Il nucleo centrale di questo lavoro è proprio l'analisi di una collaborazione
di questo tipo, un'unione talvolta difficile ma comunque feconda, che ha portato,
tra l'altro, alla creazione di un'opera tuttora rappresentata con strepitoso successo,
e non soltanto nei teatri di lingua tedesca.
Protagonisti di questo sodalizio artistico e di questo studio sono Hugo von
Hofmannsthal e Richard Strauss, e il frutto più significativo del loro sforzo
comune è l'opera Der Rosenkavalier del 1911, a cui mi sono avvicinata con lo
scopo di esaminarne il libretto in sé e per sé, senza considerarlo nel suo rapporto
con la musica o, comunque, in un rapporto molto marginale con essa.
I. L'OPERA IN MUSICA: UN GENERE LETTERARIO
Prima di addentrarmi in considerazioni mirate ad illustrare l'obiettivo della
mia dissertazione (e quindi a giustificare la scelta di questo genere,
tradizionalmente considerato musicale), è bene chiarire cosa si intenda per opera
in musica.
Compendiando gli interventi di eminenti critici del settore,
1
si può dire che
l'opera in musica è un fenomeno artistico singolare fra le varie arti e distinto da
ogni altra arte, dotato di una propria forza, di una propria coerenza e di una
propria sfera espressiva. L'opera non è quindi un semplice concerto in costume o
un dramma i cui punti salienti e il cui tono generale siano sottolineati dalla
musica, è, bensì una forma ibrida, una complessa mescolanza di elementi tratti da
due distinte forme artistiche ben codificate (musica e teatro). Balza subito agli
occhi un elemento fondamentale per comprendere la natura di questo genere
artistico: la consistenza dell'opera in musica è doppia, e da qui deriva una
dicotomia che è ormai una costante all'interno della sua stessa storia, ossia il
conflitto per l'attribuzione del primato alla musica o alle parole.
La storia dell'opera si può delineare, infatti, come "un'oscillazione" fra
periodi in cui domina la musica (e quindi il cantante o l'orchestra prendono il
sopravvento) e periodi in cui si privilegia il testo, la parola. Herbert
Lindenberger,
2
a questo proposito, distingue due categorie di critici. Chi privilegia
l'estremo verbale esige che l'opera accentui le componenti rappresentative e
mimetiche, si ponga alla minima distanza dalla realtà che intende imitare e risulti
perciò autentica; chi, invece, abbraccia l'estremo opposto, pone l'accento
1
Si vedano, tra gli altri, i contributi di Herbert Lindenberger, Daniela Goldin, Lorenzo
Bianconi, Carl Dahlhaus, Joseph Kerman ... .
2
Herbert Lindenberger insegna Letteratura comparata nella Stanford University. E' autore
del saggio Opera. The Extravagant Art, Ithaca-London, Cornell University Press, 1984.
sull'elemento spettacolare: lo splendore vocale e la sontuosità orchestrale, che
hanno da sempre esercitato un fascino particolare sugli spettatori. La
drammaturgia dell'opera in musica ricerca quindi il punto di equilibrio fra queste
due spinte contrapposte, cerca di fonderle insieme in un rapporto non facile, ma
fecondo. E' ciò che Daniela Goldin definisce "il problema centrale di ogni
avventura operistica",
3
ossia l'incontro tra parola e musica, l'accordo tra codici
apparentemente lontani, l'intesa tra personalità con competenze distinte, la
consonanza di due esperienze creative e di due linguaggi che devono adattarsi
reciprocamente.
Da questa breve premessa, inizia a delinearsi il tema della mia
dissertazione: fare in modo che l'opera in musica sia considerata non solo come un
genere musicale, ma anche e soprattutto come una forma drammatica, teatrale, e
quindi, più in generale, letteraria.
A questo proposito concordo nuovamente con la Goldin, la quale afferma
che
l'opera in musica è fenomeno prima di tutto e complessivamente
teatrale, tanto che solo un giudizio riduttivo, e perciò erroneo,
potrà condannare o esaltare ora la forma del libretto, ora la trama,
ora la musica.
4
A sostegno della mia tesi posso citare esperti quali Lorenzo Bianconi
5
e,
indirettamente, Carl Dahlhaus. Queste le parole di Bianconi nel saggio La
drammaturgia musicale:
Dopo una lunga tradizione disciplinare che ha considerato l'opera
in musica come un genere musicale fra tanti e che però si è
concentrata sull'esame della musica operistica, delle sue forme, dei
suoi stili, delle sue tecniche, a discapito delle componenti
letterarie, drammaturgiche, gestuali, spettacolari, gli storici della
musica, da una ventina d'anni in qua, hanno man mano riscoperto
la complessità multiforme del teatro d'opera e l'hanno investigato
3
Daniela Goldin, La vera fenice, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1985, p. VII.
4
Ivi, p. VIII.
5
Lorenzo Bianconi insegna Drammaturgia musicale nella Facoltà di Lettere dell'Uni-
versità di Bologna e rappresenta l'Italia nel Consiglio Direttivo della Società internazionale di
Musicologia.
in tutte le sue funzioni.
6
Bisogna quindi invertire la tendenza espressa da molti critici che prendono
in esame particolari drammatici per spiegare particolari musicali.
L'analisi di un'opera deve avvenire secondo un sistema che non è
prettamente ed esclusivamente musicale, in quanto l'opera non è un puro esercizio
armonico, bensì un dramma in tutto e per tutto. A testimonianza di ciò si possono
citare alcuni elementi propri dell'opera in grado di persuadere anche i critici
musicali più conservatori in questo senso. Si prendano, ad esempio, i cantanti
lirici: oltre ad avere un'ugola d'oro e quindi doti canore eccezionali, devono
possedere altre qualità più spiccatamente teatrali. Non si possono, cioè, limitare a
fare gorgheggi e acuti, altrimenti si ridurrebbero (senza nulla togliere a questo tipo
di artisti) a puri e semplici concertisti: essi devono calarsi nel personaggio,
interpretare la sua gioia o il suo dolore, ricorrere alla gestualità, alla mimica, per
rafforzare l'espressione.
7
Insomma, la condizione di "cantante" è necessaria ma
non sufficiente per questi artisti: essi devono essere anche "attori", e queste due
qualità, nel loro bagaglio professionale, devono procedere intimamente fuse l'una
nell'altra, perché un attore senza voce e un cantante senza espressività non si
possono considerare degni del titolo di cantanti d'opera. A questo si aggiungano
fattori extra-testuali come i costumi, le scenografie spesso faraoniche, gli
allestimenti curati nei minimi dettagli, gli accessori, ... tutti elementi che
dimostrano che l'opera è sorella del genere drammatico, e che è una forma di
teatro che comporta costi notevolmente alti rispetto alle altre forme di spettacolo.
Ci sono, questo è vero, elementi di divergenza fra l'opera in musica e le
forme drammatiche di stampo tradizionale. Il dramma recitato e il film, per
6
Lorenzo Bianconi, La drammaturgia musicale, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 7.
7
Sul contributo dei cantanti al successo di uno spettacolo lirico si leggano le parole di
Antonio Planelli, datate 1772: "[i cantanti devono aggiungere al testo messo in musica] un'idonea
pronunziazione. [...] Per pronunziazione io intendo l'arte d'esprimere co' moti del corpo e colla
modificazione della voce, i diversi sentimenti che si vogliono comunicare ad altrui. [...] La
pronunziazione adunque mette sotto i sensi quello che la parola presenta all'intendimento. Infatti
noi proviamo tutto dì, che un eloquentissimo discorso, ma insipidamente pronunziato, ci costringe
a sbadigliare, e che al contrario un discorso mediocre, pronunziato maestrevolmente, ci par dettato
dalla persuasione medesima." Da: Antonio Planelli, Dell'opera in musica, a cura di Francesco
Degrada, Fiesole (Firenze), Discanto edizioni, 1981, pp. 81-82.
esempio, ci invitano, almeno per gran parte del tempo, a sospendere la nostra
incredulità; un'opera, invece, anche quella con i costumi, le scene, e la regia "più
realistici", non ci permette di dimenticare che nella realtà non si parla agli altri o a
sé cantando.
E' quello che Jurij Lotman
8
chiama "dualismo della percezione" e con cui
ci poniamo di fronte ad un'opera d'arte. Da un lato crediamo all'illusione, dall'altro
all'artificio: nel cinema, nei drammi recitati, siamo più propensi a "dimenticare" la
finzione che non nell'opera, in cui spesso i cantanti scadenti fanno persistere nel
pubblico la consapevolezza dell'artificio. Quindi nell'opera la dimenticanza di cui
parla Lotman non è frequente e, comunque, non dura mai a lungo.
Altro fattore tipico dell'opera e assolutamente assente dalle caratteristiche
del dramma parlato è la sua particolare struttura temporale.
L'andatura di un teatro cantato è infatti più lenta di quella di un teatro
recitato: questa è una questione palese ma non necessariamente poco problematica
o comunque indegna di una riflessione. Al tempo continuo del dramma
corrisponde, nell'opera in musica, un tempo discontinuo. L'alternanza fra azione
scorrevole e azione rallentata provoca nell'opera in musica una dissociazione
temporale: si crea un tempo legato alla forma musicale, che si manifesta nella
durata effettiva dell'esecuzione; e un tempo legato al contenuto drammatico, che
rappresenta l'azione in sé e va estrapolato dall'andamento in scena dell'azione
medesima.
La concezione temporale è quindi duplice e costituita da: "tempo della
narrazione" (Erzählzeit) e "tempo narrato" (erzählte Zeit), ossia, rispettivamente,
tempo della forma e tempo del contenuto. E' opportuno constatare che questa
discrepanza non poggia su basi astrattamente musicali, bensì su basi teatralmente
musicali. E', cioè, un artificio puramente teatrale.
In sintesi, quindi, la concezione dell'opera non può essere
intransigentemente musicale, così come non può essere esclusivamente letteraria:
essa è un incontro di tanti linguaggi diversi (musica, poesia, gesto e
interpretazione),
9
alla cui realizzazione è chiamato un mondo eterogeneo di
8
Jurij M. Lotman, Semiotics of cinema, Michigan Slavic Contributions n. 5, Ann Arbor,
University of Michigan, 1976.
9
Antonio Planelli afferma che "alla formazione dell'opera in musica concorrono la
persone e oggetti (il compositore, il librettista, il cantante, l'impresario, i
"macchinisti", le scene, i costumi, le voci, gli strumenti, ...) e il cui fine è
"muovere a compassione e a terrore, [ossia] per vie diverse giungere al cuore".
10
Secondo Joseph Kerman l'opera è per eccellenza la sua stessa forma: una
forma ibrida, ossia una forma letteraria di dramma continuamente sostenuto dalla
musica.
11
Non a caso gli Italiani chiamavano inizialmente l'opera "dramma per
musica", per indicare un dramma che si avvale dell'uso della musica. Già il titolo
del saggio di Kerman è significativo in questo senso: Opera as Drama, ossia
"opera come dramma". E' lui stesso ad impostare un parallelismo fra dramma
parlato e dramma in musica: come nel dramma parlato l'espressione drammatica e
la funzione immaginativa sono realizzate dalla poesia, così nell'opera esse sono
realizzate dalla musica. Alla base di entrambe queste forme vi è uno scritto, che
nel dramma parlato chiamiamo "testo teatrale" e nel dramma in musica ha assunto
il nome di "libretto d'opera" o, semplicemente, di "libretto".
A questo punto quest'ultimo può essere legittimamente considerato un
genere letterario a sé stante, anche se per molti secoli è vissuto al margine del
circuito culturale come suddito della musica e come suddito dei grandi
compositori, da cui spesso era usato come mezzo per ottenere un certo fine.
Giovanna Gronda, nell'introduzione al volume "Libretti d'opera italiani dal
Seicento al Novecento", in virtù della posizione di cui i libretti hanno goduto, si
domanda: "[I libretti, indipendentemente dalla musica], non rischiano di diventare
una galleria di cornici senza quadro, una collezione di portaprofumi di cui sia
svanita l'essenza?".
12
E' Paolo Fabbri, autore del secondo saggio che correda il
volume, a fornirle una risposta: "Anche se molto simili, quando talora non
identici, quei testi obbediscono in realtà a due statuti profondamente diversi e che
è opportuno tener distinti: l'uno di natura prevalentemente letteraria, e tutto
poesia, la musica, la pronunziazione e la decorazione; alle quali facultà un'altra aggiunger si suole,
non essenziale a quello spettacolo com'è ciascuna delle annoverate, ma dichiarata quasi tale
dall'uso, e questa è la danza." Antonio Planelli, op. cit., p. 14.
10
Ivi, p. 15.
11
Cfr. Joseph Kerman, Opera as Drama, The Regents of the University of California,
1956 (tr. it. di Sandro Melani, L'opera come dramma, Torino, Einaudi, 1990, p. 34 sgg.).
12
Giovanna Gronda, "Il libretto d'opera fra letteratura e teatro", in Libretti d'opera
italiani: dal Seicento al Novecento, a cura di Giovanna Gronda e Paolo Fabbri, Milano,
Mondadori, 1997, p. XI.
sommato relativamente autonomo; l'altro, subordinato e duttile nei confronti delle
esigenze musicali."
13
C'è quindi differenza tra ciò che siamo abituati a sentir cantare e la lezione
stampata nei libretti, e questo accade per vari fattori: i legami che intercorrono fra
canto e verso, fra scansione delle parole e scansione del fiato dei cantanti,
insomma, fra libretto e musica.
Joseph Kerman ribadisce questo concetto dicendo che la musica trasmette
numerosi significati che non possono essere tradotti in parole, ossia offre il
significato "connotativo", le sfumature psicologiche ed emotive, che trovano il
loro risvolto "neutro" nel libretto, il quale presenta situazioni, conflitti e concetti
tramite l'uso delle parole nel loro aspetto "denotativo".
14
Anna Laura Bellina
sostiene la medesima tesi utilizzando i termini "significante" e "significato";
queste le sue parole:
...così il segno melodrammatico si può dire formato di due metà
adiacenti secondo lo schema saussuriano: il significato mitico,
silenzioso codice dell'immaginario, e il significante musicale,
sintassi sonora che non si può tradurre né descrivere se non
lontanamente e per metafora. La sottile demarcazione tra i due
insiemi, l'incidente plastico che li unisce e li separa, la linea
diacronica che ne definisce i confini è la voce, il canto, partecipe
dell'una e dell'altra specie, che media la parola delle favole
continuamente riscritta e risemantizzata con la regola dei suoni che
organizza lo svolgersi della vocalità
15
13
Paolo Fabbri, "La musica è sorella di quella poesia che vuole assorellarsi seco", in
Libretti d'opera italiani, op. cit., p. LXXVI.
14
Cfr. Joseph Kerman, op. cit., p. 11: "...la musica dipinge 'affetti'. Il XX secolo tende
[...] a discernere nella musica certi tipi di 'significati', ossia significati che per la loro stessa natura
non possono essere definiti con le parole, ma che sono preziosi e unici. [Nell'] opera gli specifici
riferimenti concettuali vengono continuamente forniti dal libretto, e forniti il più chiaramente
possibile tramite la presentazione delle situazioni e dei conflitti e l'uso delle parole nel loro aspetto
'denotativo'." I due termini "denotativo" e "connotativo" possono essere ulteriormente chiariti sulla
base della spiegazione che ne dà G. Freddi in Glottodidattica, Torino, UTET, 1994, pp. 18-19: il
denotato è il significato di base, neutro, referenziale, che permette di identificare e definire; il
connotato è invece una "significazione aggiuntiva, riconducibile allo stato d'animo del parlante o al
particolare contesto linguistico-comunicativo".
15
Anna Laura Bellina, L'ingegnosa congiunzione. Melos e immagine nella <favola> per
musica, Firenze, Olschki, 1984, p. 63.
La musica è quindi un elemento di drammatizzazione: segna gli ingressi
dei personaggi; annuncia quale contributo emotivo essi stiano per dare alla
situazione; completa, rispecchia, rafforza e caratterizza le azioni individuali
(azioni svolte, passi compiuti) e le "azioni psicologiche" (decisioni, rinunce,
innamoramenti...). Ruolo fondamentale della musica è però quello di creare
l'atmosfera,
16
ossia un mondo o un campo particolare in cui certi tipi di pensiero,
di sentimento e di azione risultano possibili o plausibili: è forse questo il
contributo più misterioso e meraviglioso che la musica offre, non solo al
melodramma, ma anche, ad esempio, al cinema muto - in cui fornisce un'identità
immediatamente riconoscibile a personaggi e situazioni - e al più moderno cinema
sonoro, in cui essa evoca particolari significati e suggestioni.
A proposito della ricezione di questo genere teatrale è opportuno
considerare la sua evoluzione nel corso del tempo: nel momento della sua
massima diffusione e fioritura (XIX sec.) l'opera è stata lo spettacolo per
eccellenza, avvenimento teatrale e, contemporaneamente, momento di
aggregazione e quasi di "informazione culturale". Agli inizi del Novecento, e con
l'avvento del cinema, essa è però stata relegata ad un ruolo secondario, a forma di
spettacolo assolutamente elitaria e selettiva, fruibile quindi da parte di un pubblico
ristretto e agiato.
Per quanto riguarda i giorni nostri, degno di rilievo è il fatto che il
melodramma, o opera che dir si voglia, si stia ritagliando un suo spazio anche nei
mezzi di comunicazione di massa.
17
Nonostante "il rapporto fra l'opera lirica e il linguaggio audiovisivo, del
cinema e soprattutto della televisione, sia sempre stato complesso, contorto,
16
Cfr. Antonio Planelli, op. cit., p. 67: "...Fu la musica teatrale ammessa nel nostro
spettacolo per dare maggior forza alle parole del dramma, a cui va unita, e col quale ha un
medesimo e comun fine, qual è il movimento d'una determinata passione. Di qui nasce il
particolare stile, onde abbisogna questo genere di musica, destinato a un tempo stesso a sostener la
parola e a muovere gli affetti."
17
Sul rapporto fra melodramma e linguaggio audiovisivo si veda G. Buttafava - A.
Grasso, La camera lirica. Storia e tendenze della diffusione dell'opera attraverso la televisione,
Milano, Associazione Amici della Scala, 1986, nella cui Prefazione si dice : "..Dal 1969 ad oggi
molte cose sono cambiate nell'universo della lirica filmica o elettronica: [...] è cambiato il mercato,
è cambiata la tipologia dell'ascolto, sono cambiati i rapporti con gli enti lirici... Sono cambiati,
soprattutto, il cinema e la televisione, che hanno finito per instaurare nuove metodologie di
approccio e nuovi interessi nei confronti del melodramma".
trascinato in una dimensione di casualità e irresolutezza",
18
non è più così raro
poter assistere in prima serata alla trasmissione di un'opera in versione integrale
corredata di sottotitoli per facilitarne la comprensione (e per evidenziare, in questo
modo, il ruolo primario che il testo assume all'interno di questo genere).
Credo che questa riscoperta da parte del canale televisivo sia di
fondamentale importanza per quanto riguarda la divulgazione dell'opera in musica
e per il conseguente accostarsi del pubblico (di un pubblico, che, in questo caso, è
assolutamente eterogeneo) a questa forma teatrale che è uno dei capisaldi della
nostra tradizione culturale e che deve essere rivalutata per quello che è realmente,
ossia un genere di spettacolo che si può sì ascoltare, ma anche leggere.
Sulla base della mia limitata esperienza in questo campo
19
posso dire che
mi è capitato, per esempio, di leggere dei testi di buon valore, che però la
tradizione musicale aveva fatto dimenticare, relegandoli in secondo piano ad unico
ed esclusivo vantaggio della musica. Si dovrebbero invece considerare i libretti
non solo per il loro dar materia alla musica ed esercitare una suggestione tale da
farla innalzare a livelli eccelsi, ma come testi autonomi, indipendenti da qualsiasi
servizio. E' possibile, infatti, accostarvisi con lo stesso piacere che accompagna la
lettura dei testi teatrali, siano essi tragedie o commedie.
A questo punto credo sia interessante focalizzare l'attenzione su quello che
è il testo che sta alla base del genere operistico, sulla sua storia e sull'evoluzione
dei suoi caratteri nel corso del tempo.
18
Ivi, p. 10.
19
Mi sono avvicinata all'opera da poco tempo -e di conseguenza mi ritengo ancora una
completa profana in merito- spinta unicamente dalla curiosità di esplorare un genere antico ma al
contempo modernissimo, stilisticamente molto elevato e, ciononostante, di grande presa sul
pubblico. Ne è testimonianza, su piccola scala, una realtà a me molto familiare, ossia il paese in cui
vivo. Fontanellato, comune di circa 8000 abitanti, situato nella Bassa parmense, per il secondo
anno consecutivo può vantare una stagione operistica di tutto rispetto grazie alla passione e
all'impegno di un gruppo di giovani locali. Da un anno a questa parte si è infatti fondata
l'Associazione "Amici della Lirica", che allestisce un ricco cartellone con concerti e
rappresentazioni melodrammatiche, avvalendosi della partecipazione di artisti di calibro nazionale
ed internazionale. La risposta del pubblico a questa iniziativa che, inizialmente, era un vero e
proprio esperimento culturale, è stata più che positiva e sicuramente superiore alle aspettative: il
teatro è puntualmente gremito di persone di vario genere, giovani e adulti, fontanellatesi e
spettatori provenienti addirittura da province limitrofe.
II. APPUNTI PER UNA STORIA DEL LIBRETTO PER MUSICA
Accostarsi al libretto e alla sua storia è di fondamentale importanza per i
cultori dell'opera lirica, o più largamente, per i cultori della musica e della
letteratura del melodramma: il testo del libretto è infatti un genere di poesia che, a
tutt'oggi, la storiografia non ha ancora sufficientemente illuminato e indagato.
Come osserva Daniela Goldin, "fino agli inizi degli anni Settanta poco o nulla si
era scritto sui libretti d'opera, non esisteva cioè ancora quella che Massimo Mila
ha definito <librettologia>".
1
La storia del libretto è naturalmente connessa a quella del melodramma
stesso, in quanto nell'opera in musica, l'azione, il dramma, è la base su cui si
inseriscono gli altri elementi, ossia canto, scenografia, orchestra ... .
II.1. Il Seicento
II.1.1. In Italia
L'origine del melodramma si fa convenzionalmente risalire ai primi anni
del 1600, periodo in cui la commedia pastorale
2
e l'intermezzo
3
si trasformarono
in ciò che oggi si chiama opera in musica. Questa creazione prettamente italiana
non sorse improvvisamente, ma a seguito di un percorso lento e graduale di
analisi, osservazione, sintesi e sperimentazione, che si attribuisce alla Camerata
1
Daniela Goldin, op. cit., p. VII.
2
Il dramma pastorale era un genere ben accetto da tutte le classi (a differenza di tragedia
e commedia, che erano ritenute troppo tetra e opprimente la prima, o spesso volgare e scurrile la
seconda) in quanto riusciva ad amalgamare momento tragico ed episodi comici grazie anche all'uso
di cori, intermezzi, danze e quindi grazie alla musica in generale. I drammi pastorali erano quindi
una delle espressioni della vita mondana del XVI sec.
3
Si definisce intermezzo un breve interludio comico posto fra un atto e l'altro di un
dramma serio o di un'opera. Il suo argomento non aveva nulla a che fare con quello del lavoro
principale.
fiorentina, i cui membri (nobili come Giovanni de' Bardi e Jacopo Orsi,
compositori come Vincenzo Galilei e Jacopo Peri, poeti come Ottavio Rinuccini)
fondarono i propri principi di riforma sul dramma greco e più precisamente sulla
maniera con cui i greci rappresentavano i loro drammi, ossia cantando i versi
piuttosto che recitandoli. Essi applicarono questo modo di concepire il dramma
(ossia cantare il testo) alle commedie pastorali del XVI sec., in particolare
all'Orfeo di Poliziano (1471), all'Aminta del Tasso (1573) e ancor più al Pastor
Fido di Battista Guarini (1581-90), opera, quest'ultima, che univa poesia e senso
teatrale. Primo librettista, discepolo del Tasso e membro della Camerata, fu
Ottavio Rinuccini, il quale trasse spunto principalmente dalla commedia pastorale,
anche se la brevità delle sue produzioni deriva probabilmente dall'intermezzo.
Altri fattori entrarono in gioco e contribuirono alla nascita dell'opera. Uno
di essi fu l'uso di macchinari scenici creati per effetti spettacolari - elementi di
particolare importanza soprattutto in occasione di grandi feste, nozze e altre
celebrazioni del XVII sec. - , che vennero ancor più utilizzati a partire dal
momento (in Italia databile tra XVI e XVII sec.) in cui fu ampliato il proscenio.
4
Si arrivò addirittura ad abusarne, al punto che questi macchinosi effetti presero il
sopravvento sull'argomento e sulla stessa rappresentazione. Questo fatto provocò
insistenti e sistematiche proteste contro questo modo di intendere le
rappresentazioni teatrali.
Massimo Mila, parlando delle città che furono "culla" del melodramma,
osserva che "il fervore d'esperimenti ond'era sorta a Firenze la nuova forma
drammatico-musicale si spense a poco a poco, e la città che l'aveva tenuta a
battesimo perse ben presto lo scettro dell'opera lirica. Roma e Venezia erano
chiamate a succederle."
5
L'opera nel '600 raggiunse il culmine della sua fortuna nei teatri (con
pubblico pagante) a Venezia dopo il 1637 e, tra il 1620 e il 1640, a Roma, nel
teatro fatto costruire dalla famiglia Barberini, della capienza di circa 3000 persone
e a cui potevano accedere solo gli spettatori invitati dai proprietari, che si
riducevano quindi ad esponenti delle classi più abbienti. E' importante sottolineare
4
L'ampliamento del proscenio permetteva di nascondere le attrezzature sceniche alla vista
del pubblico.
5
Massimo Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, p. 110.
che è proprio dal teatro Barberini di Roma che le rappresentazioni
melodrammatiche furono trapiantate in Francia, grazie al lavoro svolto dallo
stesso Antonio Barberini, che era legato papale a Parigi. Pian piano l'importanza
di Roma come centro operistico si spense (anche se vi si continuarono a produrre
commedie fino alla fine del secolo, secondo il capriccio dei papi), mentre il fulcro
della produzione operistica iniziava a formarsi a Parigi e a Venezia, dove in una
cinquantina d'anni (dal 1641 al 1700 circa) i teatri si erano più che decuplicati,
passando da 4 a 60. Questi centri di cultura e divertimento, situati nei diversi
quartieri della città, erano aperti in corrispondenza delle famose "tre stagioni" - dal
1° settembre al 30 novembre; dal 28 dicembre al 30 marzo; dall'Ascensione al 15
giugno - ed erano di proprietà di una ristretta cerchia di famiglie nobili, che li
lasciava a disposizione di un impresario. Questo fatto ha contribuito a far sorgere
il dubbio che il numero dei teatri riflettesse più la rivalità fra le famiglie nobili,
che così ostentavano la loro potenza, che non l'esigenza effettiva di luoghi in cui
poter assistere alle rappresentazioni del nuovo genere operistico.
Alcune caratteristiche tipiche dei teatri di allora sono curiose soprattutto
perché successivamente sono state stravolte e completamente modificate. Per
esempio, "i palchi erano lasciati, per tutto l'anno, in affitto a famiglie e a stranieri
di rango, specialmente diplomatici [...]; essi facevano parte di un ambiente quasi
completamente isolato dal resto del teatro ed erano un po' come salotti",
6
tanto che
vi poteva essere servito il pranzo, si potevano discutere affari, fare pettegolezzi ...
Vi era poi la platea, il parterre, che era aperta al grosso pubblico, che spesso
doveva stare in piedi, e in cui si potevano gustare bevande e dolciumi
acquistandoli dai venditori che portavano in giro la loro merce durante tutto lo
spettacolo. Ne consegue che "l'idea di silenzio assoluto in quei teatri [...] era
totalmente ignorata",
7
anzi, nel 1600 il rumore a teatro era una consuetudine, e
quindi "i librettisti sapevano bene di dover fare maggior assegnamento su mezzi
visivi per riuscire a conquistare il pubblico alle loro storie".
8
Ancora nel '700 il
pubblico a teatro era piuttosto rumoroso, come confermava Carlo Goldoni
6
Patrick J. Smith, The Tenth Muse. A Historical Study of the Opera Libretto, London, V.
Gollancz, 1971 (tr. it. di Lorenzo Maggini, La decima musa: Storia del libretto d'opera, Firenze,
Sansoni, 1981, p. 18).
7
Ibidem.
8
Ibidem.
assistendo a rappresentazioni di commedie a Colorno nel 1756-57, ad opera della
compagnia di Jean-Philippe Delisle.
9
Proprio a causa di questa atmosfera in cui la confusione regnava sovrana il
"libretto" assunse un ruolo fondamentale, in quanto, come nota il Rolandi, si
avvertiva "il bisogno di avere sottomano il «testo» dell'opera per seguirlo durante
l'esecuzione e riuscire così ad intendere bene le parole cantate. [...] Naturalmente
il piccolo libro contenente i versi di un'opera in musica, distribuito agli spettatori
prima dell'inizio della rappresentazione, era piuttosto breve, di poche pagine,
sicché venne spontaneamente adottata la parola «libretto». Né possiamo escludere
che all'uso antonomastico della parola «libretto» abbia forse contribuito il costume
di stampare tale testo in un libro che, effettivamente, era di piccolo formato,
tascabile (in -12°, di circa cm 14-15 x 7-8)".
10
Il termine divenne comunque di uso
comune, tanto che varcò i confini italiani e fu adottato da altre nazioni, che solo
intorno al 1800 ricorsero a parole specifiche della loro lingua (Textbuch,
Operntext, Textbook, Letra, Livret...) per indicare tale forma letteraria. Fra i primi
libretti solo pochi riportano il nome del compositore sulla prima pagina (molto più
probabile è trovarlo nella prefazione), mentre si dà maggior importanza al
macchinista, a colui che ha costruito i macchinari scenici. Patrick J. Smith precisa
ulteriormente il contenuto di questi primi libretti, dicendo che "il formato tipico di
un libretto veneziano dell'epoca è costituito da una pagina che reca il titolo, la data
della rappresentazione e il nome del dedicatario, seguita da una pomposa
9
Per il soggiorno presso la corte di Filippo di Borbone cfr. Carlo Goldoni, Tutte le opere,
a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1935-56, 14 voll., nel vol. XIV (1956), pp. 420 (lettera
di dedica al duca di Parma dell'edizione Pasquali delle Opere, 1761) e 463-4 (lettera in calce al
decimo e ultimo volume dell'edizione Paperini delle Commedie, Firenze, 1757); sui soggiorni
parmensi del Goldoni si veda anche il cap. XXXI della seconda parte dei Mémoires. Per il
repertorio della compagnia Delisle (Corneille, Racine, Molière, Lesage, Marivaux, Voltaire,
Crébillon, Rousseau) cfr. I. Quattromini, Il teatro della villeggiatura, in Musica e spettacolo a
Parma nel Settecento. Atti del Convegno di studi (Parma 18-20 ottobre 1979), Parma, Università
di Parma - Regione Emilia Romagna, 1984, pp. 89-103, e (anche per una ulteriore
documentazione) G. Ferrari, La compagnia Jean-Philippe Delisle alla corte di Parma (1755-'58) e
la "riforma teatrale" di Guillaume Du Tillot, in La Parma in festa. Spettacolarità e teatro nel
Ducato di Parma nel Settecento, a cura di L. Allegri e R. Di Benedetto, Modena, Mucchi, 1987,
pp. 163-210. Un quadro del teatro per musica del primo Settecento è offerto dal letterato e
musicista veneziano Benedetto Marcello nel Teatro alla moda (1720), satira dei vezzi e dei
capricci di cantanti, impresari e autori.
10
Ulderico Rolandi, Il libretto per musica attraverso i tempi, Roma, Edizioni dell'Ateneo,
1951, p. 14.
prefazione scritta dal poeta, con il giuramento di eterno rispetto e gratitudine verso
il committente. Questa prefazione era a sua volta seguita da un'altra prefazione,
una specie di introduzione dell'autore ai lettori, intitolata «a chi legge» o anche «ai
lettori». Poi veniva l'argomento, ovvero la cronologia degli avvenimenti accaduti
prima dell'azione con cui cominciava l'opera [Era l'antefatto, ossia una parte
esplicativa e informativa per il pubblico ascoltante]. [...] Seguiva l'elenco degli
attori [...] suddivisi nei ruoli di chi cantava e di chi non cantava, cioè i «personaggi
muti». Da ultimo, i cambiamenti di scena, i balletti fra un atto e l'altro e non di
rado un elenco delle macchine e degli effetti scenici che si sarebbero visti nel
corso della serata."
11
I primitivi libretti, inoltre, non erano divisi in atti e scene e
non contenevano didascalie, ossia indicazioni di scenario, di entrata o uscita dei
personaggi, dei loro movimenti sulla scena... Questo significa che il testo si
svolgeva tutto di seguito, dando adito a numerose incomprensioni da parte dello
spettatore. Successivamente tali didascalie vennero gradualmente introdotte, fino a
diventare indispensabili, tanto che nei più moderni libretti esse sono utilizzate
anche per tratteggiare lo stato d'animo dei personaggi e non solo per fornire
indicazioni di regia.
Per quanto riguarda le tre unità aristoteliche (unità di luogo, tempo e
azione), occorre dire che i libretti del 1600 preferivano l'elasticità al rigore, per
consentire una maggior varietà, caratteristica necessaria in una dramma. Va detto,
inoltre, che il rispetto di norme rigide, come quelle aristoteliche, era un processo
inversamente proporzionale proprio all'inserimento di eventi macchinosi e
fantastici, i quali, per loro natura, "esigevano l'abbandono di quei legami che
inceppavano la fantasia degli Autori e l'azione stessa del dramma"
12
e soprattutto
corrispondevano al gusto del pubblico del tempo.
I libretti si dividevano in due categorie: i libretti più raffinati, pubblicati a
spese dell'autore e destinati ad un uso professionale, e quelli «cereni».
11
Patrick J. Smith, op. cit., pp. 19-20.
12
Ulderico Rolandi, op. cit., p. 60.
13
Non era raro che la cera delle candele gocciolasse sul libretto stesso, tanto che se ne
trovano ancora tracce su qualche esemplare.