte rilevante) si denuncia uno svuotamento del 
principio rappresentativo, che sarebbe minato da una serie di cause relative alla 
dimensione della comunità politica e alla distanza tra istituzioni e cittadini. Lo 
spostamento di funzioni importanti a livello locale darebbe così la possibilità ai 
cittadini di partecipare più direttamente e di valutare meglio l’opera dei propri 
governanti. Lo spostamento dei “centri del potere” ad un livello più vicino a 
quello degli elettori potrebbe consentire una maggiore qualità complessiva del 
rapporto rappresentativo, che manterrebbe intatta la sua natura ma allo stesso 
tempo sarebbe libertato da vari ostacoli di natura pratica. 
Se a prima vista globalizzazione e governo locale non sembrano avere 
nulla in comune, un’analisi più approfondita mostra un quadro più complesso. 
La nuova possibilità di scambiare facilmente5 beni, servizi ed informazioni 
nell’intero globo ha acceso il dibattito sulla “crisi dello stato nazione” (Ohmae 
1995). Se lo stato nazione si è arrogato la sovranità assoluta e centralizzata ciò è 
successo perché i suoi confini delimitavano un sistema relativamente chiuso, da 
un punto di vista sia economico sia culturale. Quando queste condizioni non 
esistono più, l’importanza dello stato nazione cade: secondo Kenichi Ohmae 
questo fenomeno si sta già verificando, soprattutto a causa dell’accesso 
universale ai flussi di comunicazione. Ogni insieme locale di individui sa (o 
meglio, può sapere) come vivono, cosa pensano, come si organizzano, cosa 
consumano gli altri infiniti gruppi che vivono sul pianeta. Inoltre, anche le 
piccole realtà economiche possono creare delle relazioni importanti con soggetti 
che vivono in paesi lontani, senza dover passare per intermediari a livello 
statale. La relazione diviene immediata, e così cresce il desiderio di influire 
direttamente sui fenomeni rilevanti che accadono in luoghi lontani. In altre 
                                               
5
 “facilmente” è la parola chiave di questa descrizione. Pur non potendo discutere in questa sede 
la definizione di “globalizzazione”, è necessario ricordare che essa non può ridursi a “scambio 
di beni e servizi a livello internazionale”. Questo esisteva già da decenni, forse da secoli; 
neanche si può parlare di “maggiore interdipendenza” del mondo moderno, essendo provato 
che oggi si commercia percentualmente meno che all’inizio del secolo (Andreatta 2003). La 
novità sembra stare invece nella rivoluzione tecnologica, che rende appunto “facile” la 
comunicazione ed il commercio con l’intero globo.  
 8 
parole il locale si scopre direttamente in relazione con il globale, dove è libero 
di perseguire i propri interessi economici e culturali: per avere un esempio 
concreto di questo fenomeno basta pensare alla capacità internazionale che 
hanno acquisito le Regioni italiane, i cui Presidenti viaggiano sempre più spesso 
all’estero. Gli ambiti locali divengono insomma luoghi di decisione e “motori di 
integrazione” (Magnier 2001) della globalizzazione culturale ed economica, 
acquistando quindi maggiore importanza e considerazione anche di fronte allo 
stato centrale. 
 Scendendo alla situazione italiana non si può tacere l’impatto della crisi 
del regime politico che dopo gli eventi del 1992 è stato decapitato dalle 
inchieste giudiziarie sulla corruzione. Gli scandali di “Tangentopoli” e lo 
sfaldamento del sistema partitico italiano ebbe infatti conseguenze fatali anche 
per la politica locale, dove anche alleanze storiche cominciarono a cadere anche 
sotto il peso di inchieste giudiziare. In pochi mesi cadono le giunte di Torino, 
Milano, Napoli, Roma e Genova, per citare soltanto le più importanti; le 
elezioni anticipate non servirono che da rimedio temporaneo per non lasciare 
città senza alcuna amministrazione, ma non potevano risolvere il vero 
problema. In realtà era lo stesso tessuto democratico del paese ad essere in crisi, 
poichè nessuna istituzione politica poteva godere della fiducia dei cittadini; 
anche gli enti locali, tradizionalmente più vicini all’elettorato, avevano dissipato 
la proprio credibilità. La natura della politica comunale, che stava già 
cambiando a seguito della riforma delle autonomia locali avviata dalla legge 
124/1990, ha subito un’altra e più imponente scossa con la legge 81 del 1993, 
che ha modificato sia la forma di governo dei comuni sia la procedura elettorale 
per i sindaci ed i consigli comunali. Nel resto del capitolo ci concentreremo sui 
cambiamenti subiti dai comuni italiani, ed in particolare su come questi abbiano 
influenzato il ruolo del rappresentante locale per eccellenza: il consigliere 
comunale. 
 
 
Il nuovo quadro normativo 
 
Con la legge 142/1990 si apre la fase della trasformazione degli enti locali 
italiani, che nelle intenzioni del legislatore doveva renderli più efficienti e 
 9 
genuinamente rappresentativi. Una delle maggiori innovazioni introdotte 
consiste nell’attribuzione alla legge regionale del compito di specificare le 
competenze di comuni e province: agli stessi comuni invece è affidato il 
compito di darsi uno statuto che regoli le attribuzioni di ogni organo. A queste 
importanti novità non corrispose però una maggiore stabilità politica, che fu 
anzi ancora ostacolata dai ricordati eventi dei primi anni novanta. 
Il legislatore intervene nuovamente, e più incisivamente, con la legge 81 
del 19936, varata grazie alla spinta (o meglio, al pungolo) dell’imponente 
movimento referendario che scosse l’Italia. La riforma si proponeva varie 
finalità, anche se tutte riconducibili al tentativo di ridare efficienza e legittimità 
alle istituzioni locali. Più in particolare (concentrandoci sui comuni) il 
legislatore voleva7 
1. ridurre la frammentazione e l’assemblearismo dei consigli comunali 
2. dare stabilità e durata ai governi locali 
3. ampliare i poteri di scelta della maggioranza e del governo da parte dei 
cittadini 
4. aumentare la partecipazione dei cittadini non solo al momento del voto 
ma stabilmente, cercando quindi di cambiare i rapporti cittadini-istituzioni 
Schematicamente si possono riassumere gli strumenti che furono considerati atti 
allo scopo: 
1. Elezione diretta del sindaco 
2. Estensione del sistema maggioritario per l’elezione del consiglio 
comunale ai comuni sino a 15000 abitanti (era 5000) 
3. Introduzione dei premi di maggioranza per la formazione dei consigli 
dei comuni oltre i 15000 abitanti. 
A queste misure si aggiungevano una serie di nuovi rapporti tra consigli 
e istituzioni esecutive (sindaco e giunta), che secondo Alberto Zucchetti (in 
Bassani et Al 1999, cap1) configurano un sistema di governo neo-
parlamentare. L’esecutivo, reso più stabile da salde maggioranze, si regge sulla 
fiducia del consiglio, che per legge deve dare la sua approvazione all’indirizzo 
                                               
6
 Si passa in rassegna il nuovo sistema nella convinzione, formata anche in colloqui con testimoni 
privilegiati, che influisca direttamente sul ruolo e sulle percezioni dei consiglieri comunali. La 
riforma di cui parliamo è quella dettata dalla legge 81 del 1993 come modificata dalla legge 415 del 
93 e dalla 120 del 1999. La materia è oggi regolata dal Testo Unico sugli Enti Locali (TUEL), dl 
267/2000. 
7
 Queste considerazioni, e gran parte di quelle che seguono, sono dovute a Bassani et al 1999.  
 10 
politico di governo. Il consiglio può quindi sfiduciare il sindaco o la giunta, ed a 
sua volta il sindaco può sciogliere il consiglio. Nel primo caso anche il 
consiglio si scioglie, ed anche nel secondo sindaco e giunta si condannano a 
decadere. Nell’intenzione del legislatore questa serie di poteri e contro-poteri 
dovrebbe assicurare stabilità alle istituzioni, garantita (entro certi livelli) anche 
in presenza di conflitti da potenziali minacce incrociate. 
Da un punto di vista puramente giuridico i consigli sono titolari di un 
potere consistente (Barrera 1993): l’assemblea elettiva rimane l’organo di 
indirizzo e di controllo politico, ed anche se perde la competenza generale (a 
favore delle giunte) rimane titolare di prerogative molto rilevanti. Oltre a poter 
sfiduciare la giunta, il consiglio deve approvare il bilancio e tutte le sue 
variazioni, controllando così le politiche dell’ente. Inoltre il consiglio nomina il 
collegio dei revisori, e nei comuni sopra i 15000 abitanti è presieduto non dal 
sindaco ma da un consigliere che ne preserva l’autonomia dalla giunta. I 
consiglieri comunali godono di alcune prerogative che gli permettono sia di 
partecipare attivamente alla vita politica dell’ente (gli è attribuito il diritto di 
iniziativa su ogni questione sottoposta al consiglio) sia di esercitare pressioni 
sulla giunta, tramite interrogazioni ed altri strumenti ispettivi (per i quali 
possono ottenere tutte le informazioni dagli uffici comunali).   
Questo quadro normativo distingue per la prima volta in modo chiaro i 
compiti di consiglio e giunta: questa, anche grazie alla nuova legittimità del 
sindaco eletto direttamente, amministra il comune e sviluppa le politiche, 
mentre l’assemblea dovrebbe garantire un’efficace rappresentanza contribuendo 
all’indirizzo politico, vigilando sull’attuazione del programma e facendo valere 
le istanze dei cittadini.  
Per quanto riguarda la composizione dei nuovi consigli comunali 
bisogna notare come il sindaco faccia parte del consiglio ope legis, 
aggiungendosi così agli altri membri previsti. Il numero di consiglieri è ridotto 
per ogni classe di comuni, ma proporzionalmente sono i grandi comuni ad aver 
subito la riduzione più consistente. Infatti mentre questi avevano manifestato 
tendenze pletoriche ed assembleari, nei piccoli, tendenzialmente meno litigiosi, 
si è ritenuto prioritario difendere la rappresentatività. La riduzione numerica dei 
consiglieri, come è noto, può determinare effetti di tipo maggioritario elevando 
il quoziente elettorale necessario per l’elezione come se fosse introdotta una 
 11 
soglia di sbarramento formale: ciò dovrebbe quindi spingere verso una 
semplificazione del sistema partitico8 aumentando la stabilità. Secondo l’art. 37 
del Testo Unico sugli Enti Locali (TUEL) il consiglio comunale è composto dal 
sindaco e: 
da 60 membri nei comuni con popolazione superiore ad un milione di abitanti; 
da 50 membri nei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti; 
da 46 membri nei comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti; 
da 40 membri nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti o che, 
pur avendo popolazione inferiore, siano capoluoghi di provincia; 
da 30 membri nei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti; 
da 20 membri nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti; 
da 16 membri nei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti; 
da 12 membri negli altri comuni. 
 
Le candidature possono essere presentate solo in liste, che possono essere o 
meno collegate ad un partito politico. Ai sensi dell’art.5 della legge 81 del 1993 
i candidati della lista non possono essere mai superiori al numero dei consiglieri 
da eleggere e non inferiori ai 3/4 o ai 2/3 degli eleggibili nel consiglio 
(rispettivamente nei comuni al di sotto ed al di sopra dei 15000 abitanti). I 
cittadini dell’Unione Europea residenti nel comune possono essere candidati.  
 La procedura elettorale, come abbiamo già detto, si differenzia a 
seconda che i comuni superino o no la popolazione di 15.000 abitanti: nei 
comuni inferiori a questa soglia si usa il maggioritario semplice per il sindaco e 
il maggioritario di lista per i consigli comunali. L’elettore deve votare per il 
candidato sindaco ed eventualmente per uno dei consiglieri incluso nella lista 
collegata al primo. L’elezione del sindaco è immediata, venendo scelto il 
candidato che ha riscosso il maggior numero di preferenze: alla lista vincente 
sono assegnati automaticamente i ¾ dei seggi consiliari, senza riguardo per i 
voti realmente conquistati. Alle liste sconfitte va il rimanente quarto dei seggi, 
divisi proporzionalmente alle preferenze riscosse. Si assicura così al sindaco 
eletto una maggioranza numericamente solidissima e si stimola la formazione di 
pochissime liste contrapposte, che possano così aggregare e semplificare il 
quadro politico. Ai candidati consiglieri vengono attribuiti i voti assegnati al 
                                               
8
 Sul punto, e più in generale sul rapporto sistemi elettoriali/sistemi partitici, si veda Pappalardo 2003.