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Premessa
La scelta della tematica del mio lavoro di tesi risiede nel desiderio
di offrire alcune risposte riguardo la cultura giapponese, a mio parere
profondamente affascinante, e che gli occidentali tendono a guardare con
sospetto per una ambiguità' di fondo insita in essa e nel nostro modo di
concepire ciò che è diverso.
Pertanto allo scopo di comprendere la cultura giapponese, alla
stregua di altre culture, prendo in prestito lo schema teorizzato da
Boudon
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secondo cui è sempre possibile spiegare atteggiamenti e
comportamenti di un attore sociale di una cultura diversa, anche quando
le sue azioni appaiono irrazionali o strane sulla base delle "buone
ragioni". Individuare cioè le buone ragioni che conducono l'agire umano
al fine di avvicinare l' altro e ricondurlo a qualcosa di noto e di razionale
che lo legittimi. Motivo per il quale anche io ho scelto di individuare, all’
interno del primo capitolo, le “buone ragioni” del sistema culturale
giapponese attraverso la descrizione dei temi fondamentali che
caratterizzano questa società. Dall’analisi emerge subito l’idea di una
società imperniata su due concetti fondamentali, quello di amae
(dipendenza) e quello di wa (armonia). La solidarietà e la dipendenza
dall’altro come forma di controllo sociale a discapito della libertà
individuale è infatti il punto di contrasto principale tra la cultura
nipponica e quella occidentale
2
. In Occidente generalmente si ritiene che
1
Boudon Raymond è un sociologo liberale francese del novecento che afferma che l’homo sociologicus,
contrapposto all’homo oeconomicus agisce in modo razionale, ma anche per "buone ragioni" condizionate da
valori, convinzioni e soprattutto dall'identità personale. Questo concetto si distacca completamente dal modello
della Teoria della scelta razionale e dal concetto weberiano di agire razionale rispetto allo scopo. In
L’ideologia, Einaudi Torino 1991. pag.135
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Intendo sottolineare per dovere di precisazione che all’interno del lavoro di tesi ci si riferisce all’Occidente
come un insieme omogeneo, tralasciando le mille diversità culturali di questo sistema altrettanto complesso
quale è.
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una persona sia libera quando è indipendente dagli altri. I giapponesi
invece ritengono di essere liberi quando riescono a realizzare, nelle
relazioni amicali e quelle cooperative una reale reciprocità nell'offrire e
nell'ottenere indulgenza. La distinzione tra le due culture e' ben marcata
da due proverbi, frequentemente usati all’interno del lavoro di tesi,
l’occidentale "aiutati che Dio ti aiuta" o anche "chi fa da sé fa per tre",
che suggeriscono di affidarsi unicamente alle proprie forze e capacità, e
il giapponese "in viaggio e' necessario un compagno; nella vita, la
compassione" che suggerisce come invece l’importanza del gruppo, del
far parte di qualcosa sia di primaria importanza e al di sopra dei valori
definiti universali come giustizia e verità
3
. La devozione passiva, il senso
di obbligo (giri) e la vergogna (aimai) profondamente radicati in questa
società sono usati allo scopo di ripristinare e incrementare la capacità
realizzativa in tutte le connessioni della rete organizzativa facendone una
"società della prestazione" in cui l’individuo viene considerato solo sulla
base di social self e in cui l’identità viene svilita e sfocia in forme di
ribellione a volte dannose e non dichiarate.
E’ il caso del fenomeno “Hikikomori” trattato all’interno del
secondo capitolo. Gli hikikomori o “ragazzi tartaruga”sono i figli del
proprio tempo, espressione di una società fortemente competitiva che
lascia poco spazio all’iniziativa personale e in cui l’insuccesso è vissuto
come intollerabile ed è fonte di vergogna e di emarginazione sociale. La
grande diffusione del fenomeno, che in Giappone colpisce circa un
milione di adolescenti, né fa oggi una delle più grandi subculture
giovanili esistenti al mondo. Caratteristiche del fenomeno sono il rifugio
nel nichilismo dovuto al disinteresse da parte della società nei loro
3
“L’armonia consiste nel non fare distinzioni; se una distinzione può essere fatta tra bene e male, torto e ragione,
allora l’armonia non esiste” op. cit. pag. 41 in Smith R. J. La Società giapponese. Tradizione, individuo e
ordine sociale. Cambridge University Press, Cambridge, 1983
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confronti, e in forme di dipendenza dalle più comuni a quelle più
“moderne” come ad esempio l’internet addiction o lo shopping
compulsivo. Il problema risiede del fatto che essi non trovano più
interessante la scuola, il rapporto con i propri genitori che sentono come
invadenti e frustranti, e soprattutto il rapporto con i loro coetanei con cui
nelle migliori delle ipotesi hanno un rapporto di totale indifferenza o nei
peggiori, di violenza. Molti hikikomori infatti sono vittime di bullismo
(ijime). L’ijime come l’hikikomori viene considerato un marchio di
infamia: da parte della vittima ammettere l’ijime significa dichiarare il
proprio fallimento sociale con il rischio di ulteriori colpevolizzazioni.
Proprio l’eccessivo attaccamento per forme di svago, come la
musica o il gioco, rappresentano rituali funzionali all’isolamento che
permettono a questi adolescenti la restituzione della loro dignità invece
negata dalle disuguaglianze sociali o da quotidiane frustrazioni.
Rappresentano uno spazio di azione che tenga fuori la società, quello
spazio che gli viene negato o addirittura non offerto. La rete infatti viene
a configurarsi come uno spazio protetto in cui cercare rifugio, per
difendersi da angoscianti sentimenti di noia e solitudine, un altrove dove
sperimentare l’occasione illusoria di incontrare un immagine di sé più
forte e positiva, ed essere in grado di superare se stessi ed i propri limiti
4
. Questo spazio virtuale è nella realtà fisica incarnato dalla loro stanza,
un mondo dove hanno possibilità di comando e di controllo.
4
Rampazzi M. R. Sport, vacanze e svago nel tempo libero, in Buzzi C. Cavalli A De Lillo A. (a cura di)
“Giovani del nuovo secolo. Quindi rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia”, Il Mulino, Bologna
2002
5
“Questa stanza per loro rappresenta il padre e la madre,
e nella loro vita, essa conta molto di più dei genitori
reali”
5
L’isolamento è quindi riversato solo nei confronti di ciò che è
all’esterno della porta della propria camera, perché ciò che è lontano è
invece ricercato, la frequentazione di chat straniere, di persone lontane e
la creazione di blogs preferiti proprio perché possono essere, a differenza
del diario, commentati da più persone per un bisogno di
rispecchiamento, necessario per strutturare l’identità.“Con il diario ci sei
solo tu: Con il blog ci sono i tuoi amici”
6
.
Il tempo entro cui sperimentare questa nuova realtà, è il tempo
notturno. Si assiste quindi ad un totale rovesciamento del giorno, con la
notte e della sostituzione del tempo “per la socializzazione” e del “tempo
lavorativo” con il tempo “dello svago” che, se da un lato ha la funzione
di liberarli dall’oppressione e dalle pressioni, dall’altro non fa altro che
imprigionarli nella loro etichetta sociale, nella loro facciata goffmaniana
di nullafacenti.
Se nel caso degli hikikomori il ricorso a nuove forme di
dipendenza è solo funzionale al mantenimento del loro stato di isolatri,
in altri casi le dipendenze sono rimedi per ovviare all’ incapacità da parte
del soggetto di realizzare la propria identità e il proprio presente in una
maniera che venga socialmente riconosciuta e approvata.
Il tema dell’abuso e della dipendenza saranno infatti affrontati in
maniera più dettagliata all’interno del terzo e ultimo capitolo del lavoro
5
Bradbury R. “Le macchine della felicità”. La Tribuna, Piacenza, 1970, in particolare il racconto citato è The
Vedt del 1951 op. cit. pag.27
6
Di Santo A. M. Pedata L. Uno studio pilota sull’utilizzo dei blogs tra gli adolescenti, vol 1 n. 2, Roma 2009 in
www.psychoedu.org
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di tesi allo scopo di mettere in luce una realtà troppo spesso taciuta e
addirittura negata.
L’insorgenza di fenomeni di dipendenza rappresenta allora
contemporaneamente la cifra della tossicità (a)sociale a cui oggi è
costretto il soggetto e nel medesimo tempo un forte richiamo, una
richiesta di aiuto volta alla sottrazione dal meccanismo di mercificazione
della società contemporanea. In tutto ciò il soggetto, privato della
possibilità di attivare un rapporto positivo tra le sue dimensioni
individuali e le sue dimensioni collettive, e non adeguatamente sostenuto
dall’ istituzione familiare, vacilla, diviene indifferente alla sua natura
bimodale (individuale e collettiva), non trova più ancoraggio nella realtà,
e comincia a costruire nicchie difensive caratterizzate da stringenti
dipendenze e/o scenari di terrore ingiustificati ed irrazionali o come nel
caso degli hikikomori dalla devastazione di ogni legame sociale
7
.
La forte autonomia e allo stesso tempo dipendenza derivanti
dall’accezione che il concetto di libertà ha assunto nella società dei
consumi e della mercificazione, richiede infatti che si provveda alla
ricostruzione paziente e critica di uno spazio comune inteso come
l’unica strada per uscire dal tempo del panico o dal panico del tempo
presente, tempo che spinge al di fuori del legame sociale e interrompe la
tensione costitutiva del soggetto individuabile tra conformismo e
narcisismo
8
.
7
In proposito mi permetto di rimandare al saggio di Federico Chicchi “Capitalismo lavoro e forme di
soggettività”, in Laville J. L., Marazzi C. La Rosa M. Chicchi F. Reinventare il lavoro. Sapere 2000, Roma
2005, pp. 149-188.
8
Gaburri E. Ambrosiano L. Ululare con i lupi. Bollati Boringhieri, Torino 2003. op. cit. pag. 37
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Capitolo 1
La cultura Giapponese
In tutti i paesi si è inclini a guardare le altre culture attraverso una
serie di clichè, nella presunzione che la propria sia la migliore del
mondo. Questo stereotipo investe tanto la cultura orientale, quando
quella occidentale. Ad esempio, ancora oggi, nei più grandi giornali
giapponesi non è raro imbattersi nell’espressione aoi me, “occhi
azzurri” per designare gli occidentali, come se questi avessero tutti gli
occhi azzurri. Quasi che questa particolarità fosse un carattere a tutti
comune. Riguardo noi occidentali, guardando un documentario on line,
mi sono resa conto che i clichè che investono la cultura orientale e in
particolare quella giapponese, sono davvero tanti. Ne riporto alcuni
9
:
I giapponesi non pronunceranno mai correttamente le r e l i.
Tutti mangiano balene e delfini rigorosamente crudi.
I giapponesi sono razzisti perché profondamente incazzati per la
Seconda Guerra Mondiale e replicherebbero volentieri la strage
di Pearl Harbour anche se fingono di non perdere mai la
pazienza.
I giapponesi sono tutti dei samurai: praticano le arti marziali e
risolvono le controversie uccidendo chiunque incontrino sul loro
cammino.
9
Shoreland L. “10 Luoghi comuni sulla cultura giapponese” in http://www.loneleeplanet.com, dicembre 2010.
8
I giapponesi guardano tutti gli anime
10
, bambini e adulti. Non
guardano nient’altro. Sono talmente ossessionati dai fumetti da
girare in giro vestiti e truccati come loro da non possedere alcun
altro vestito nell’armadio.
Il Giappone è pieno di distributori automatici di intimo da donna
usato, come se fossero dei pervertiti feticisti.
I giapponesi sono tutti bassi e soprattutto sono tutti magri.
Queste riflessioni fungono da pretesto per descrivere una cultura
profondamente complessa e scarsamente conosciuta, quale quella
giapponese che si guarda attualmente più con titubanza che con
adulazione. Cercherò di spiegarne i motivi all’interno del seguente
lavoro di tesi.
Innanzitutto ciò che possiamo dire con certezza riguardo al
Giappone è che è un paese insulare, separato dal mare dal continente
asiatico, sviluppatosi per i primi duecentocinquant’anni della sua storia,
come un sakoku, ovvero un paese chiuso, che bruciava le imbarcazioni di
ogni mercante che veleggiasse nelle sue acque e uccideva ogni
connazionale che finisse in mare aperto.
Dopo l’incontro con l’Occidente, nel corso della XIX secolo, si
assiste ad una velocissima modernizzazione come reazione all’invasore,
nella speranza che la popolazione non fosse mai costretta ad abbassare il
capo di fronte allo straniero. Il trionfo economico frutto di un
capitalismo controllato dal governo, lasciò tutti sgomenti soprattutto
perché il modello di industrializzazione giapponese, affermando
10
“The word 'anime' is based on the original japanese pronunciation of the american word 'animation. 'The
stereotype of the anime style are characters with proportionally large eyes and hair styles and colors that are
very colorful and exotic. The plots range from very immature (kiddy stuff), through teenage level, to mature
(violence, content, thick plot). The classification of 'hentai' is given to animes of a strong sexual nature” in
http://www.urbandictionary.com
9
l’armonia e l’uguaglianza sociale, era in grado di evitare le conseguenze
negative del capitalismo. Il governo determinava infatti quali industrie
favorire, così queste ricevevano costanti immissioni di capitale,
evitavano l’indebitamento e garantivano ai propri dipendenti
l’occupazione a vita. Il tasso di disoccupazione e di povertà era pertanto
bassissimo. Nonostante il suo incredibile sviluppo il Giappone però non
uscì mai dal proprio isolamento, la monocoltura delle piantagioni di
alberi da gomma, con filari di esemplari identici piantati alla medesima
distanza e lasciati crescere alla medesima altezza, il contenimento di
ogni tipo di iniziativa individuale frutto delle rigide gerarchie sociali ed
istituzionali e il sistematico allontanamento di qualsiasi tipo di
innovazione ed investimento di origine straniera, fecero sì che nel corso
degli anni ’90, con la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra
Fredda, il paese apparisse in tutta la sua immobilità, bloccato in un
sistema troppo inflessibile che ignorava qualsiasi richiesta di
cambiamento. Una nazione insomma con braccia massicce, ma con un
cervello sottosviluppato. Questo sistema così rigido che aveva consentito
al paese di accumulare ricchezze così rapidamente, conteneva in realtà i
semi della sua distruzione: la sollecitazione all’omologazione, la
repressione del dissenso sono in contro tendenza con le caratteristiche
del mondo globalizzato, alimentato dalla tecnologia dell’informazione,
che invece incoraggia l’innovazione e la capacità critica del singolo
individuo. Infatti proprio quelle innovazioni tipiche della tecnologia
dell’informazione che trasformavano le società occidentali, in Giappone
furono profondamente osteggiate: quegli stessi giapponesi che
costruivano computer non amavano usarli - l’ufficio medio giapponese
ha opposto a lungo resistenza all’invasione dei computer e di internet - e
ancora le e-mail usate in ambito aziendale in Giappone fino al 2002 non
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ebbero ampia diffusione - le informazioni o i documenti venivano
consegnati a mano da filiale a filiale, da sezione a sezione - perché,
dando potere ai singoli individui, questi strumenti minacciavano il
sistema di controllo centralizzato tipico del sistema nipponico.
Il problema fondamentale della cultura giapponese è infatti che
essa non ammette il concetto di individualità e di autostima (la parola
autostima in giapponese non esiste) concependo l’individuo come
funzionale per il raggiungimento di un obbiettivo preferendo rimanere
ancorato ad una ossessiva tutela dei propri confini. Si tenta pertanto di
soffocare l’azione indipendente (le voci fuori dal coro non sono gradite)
attraverso l’eccesso di regolamentazioni ad esempio nelle rigide
indicazioni dei prezzi dei prodotti, nell’istillazione del senso del dovere e
nella manipolazione dell’informazione attraverso la pressione esercitata
dai “circoli di stampa”. Queste associazioni che comprendono i
maggiori quotidiani e gruppi televisivi del paese, impediscono la
partecipazione di giornalisti e corrispondenti stranieri, salvo su rilascio
di autorizzazione, a dibattiti, conferenze stampa che comunque in
Giappone sono forme abbastanza rare di propaganda politica e sociale
ma soprattutto veicolano la diffusione dell’informazione ad esempio
concordando prima con gli interlocutori le domande dell’intervista o
tralasciando degli elementi importanti rendendo così volutamente la
notizia poco chiara e di conseguenza poco sovversiva. Il lavoratore
quindi sacrifica la propria libertà personale e la propria creatività in
vista di uno scopo più alto, il mantenimento del suo posto all’interno del
gruppo. In Giappone il lavoro è considerato infatti più come una forma