4
- indurre le autorità governative ad elevare il prezzo
imposto di alcuni prodotti in relazione all'aumento dei
costi;
- ridurre i profitti delle controllate al fine di evitare
reazioni negative negli Stati esteri.
Assume, tuttavia, una rilevanza speciale l'esigenza di
pianificare le diverse attività del gruppo in vista del maggior
risparmio di imposta possibile. È evidente, infatti, che
un'impresa che ne controlla un’ altra in uno Stato estero a
bassa fiscalità ha un chiaro interesse a dirottare la maggior
parte di utili verso quest’ ultima per sottrarli alla più elevata
tassazione applicabile nel proprio Stato di residenza.
La possibilità di utilizzare un opportuno condizionamento dei
prezzi di trasferimento fra imprese associate per sottrarre
materia imponibile agli Stati a fiscalità più elevata, ha indotto
questi ultimi a focalizzare la propria attenzione sul fenomeno in
esame, adottando in sede legislativa metodi di determinazione
dei transfer prices basati sulle indicazioni contenute nei
numerosi rapporti redatti dal Comitato Affari fiscali dell'Ocse
dal 1979 in poi ed imperniati sul principio dell'arm's lenght o
prezzo di libera concorrenza e cioè sul prezzo che sarebbe
stato concordato tra imprese indipendenti per operazioni
identiche o similari a condizioni similari o identiche nel libero
mercato.
5
Nell’ottica aziendalistica il gruppo è un agglomerato di imprese
giuridicamente distinte, ma economicamente vincolate in
maniera durevole mediante l’azione di un unico soggetto
economico. Il soggetto economico è colui il quale ha il potere di
determinare l’indirizzo di gestione e nel cui prevale [ 1978,
CATTANEO ].
Quando le persone giuridiche dell’agglomerato si trovano
dislocate in differenti Stati nasce il problema del transfer
pricing e cioè del controllo delle transazione interne al gruppo.
Al fine di verificare che non vi siano operazioni finalizzate ad
allocare utili verso paesi esteri, magari a fiscalità ridotta(come
ho accennato prima).
Occorre sottolineare che l’internazionalizzazione delle imprese
industriali non va pensata solo nell’ottica d’elusione fiscale, anzi
essa appare in modo storico col quale,nelle società dei paesi
occidentali, si sono diffuse strutture oligopolistiche di
mercato, connesse alle necessità tecnico-economiche di
integrazione nelle produzioni.
Per quanto riguarda il tranfer pricing nella pianificazione
internazionale dobbiamo dire che logicamente l’obiettivo del
gruppo è quello di massimizzare i profitti, obiettivo che ha, dal
punto di vista fiscale, la necessità di ridurre al minimo il carico
6
complessivo nel rispetto di tutte le regole previste dalle
giurisdizioni fiscali coinvolte.
L’ impresa multinazionale si trova libera di pianificare ove
localizzare gli investimenti e perciò di ripartire rischi e
funzione dell’attività d’impresa nei vari Paesi.
Una volta presa questa decisione il gruppo si trova a dover
rispettare le regole sulla remunerazione delle funzioni svolte
dalle varie imprese nazionali secondo condizioni che avrebbero
convenuto operatori indipendenti.
La disciplina si applica alle transazioni che intervengono tra
un’impresa soggetta alle norme del D.P.R. 917/86 e una società
non residente che la controlla o n’è controllata ovvero alle
transazioni che intervengono tra le stesse entità quando
entrambe sono controllate da una terza società.
Questo tipo di commercio crea problemi per le Autorità fiscali
nazionali sull’uso ed all’abuso potenziale dei così detti “prezzi di
trasferimento”da parte delle multinazionali, in relazione ai
prestiti, all’allocazione dei costi fissi e alla valutazione di
marchi e brevetti. La determinazione dei prezzi all’interno di
gruppi di società è indiscutibilmente un comodo strumento per
spostare profitti da una società all’altra. Mancando un'
effettiva alterità tra i contraente, nelle operazioni tra imprese
legate da vincoli di gruppo, il corrispettivo può essere staccato
7
dal valore del bene ceduto o del servizio prestato ed essere
adeguato, invece, in funzione di obiettivi di pianificazione
fiscale o, comunque, di politica finanziaria, perseguiti dal
gruppo come centro unitario di interessi economici.
Il reddito può essere canalizzato verso Paesi a bassa fiscalità, i
quali, offrendo forme di imposizione forfetarie o molto
attenuate,consentono di realizzare un “salto d’imposta”. Nel
momento in cui una società del gruppo è esente o paga a
forfait, si tenderà ad accentrare verso quest’ultima
componenti di ricavo, a cui corrispondono componenti di costo
per le altre società del gruppo.
Con le attuali normative fiscali questo problema è destinato
probabilmente ad aumentare e le Autorità fiscali di molti Paesi
cominciano a preoccuparsi per le dimensioni crescenti del
fenomeno, senza saper approntare, però, strumenti adeguati. Il
transfer pricing non solo pone delle sfide per gli amministratori
Fiscali, ma sta anche rapidamente modificando lo svolgimento
del commercio internazionale.
Una recente indagine [2003, ERNEST & YOUNG ] sulle
modalità del transfer pricing ha chiarito il ruolo crescente di
questo fenomeno nell’ambito del commercio internazionale e
della tassazione delle multinazionali. Circa 600 “tax manager”
d’altrettante multinazionali (con sede in 19 Paesi diversi) e 124
8
responsabili di filiali coinvolti in uno studio d’Ernst & Young
puntano il dito sul transfer pricing: otto intervistati su dieci,
infatti, indicano i prezzi di trasferimento per beni, servizi e
finanziamenti tra società di uno stesso gruppo – insieme alla
doppia tassazione – tra le tematiche di fisco internazionale più
importanti oggi e per il prossimo futuro. Il moltiplicarsi degli
scambi di beni e servizi infragruppo eleva i rischi delle pratiche
di evasione dovute all’attribuzione ad una determinata
operazione di un valore diverso da quello corrente di mercato
(il “valore normale” indicato dal Tuir) in modo da ridistribuire il
reddito imponibile delle società residenti in Stati diversi a
lucrare sulle differenze d’imposizione.
L’analisi è stata condotta sulla base di interviste finalizzate a
conoscere più da vicino l’effettiva incidenza strategica delle
problematiche tributarie: un’indagine globale che ha coperto
tutti i più importanti Paesi del mondo (oltre all’Italia, Stati
Uniti, Giappone, Canada, Australia, Francia, Gran Bretagna,
Germania). Nonostante la maggior parte delle multinazionali
continui ad identificare il fattore principale che condiziona le
politiche di trasferimento dei costi nella massimizzazione delle
prestazioni operative e non nell’ottimizzazione delle scelte
fiscali, le società intervistate vedono un chiaro nesso tra il
desiderio di evitare la doppia imposizione e il ricorso al
transfer pricing. Molte di esse, nel desiderare un approccio
9
globale alla progettazione e documentazione delle politiche di
transfer pricing, sono alla costante ricerca di certezze nel
trattamento e nelle garanzie sulla non applicazione della doppia
tassazione, che potrebbero essere assicurate dall’uso di
meccanismi di accordo reciproco.
In parallelo, molte aziende avvertono la necessità di trovare
una soluzione per le complesse questioni commerciali e di
transfer pricing derivanti dalla globalizzazione, soprattutto a
causa dell’attenzione crescente a questa pratica da parte delle
Autorità fiscali di diversi Paesi. Più della metà dei responsabili
fiscali “monitorati” ha dichiarato di aver già subito una verifica
fiscale sul transfer pricing e che nel 70% dei casi le Autorità
hanno richiesto la relativa documentazione. Quel che è più
interessante, tuttavia, è che otto intervistati su dieci si
aspettano una verifica fiscale nei prossimi due anni.
In Italia, in particolare, si registra che il 68% dei manager
interessati ha dovuto fornire spiegazioni sui prezzi di
trasferimento nel corso di una attività di accertamento e che il
76% attende di farlo nel prossimo biennio. Le Autorità fiscali
italiane, storicamente, hanno considerato il problema dei prezzi
di trasferimento più come un quesito teorico che non come un
elemento portante delle future tematiche impositive.
Specularmente, scarso era l’interesse strategico registrabile
nel management delle società interessate.
10
Nel tempo, tuttavia, si è registrato un netto miglioramento,
tanto che attualmente più della metà della società italiane
considera il transfer pricing parte determinante delle decisioni
strategiche aziendali a fronte di un 30% sul campione globale.
Interessante, poi, è la valutazione degli obiettivi perseguiti con
le politiche del transfer pricing: nel prospetto che segue si
evidenzia come la priorità assoluta spetti a finalità
extrafiscali, il 40% alla massimizzazione delle performance
operative aziendali ed il 35% alla necessità di predisporre una
documentazione utile alle eventuali verifiche fiscali.
11
II. L’AMBITO SOGGETTIVO DI
APPLICAZIONE
I prezzi di trasferimento sono una fattispecie essenzialmente
transnazionale, ciò vale a dire che il loro presupposto si
realizza con l’effettuazione di operazioni commerciali tra
società collegate, nel senso lato del termine, ubicate in Stati
diversi.
E’ necessario chiarire il significato dei termini società
“collegate” o “controllate”.
Agendo in un contesto internazionale, il rigido ancoramento a
termini giuridici non propri di tutti gli ordinamenti, o che in
ciascuno di essi godono di differenti specificità, potrebbe
essere foriero di creare non poche difficoltà per la corretta
applicazione di fattispecie che ogni volta interessano più Stati.
L’interpretazione ministeriale, fornita con la circolare n. 32 del
1980 ( ancora valida per molti aspetti, nonostante le modifiche
intervenute), sorregge con lungimiranza una valutazione
estensiva seconda la quale il termine “società” definisce l’entità
situata all’estero, è da intendersi comprensivo di ogni tipologia
di organismi societari giuridicamente riconosciuti nello Stato di
12
appartenenza, anche se difettanti del requisito della
plurisoggettività
1
.
Parimenti anche il riferimento alla nozione di “impresa”, con la
quale ci si riferisce al soggetto residente in Italia, deve essere
estensivamente interpretato nell’intera accezione dell’art.
2082 del codice civile, includendo in tal modo qualunque
esercizio di attività economica organizzata ai fini della
produzione o dello scambio di beni e servizi.
A maggior ragione non può vincolarsi alle schematiche previsioni
dell’art. 2359 del codice civile il concetto di “controllo” o
“collegamento”: è palese che una meccanica valutazione della
sussistenza dei requisiti civilistici, non propri del legislatore
fiscale, condurrebbe a “sdoganare” dall’ambito di applicazione
delle norme sul transfer pricing una moltitudine di rapporti di
natura elusiva solo per difetti di natura percentuale.
Appare quindi senz’altro condivisibile quell’orientamento che
non vuole limitare ogni termine alla sua vincolante nozione
giuridica, bensì consideri ogni fattispecie nel suo complesso e
nel suo rapporto con la realtà concludente, estendendo
l’applicazione delle norme qui in trattazione ad ogni entità
commerciale ed a qualsivoglia ipotesi di influenza economica,
1
La circolare cita ad esemplificazione i Groupement d’interet économique francesi,
i Trusts di diritto anglosassone, gli Stiftung e le Anstalten centroeuropee
13
collegamento o rapporto giuridico, soprattutto se occulto
2
.
D’altra parte, analoghe considerazioni possono essere esperite
a riguardo di quella interpretazione che, restringendo il
concetto di “non residenza nel territorio dello stato”,
concentra l’attenzione esclusivamente sulle transazioni
intercorrenti con società ubicate in stati dal regime fiscale
privilegiato (tax havens) o in quelli che adottano regimi fiscali
preferenziali dannosi (harmful preferential tax regimes)
[ 1998, SOZZA ]
3
. Ciò, tuttavia, porterebbe a tralasciare tutti
quei rapporti posti in essere con imprese aventi sede in Paesi
apparentemente “innocui”, molti dei quali anche membri UE, ma
che preservano diverse nicchie di agevolazioni le quali sono
suscettibili di “richiamare” quote di imponibile tanto quanto le
2
A tale proposito basti pensare alla costituzione di società conduit al fine di canalizzare
il reddito attraverso operazioni di treaty shopping
3
D’altra parte lo stesso Ministero delle finanze, sulla scorta delle indicazioni fornite
dall’OCSE, ha formalizzato l’esigenza di superare la distinzione tra queste due
fattispecie nella circolare n. 140/E del 24 giugno 1999 (in “il fisco” n. 27/1999, pag
9055). Ad ogni buon conto, per l’individuazione degli stati facenti parte della black list si
faccia riferimento al D.M. 24 aprile 1992, per quanto riguarda le imprese ed al D.M. 4
maggio 1999 per le persone fisiche.