PREMESSA
Uno dei principali obiettivi dell’Unione europea consiste nel creare opportunità per tutti
i cittadini europei ovunque essi si trovino, riducendo le disparità tra le Regioni,
mobilitando le potenzialità inutilizzate e concentrando le risorse in investimenti a favore
della crescita. L’Ue si è trovata molto presto a dover affrontare i problemi derivanti
dalle notevoli differenze di sviluppo tra le diverse aree territoriali.
Al fine, quindi, di sostenere finanziariamente e di coordinare gli sforzi degli Stati
membri a favore dello sviluppo delle loro Regioni più depresse, l’Ue ha
progressivamente attuato una politica di sviluppo regionale, anche detta politica di
coesione economica e sociale. Con il termine “coesione economica e sociale” si intende
una politica di tipo solidaristico, volta a perseguire il superamento degli svantaggi
strutturali di alcune Regioni europee attraverso la promozione di interventi che
consentano ad esse di superare il proprio svantaggio.
L’Unione dunque fin dalle sue origini si è impegnata in una politica regionale di
coesione economica e sociale, ritenendo che fosse necessario, nel processo di
integrazione economica e politica fra gli Stati europei, lavorare per appianare le
disparità tra i livelli di sviluppo dei diversi Stati membri e fra le Regioni interne a questi
Stati. I Fondi Strutturali rappresentano uno degli strumenti fondamentali con cui
l’Unione europea ha perseguito e persegue l’obiettivo della coesione economica e
sociale, e proprio in ragione del loro ruolo di strumenti di politica comunitaria, i Fondi
hanno trovato nel corso del tempo definizioni e regolamentazioni diverse frutto delle
esigenze che di volta in volta l’Ue ha ritenuto importante affrontare e delle riflessioni
circa le esperienze passate, per migliorarne l’efficace utilizzo. Scopo del seguente
lavoro è cercare di analizzare la programmazione comunitaria nel periodo 2000-2006 e
nell’attuale periodo 2007-2013, consentendo l’emergere delle principali differenze.
Negli ultimi anni l’Unione europea ha avviato un processo di responsabilizzazione dei
territori. Sempre di più le Regioni e gli enti locali si trovano a partecipare attivamente
alla definizione delle strategie per lo sviluppo dei territori ai quali appartengono. Gli
amministratori locali sono diventati, così, non più meri gestori di politiche disegnate
altrove, ma veri e propri manager, responsabili di un processo attuativo che è la
definizione in itinere della politica stessa. Per tale motivo questo lavoro parte
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dall’analisi del ruolo che le Regioni hanno assunto nella partecipazione alle politiche
comunitarie. In particolare il primo capitolo si occupa del rapporto tra Regioni e Unione
europea, evidenziando come sia indubbia la constatazione che nel corso degli ultimi
decenni si sia manifestata, nella maggior parte degli Stati membri dell’Ue, una tendenza
crescente alla regionalizzazione. Questa tendenza ha comportato l’attribuzione, in
favore di soggetti delle comunità locali, di compiti, funzioni, responsabilità e poteri
sempre più consistenti. Da ciò è derivata la necessità, per gli organi dell’Unione, di
accrescere la considerazione e l’approfondimento di tutti i temi che siano comunque
connessi al ruolo delle Regioni e degli enti locali nell’ambito comunitario. Questo
rinnovato interesse ha consentito di migliorare notevolmente il rapporto tra le istituzioni
comunitarie e i cittadini dell’Unione, dando un’attuazione più concreta e più visibile a
quel principio della sussidiarietà che ormai costituisce uno dei pilastri fondamentali del
nuovo ordinamento comunitario. In particolare ho cercato di sottolineare come le
Regioni abbiano inizialmente incontrato alcune ostilità nel riconoscimento di un preciso
ed effettivo ruolo nel processo d’integrazione europea. Per molto tempo sono rimaste ai
margini delle riforme istituzionali europee fino alla creazione, con il trattato di
Maastricht, del Comitato delle Regioni, grazie al quale i rappresentanti delle collettività
locali e regionali possono esprimere pareri sulle politiche dell’Ue.
L’attivismo regionale è stato però frutto anche di un’altra spinta, tutta interna alle arene
nazionali. Gran parte delle nazioni europee hanno assistito, spesso favorendoli, a
processi di decentramento, cedendo ambiti di competenza sempre maggiori a organi
regionali. Tra queste, l’Italia ha proceduto alla modifica di una parte della Costituzione
di non trascurabile rilevanza, preceduta da importanti innovazioni. Le Regioni sono
divenute co-protagoniste del rinnovato quadro istituzionale e il loro coinvolgimento
negli affari europei è stato sancito definitivamente in Costituzione, dove peraltro per la
prima volta è stato inserito un riferimento all’Unione europea quale limite e fonte
normativa. Regioni ed enti locali hanno mostrato la capacità e la voglia di assumere e
rafforzare il proprio ruolo a livello internazionale. In seguito all’analisi del Comitato
delle Regioni, degli Uffici regionali di collegamento a Bruxelles, ho proceduto alla
ricostruzione storica della politica regionale comunitaria, in quanto le Regioni hanno
trovato collocazione nel contesto comunitario soprattutto come attori principali delle
politiche a finalità strutturale.
Il secondo capitolo tenta di descrivere quali siano i meccanismi, le norme e le procedure
di utilizzo dei Fondi strutturali, facendo riferimento alla programmazione 2000- 2006,
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della quale ho cercato di evidenziare sia le peculiarità che gli aspetti innovativi. Ho
analizzato le innovazioni apportate con l’approvazione del pacchetto di riforma Agenda
2000, il quadro in cui operano i Fondi, l’architettura normativa, costituita da un
regolamento generale e da regolamenti specifici per ciascun Fondo, la struttura dei
documenti di programmazione, gli Obiettivi prioritari e i meccanismi inerenti la
gestione, la sorveglianza e il controllo delle risorse impiegate. Che i Fondi rivestano
un’importanza fondamentale per la ristrutturazione delle aree economiche più arretrate
dei Paesi membri è ormai cosa nota alla maggior parte delle persone, mentre ai più sono
sconosciute le modalità e i meccanismi attraverso i quali tali risorse giungono ai
cittadini.
Il terzo e ultimo capitolo presenta l’intero spettro delle opportunità e degli strumenti
finanziari e di programmazione messi a disposizione dall’Unione europea per il nuovo
periodo 2007-2013, fornendo le indicazioni sui documenti utilizzati, i nuovi Obiettivi
prioritari e i meccanismi di gestione e controllo delle risorse, seguendo una struttura
simile a quella del precedente capitolo così da consentire una facile lettura delle
principali differenze. La fase di transizione tra il periodo di programmazione
comunitaria 2000-2006 e l’attuale 2007-2013 ha rappresentato un passaggio politico,
istituzionale, ma anche economico e sociale, di estrema rilevanza. In primo luogo
perché, con il considerevole aumento dei Paesi membri, il baricentro delle priorità
strategiche e di spesa si è progressivamente spostato verso l’Europa orientale, ma anche
perché la vera sfida è costituita dalla capacità degli Stati membri, e in primis dell’Italia,
di utilizzare al meglio le risorse dei Fondi strutturali e degli altri strumenti finanziari
comunitari. Una migliore gestione delle risorse comunitarie si correla innanzitutto a un
diverso e più maturo approccio da parte dei territori nei confronti delle opportunità di
finanziamento. Emerge la necessità di avviare processi di collaborazione sia tra i
soggetti (politici, istituzionali, pubblici, privati) che operano localmente, sia tra i
territori, valorizzando le competenze specifiche, individuando i bisogni reali e le
soluzioni ottimali per uno sviluppo sostenibile. L’Europa deve rispondere a tali sfide e,
affinché riesca nel suo intento, è necessario che tutte le Regioni e tutti i cittadini
collaborino attivamente alla creazione di ricchezza, occupazione e crescita. I nuovi
Fondi strutturali offrono prospettive d’azione e opportunità di crescita a numerosi attori
del sistema Europa.
Dopo aver passato in rassegna i programmi e le tematiche d’intervento sui quali si
strutturano i periodi di programmazione, ho riportato un caso concreto. A titolo
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puramente esemplificativo ho inserito il testo di un bando pubblicato nell’ambito del
POR Toscana “Competitività regionale e occupazione” - FSE 2007-2013, per
l’assegnazione di finanziamenti previsti a favore dei soggetti del territorio.
In conclusione, partecipare alla politica regionale europea vuol dire condividere un
metodo di lavoro, vuol dire concordare una strategia di programmazione, vuol dire
confrontarsi con realtà locali diverse, vuol dire imparare a valorizzare le peculiarità
d’area e le identità territoriali. Vuol dire imparare ad essere europei.
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Capitolo primo
REALTÀ REGIONALI E UNIONE EUROPEA
1. Il ruolo delle Regioni prima del Trattato di Maastricht
I Trattati che hanno istituito la Comunità europea, pur non ignorando del tutto gli enti
territoriali infranazionali, hanno strutturato la Comunità su base rigorosamente statale.
Infatti la soggettività comunitaria è riconosciuta esclusivamente agli Stati membri e, in
riferimento a questi, sono stati creati in seguito gli organi e i procedimenti disciplinati
dagli stessi Trattati. Si può far risalire la scarsa attenzione originaria, nei confronti degli
enti di tipo regionale alla struttura costituzionale degli Stati membri, al momento
dell’avvio del processo di integrazione. A partire dagli anni ’70 tale situazione si è
trasformata notevolmente. Basti pensare che nel 1970 si è avviata la regionalizzazione
del nostro Paese con la concreta istituzione delle quindici Regioni a statuto ordinario,
già contemplate dalla Costituzione ma non attuate per un ventennio. Sempre nello stesso
periodo si sviluppò il processo di regionalizzazione del Belgio, mentre negli anni ’80 si
registrò l’adesione di due Stati, Spagna e Portogallo, la cui transizione alla democrazia è
coincisa con processi, più o meno marcati, di decentramento regionale.
Successivamente, negli anni ’90, tale processo proseguì con l’ingresso dell’Austria
federale. In un ventennio il quadro è radicalmente mutato, le trasformazioni appena
citate hanno conferito nuova forza alla questione regionale nell’ordinamento europeo,
considerato che un’articolazione federale o regionale delle strutture costituzionali degli
Stati membri rappresenta ormai la regola e non più l’eccezione.
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Un’importante svolta
in questa direzione fu la Dichiarazione Comune adottata dal Parlamento, dal Consiglio e
dalla Commissione nel 1984, che rivelava come le tre istituzioni comunitarie fossero
concordi sull’opportunità, sia pure nel rispetto delle competenze interne degli Stati
membri e del diritto comunitario, di una stretta collaborazione tra la Commissione
1
A. D’Atena, Il doppio intreccio federale: le Regioni nell’Unione Europea, in Le Regioni (n.6), Ed. Il
Mulino, Bologna 1998, pagg. 1402-1408
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europea e le autorità regionali o eventualmente locali, in quanto ciò avrebbe permesso di
tenere in maggior considerazione gli interessi regionali nell’elaborazione dei programmi
di sviluppo.
Un ulteriore segno della maggiore attenzione nei confronti degli enti infranazionali può
essere individuato nella creazione, avvenuta nel 1988 ad opera della Commissione, del
Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, formato da quarantadue membri,
titolari di un mandato elettivo a livello regionale ed articolato in due sezioni chiamate,
rispettivamente, a dar voce agli interessi delle Regioni e degli enti territoriali minori. In
concreto, queste innovazioni hanno avuto effetti molto parziali in quanto il Consiglio
degli enti regionali era dotato di poteri consultivi meramente facoltativi, mentre la
Dichiarazione Comune rappresentava una semplice enunciazione di intenzioni.
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In seguito all’approvazione dell’Atto Unico Europeo del 1986 la condizione degli enti
locali non subì notevoli cambiamenti. Tuttavia, in esso si sviluppa l’idea di solidarietà
tra Stati membri con l’aggiunta di un Titolo dedicato alla Coesione Economica e
Sociale. Inoltre l’art. 130A conteneva l’esplicita affermazione e il fondamento giuridico
della politica regionale comunitaria. Tale articolo, dopo aver affermato che la Comunità,
per promuovere uno sviluppo armonioso del suo insieme, sviluppa la propria azione tesa
a rafforzare la coesione economica e sociale, chiarisce che la Comunità stessa mira a
ridurre il divario tra le diverse Regioni e il ritardo delle Regioni meno favorite. Tuttavia,
anche questa disposizione non riconosceva alle Regioni il ruolo di istituzioni
comunitarie, limitandosi a rafforzare il fondamento giuridico della politica regionale
della Comunità. Solo nel 1992, nel Trattato di Maastricht, le Regioni assunsero un ruolo
istituzionale a livello comunitario. Le intenzioni espresse nella Dichiarazione Comune
trovano spazio nelle novità fondamentali che il Trattato introduce in materia di Regioni
e regionalizzazione.
La prima innovazione è costituita dall’enunciazione del principio di sussidiarietà.
Questo principio e il riconoscimento delle autonomie locali sono due argomenti
complementari che nella storia e nell’evoluzione della Comunità europea si intrecciano.
L’art. 3B del Trattato di Maastricht introduce, per le materie che non sono di esclusiva
competenza della Comunità, il citato principio della sussidiarietà, in virtù del quale la
Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista
non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a
motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere attuati con
2
A. Tizzano, La partecipazione delle Regioni al processo di integrazione comunitaria: problemi antichi
e nuove prospettive, in Le Regioni (n.3), Ed. Il Mulino, Bologna 1992, pagg. 608-612
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maggior incisività a livello comunitario.
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Tale principio, che implica il principio di
prossimità, in base al quale le decisioni debbano essere prese al livello operativo più
vicino possibile al cittadino assicurando nel contempo la capacità ottimale di
realizzazione delle funzioni, costituì un principio politico guida nel processo di riforma.
Ciò che viene sancito nell’art. 3B ha una portata ulteriore, poiché tale norma affida agli
enti locali il compito di predisporre autonomamente le strutture amministrative
necessarie a consentire una corretta applicazione delle misure nazionali di adeguamento
all’ordinamento comunitario, demandando invece agli Stati membri il compito di
promuovere le autonomie locali e, attraverso di esse, i diritti individuali e collettivi dei
cittadini. L’Europa è caratterizzata da diversità che si manifestano con evidenza
mettendo a confronto città, comuni e Regioni. Pur promuovendo l’integrazione,
l’Unione europea scelse di riconoscere le sue differenti culture e tradizioni e di
richiamarsi costantemente ad esse, in modo da trovare le soluzioni più adeguate ai
problemi in un mondo in rapida evoluzione. Anche a tal fine, il principio di sussidiarietà
assume una notevole importanza: opera come criterio di concreta ripartizione delle
competenze concorrenti tra Stati membri e Comunità. In conseguenza di tale principio,
l’intervento della Comunità in materia di competenze concorrenti risulta giustificato
sulla base della sussistenza di due precise condizioni: la maggior efficacia dell’azione
della Comunità, in relazione alla sua dimensione e ai suoi effetti, rispetto a quella
statale; la constatazione che gli obiettivi dell’azione da intraprendere non possono
essere sufficientemente realizzati a livello statale.
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In definitiva, il principio di sussidiarietà rappresenta un principio generale di diritto
degli ordinamenti nazionali, in base al quale le decisioni vengono prese a livello
istituzionale ed operativo quanto più vicino possibile ai cittadini.
Dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, la sussidiarietà ha preso piede nella
realtà politica europea e si è imposta come principio informatore dell’azione
dell’Unione.
Le istituzioni europee hanno compiuto un notevole sforzo per attuare tale principio, in
particolare nell’esercizio dei loro poteri legislativi e regolamentari. Ciò consente ai
Paesi e alle Regioni di salvaguardare la loro identità, il loro carattere, le loro peculiarità
3
Trattato di Maastricht, art. 3B, G.U.C.E. C 191 del 29 luglio 1992, versione disponibile su
http://eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11992M/htm/11992M.html, pag. 8
4
A. M. Calamia e V. Vigiak, Manuale breve - Diritto comunitario, A. Giuffrè editore, Milano 2006,
pagg. 33-34
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economiche, sociali e culturali, e di conservare questa straordinaria diversità che fa la
ricchezza dell’Europa.
5
La seconda innovazione introdotta dal Trattato di Maastricht è rappresentata dalla
creazione del Comitato delle Regioni (CdR)
6
, un organo con poteri di tipo consultivo
del quale sono chiamati a far parte rappresentanti delle collettività regionali e locali, col
compito di esercitare le proprie funzioni nell’interesse generale della Comunità.
La terza novità è costituita dall’apertura del Consiglio dei Ministri a rappresentanti delle
entità sub-statali. Superando l’impostazione iniziale che riservava la rappresentanza
degli Stati membri a esponenti dei rispettivi governi, il Trattato sull’Unione europea ha
modificato l’articolo 146 del Trattato CE, facendo cadere il riferimento ai governi
nazionali e consentendo, quindi, agli Stati membri di lasciarsi rappresentare nelle varie
sedute da componenti dei governi regionali. È però opportuno rilevare che questa
condizione sussiste solo per membri dei governi sub-statali tedeschi, belgi e austriaci,
non essendo ammesso di fatto l’ingresso nell’organo dei rappresentanti delle Regioni
portoghesi, spagnole e italiane.
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Le innovazioni introdotte dal TUE sono di grande
rilevanza: con esse, infatti, le Regioni e le istituzioni locali in genere hanno conseguito a
livello comunitario un’importanza sempre maggiore.
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5
Al fine di assicurare una corretta applicazione ed una puntuale osservanza del principio di sussidiarietà
da parte delle istituzioni comunitarie, in occasione dell’approvazione del Trattato di Amsterdam è stato
elaborato un documento: il Protocollo n. 30, dedicato espressamente all’applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità. Nell’ambito di tale Protocollo si precisa che le ragioni che hanno
portato a concludere che un obiettivo comunitario può essere conseguito meglio dalla Comunità devono
essere confortate da indicatori qualitativi o, ove possibile, quantitativi. Il paragrafo 5 indica alcuni
principi guida che debbono essere applicati nel momento in cui si procede ad una valutazione
comparativa tra intervento comunitario e intervento statale o locale. In particolare, si precisa che l’azione
della Comunità risulta più adeguata qualora:
a) la questione in esame presenti aspetti trasnazionali che non possono essere disciplinati in modo
esauriente mediante l’azione degli Stati;
b) l’azione dei soli Stati o la mancanza di un’azione comunitaria sarebbero in conflitto con le prescrizioni
del Trattato o pregiudicherebbero in modo rilevante gli interessi degli Stati stessi;
c) l’azione a livello comunitario produrrebbe evidenti vantaggi per la sua dimensione rispetto all’azione a
livello di Stati membri.
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Infra, paragrafo 2
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L’art. 203 TCE afferma che il Consiglio è formato da un rappresentante di ciascun Stato membro a
livello ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo di detto Stato membro. Questa formulazione
dell’articolo è stata introdotta dal Trattato di Maastricht al fine di consentire che lo Stato tedesco possa
essere rappresentato dall’esponente di un Governo regionale al quale, in Germania viene riconosciuta la
qualità di ministro.
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A. W. Pankiewicz, Realtà regionali ed Unione europea: il Comitato delle Regioni, Giuffrè editore,
Milano 2001, pagg. 4-6
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