2
2) dalla metodologia di determinazione dei rating interni, basata su
procedure meccaniche ritenute inadatte a cogliere le peculiarità delle
piccole imprese e quindi a valutarne adeguatamente il merito di credito.
Il presente lavoro ha lo scopo di dare risposte a queste preoccupazioni,
attraverso il confronto tra le tecniche di valutazione utilizzate negli ultimi
anni per i fidi bancari e i nuovi metodi per la valutazione del merito
creditizio.
Per tale motivo nel primo capitolo, dopo aver dato alcune definizioni di
PMI usate dal legislatore nazionale e comunitario, si descrive la struttura
finanziaria delle imprese ed il ruolo del sistema bancario nel finanziamento
delle imprese.
Il secondo capitolo descrive la fase dell’istruttoria di fido tradizionale,
consistente nel complesso di indagini, ricerche, analisi ed elaborazioni con
le quali gli organi competenti delle banche giungono alla formulazione di
un giudizio in merito alla richiesta di credito avanzata dall’impresa. Si
riporta, inoltre, una breve rassegna dei metodi utilizzati per il pricing dei
prestiti.
Nel terzo capitolo si descrivono in modo dettagliato gli accordi di Basilea e,
in particolare, i sistemi di rating interni ed esterni. Nella parte finale del
capitolo si descrive sinteticamente il sistema di rating adottato dalla Banca
Popolare di Milano.
Nel quarto capitolo si descrivono le conseguenze dirette ed indirette sulle
imprese. In particolare, grazie alla collaborazione dell’Associazione Piccole
e Medie Industrie (API) di Cremona, ho avuto modo di realizzare
un’indagine riguardante il rapporto banca-impresa, i cui risultati vengono
riportati alla fine del capitolo. Infine, il quinto capitolo fornisce, senza
alcuna pretesa di completezza, una descrizione delle fonti di finanziamento
alternative al credito bancario ed alcune esperienze straniere in merito al
sostegno delle imprese di piccole dimensioni.
3
CAPITOLO 1
Le caratteristiche delle piccole e medie imprese
4
CAPITOLO 1
Le caratteristiche delle piccole e medie imprese
1.1 La definizione di piccola e media impresa.
La determinazione della dimensione dell’impresa riveste un ruolo
fondamentale negli studi di economia aziendale e di microeconomia. La
misurazione della dimensione aziendale viene utilizzata spesso per lo studio
di diversi problemi: talvolta, ad esempio, viene utilizzata come obiettivo
strategico d’impresa, oppure per la determinazione della dimensione
ottimale, o ancora, per il calcolo di indici statistici.
In questo paragrafo analizzerò la definizione sia dal punto di vista
economico sia da quello giuridico, ossia quella utilizzata dalle diverse
norme nazionali e comunitarie.
La definizione risulta difficoltosa, poiché non esistono parametri
quantitativi e qualitativi che consentono una definizione univoca
1
. Tale
definizione varia, come sostenuto da Zappa
2
, in base al settore produttivo
d’appartenenza e allo scopo sottostante la classificazione. Possiamo
considerare piccole imprese, ad esempio, quelle con un numero di
dipendenti limitato, oppure con capitale investito ridotto, oppure ancora
un’azienda guidata da una sola persona.
La definizione di PMI può essere influenzata dal settore in cui l’azienda
opera e dal relativo grado di concentrazione. Si può considerare ad esempio
come piccola impresa una società operante nel settore automobilistico
1
Già nel 1961 il Bureau International du Travail di Ginevra considerava inutili linee di
demarcazione arbitrarie da utilizzare per tutti gli obiettivi perseguiti, sottolineando invece la
continuità sul piano delle imprese; anche l’Unione Europea e il CNEL considerano i parametri
variabili in base all’obiettivo perseguito.
2
Zappa G., Le produzioni nell’economia dell’impresa, Giuffrè, Milano, 1957.
5
statunitense con 28mila addetti, essendo la dimensione media in quel settore
molto elevata
3
.
Differenti sono i parametri quantitativi e qualitativi utilizzati per la
classificazione. I primi possono essere di natura quantitativo-monetaria
(esempio il fatturato o il valore aggiunto), oppure di natura tecnica (capacità
degli impianti, quantità dei beni prodotti nel corso di un anno), oppure di
natura organizzativa (numero addetti, numero dei livelli direttivi compresi
nell’organizzazione aziendale). E’ necessario in ogni caso considerare in
parallelo anche taluni parametri qualitativi.
Si possono considerare piccole e medie imprese, dal punto di vista
qualitativo, quelle imprese:
• gestite direttamente dal proprietario o, in modo indiretto, con l’ausilio di
collaboratori non specializzati
4
. In questo caso il proprietario-manager
preferisce svolgere tutte le mansioni direttive piuttosto che delegarle ad
altri soggetti e ciò è spesso causato da una scarsa conoscenza delle
materie economico-aziendali. La vita dell’impresa risulta condizionata
in modo determinante dalla mentalità, dalla personalità e dagli obiettivi
dell’imprenditore, mettendo spesso in pericolo la stessa sopravvivenza;
• che hanno un potere di mercato nei confronti dei fornitori, clienti e
concorrenti ridotto; hanno, infatti, una minore capacità di influenzare il
prezzo e la quantità dei beni venduti, pur garantendo una migliore
qualità del servizio/prodotto a causa della vicinanza con le imprese
clienti;
• caratterizzate da elevata flessibilità, intesa come capacità di adattamento
alle mutevoli condizioni ambientali ed ai bisogni del mercato;
3
La quota di mercato di questa impresa è infatti solo del 2%.
4
Secondo un’indagine di Banca d’Italia (1999), le imprese a conduzione familiare rappresentano il
53% dell’intero sistema produttivo nazionale e in termini di forza lavoro occupano il 34% degli
addetti.
6
• connotate da una ridotta formalizzazione delle diverse funzioni
gestionali, con la conseguenza della mancanza di una vera e propria
definizione delle responsabilità dei manager;
• nelle quali vi è la possibilità, da parte dei manager, di instaurare rapporti
diretti e personali con i dipendenti dell’azienda.
Le imprese di dimensioni minori hanno inoltre le seguenti
caratteristiche: carenza di risorse e limitata possibilità di effettuare
investimenti; difficoltà nel reperire risorse finanziarie; scelta di strategie di
focalizzazione (sono selezionate nicchie di mercato sulle quali concentrare
la propria attività); focalizzazione sugli aspetti materiali e produttivi del
prodotto, tralasciando così altre funzioni d’importanza strategica (es.
aspetto finanziario); contesto socio-culturale di tipo “chiuso” che non
consente la circolazione delle informazioni al di fuori del distretto
industriale.
Anche nella letteratura americana il concetto di PMI è simile: infatti
Bolton
5
considera piccola l’impresa che ha una quota di mercato ridotta, è
diretta dal proprietario o dai familiari, senza il sostegno di managers
professionisti. L’impresa, inoltre non ha legami di partecipazione con
grandi imprese e non appartiene ad un gruppo.
Nello Small Business Act
6
sono incluse nella definizione di PMI
quelle imprese possedute e gestite in modo indipendente e che non hanno
un ruolo dominante nel loro settore.
Sebbene l’utilizzo di parametri qualitativi sia da preferire, risulta
necessario l’utilizzo di parametri quantitativi per esigenze di automaticità e
certezza. Infatti, le più importanti definizioni sono state formulate nel corso
5
Bolton J.E., The financial need of the small firm, Institute of bankers, London, 1978.
6
Venne costituita negli U.S.A. la Small Business Administration, agenzia per il supporto alle
piccole imprese.
7
del secolo scorso in occasione dell’emanazione di norme finalizzate ad
incentivare le imprese minori.
I parametri quantitativi più utilizzati per la classificazione delle
imprese sono richiamati nel seguito.
a) Il capitale investito.
Diverse sono le configurazioni utilizzate dal legislatore italiano.
Nella legge n° 623 del 1959 il capitale investito era definito come somma
algebrica delle immobilizzazioni, al netto dei fondi ammortamento, più il
capitale circolante netto. Erano considerate pmi quelle imprese con capitale
investito fino a 6 miliardi di Lire.
Numerosi sono però i limiti:
- non si tiene conto dell’attività economica effettuata, in altri termini
se labour intensive o capital intensive;
- non sono considerati i beni in leasing e quindi non di proprietà;
- non è considerata l’appartenenza ad un gruppo.
Negli anni ’70 le norme diedero una nuova configurazione di capitale
investito, definito come totale delle immobilizzazioni al netto dei relativi
fondi ammortamento e delle riserve di rivalutazione monetaria, creando
così benefici verso le imprese più anziane e quelle imprese che avevano
fatto ricorso agli ammortamenti anticipati.
b) Il numero degli addetti.
E’ uno dei parametri più utilizzati anche a livello europeo. Infatti in
Germania, in Francia , in Olanda e Belgio il limite occupazionale utilizzato
varia da 50 a 200 dipendenti. Soffre però dei medesimi limiti del capitale
investito perché influenzato dal tipo di attività. Nella legge n°623 del 1959
8
si fissò un numero massimo di 500 dipendenti. Sarebbe opportuno
affiancare a tale parametro il capitale investito
7
.
c) Il fatturato
8
.
Il suo utilizzo presenta notevoli limitazioni perché si potrebbero
classificare nella medesima categoria dimensionale due imprese situate a
monte e a valle del processo produttivo e, di conseguenza, con differenti
dimensioni “reali”. L’utilizzo di tale parametro è inoltre sconsigliato per la
presenza dell’inflazione, in particolare nei periodi in cui il tasso
inflazionistico raggiunge le due cifre decimali.
d) Il valore aggiunto.
Può essere calcolato in due modi:
- diretto: si sottraggono dal valore della produzione i beni ed i servizi
acquisiti dall’esterno;
- indiretto: si sommano all’utile netto le imposte sul reddito, gli oneri
finanziari, le retribuzioni al personale e gli ammortamenti.
L’utilizzo di tale parametro è consigliato da diversi studiosi (Pivato,
Dessy
9
), perché consente di riassumere in pochi dati l’efficienza aziendale.
Nonostante ciò non è stato ancora utilizzato dal legislatore, nelle norme di
politica industriale, per mancanza di automaticità e semplicità di calcolo.
7
Esempio: delibera del CIPI del 1979 definiva pmi le imprese con capitale investito non superiore
a 16,334 miliardi di Lire e con meno di 300 dipendenti; nella legge n°317 del 1991 vennero
modificati i parametri: il capitale investito passò a 20 miliardi di Lire e i dipendenti a 200 per le
imprese industriali, mentre per le imprese del terziario 7,5 miliardi e un numero massimo di 75
dipendenti.
8
Da notare che nel nuovo accordo di Basilea, al fine di ridurre il coefficiente patrimoniale in caso
di crediti verso le pmi, sono considerate piccole e medie imprese quelle che a livello consolidato
hanno un fatturato inferiore a 50 milioni di euro.
9
Gilardoni A., Pivato S., Elementi di economia e gestione delle imprese, EGEA, Milano, 1998;
Dessy A., Politiche finanziarie e indebitamento nelle piccole e medie imprese, EGEA, Milano,
1995.
9
Secondo alcuni autori presenta dei limiti
10
, come l’inclusione di proventi su
titoli o in immobili civili che nulla hanno a che fare con l’attività
caratteristica; inoltre non fornisce informazioni sulle partecipazioni non di
controllo eventualmente detenute dall’impresa
11
, se non le informazioni
relative ai dividendi percepiti.
Nella realtà i parametri più utilizzati per la classificazione sono il
numero degli addetti e il fatturato.
Le statistiche dell’ISTAT sono solite distinguere le imprese in base
al numero degli addetti, mentre in ambito europeo l’Unione (con il
regolamento n. 70 del 2001) ha fornito una specifica definizione di PMI in
base al fatturato (in alternativa il totale di bilancio) ed al numero degli
addetti impiegati (tabella 1.1).
Tabella 1.1. Profili dimensionali delle imprese.
UNIONE EUROPEA
Imprese
ISTAT
Addetti
Dipendenti
Fatturato
(euro)
Totale di
bilancio
(euro)
Artigiana
Piccola
Media
Grande
fino a 10
11-99
100-499
500 e oltre
fino a 10
fino a 50
fino a 250
oltre 250
-
fino 7 milioni
fino 40 milioni
oltre 40 milioni
-
fino 5 milioni
fino 27 milioni
oltre 27 milioni
Fonte: elaborazione di una tabella tratta da Gilardoni A., Pivato S., Elementi di economia e
gestione delle imprese, EGEA, Milano, 1998.
Nel 2003 la Commissione Europea
12
, allo scopo di rendere più coerenti le
politiche a favore delle PMI e per evitare distorsioni della concorrenza, ha
10
Per approfondimenti: Massari M., La media impresa in Italia, ISEDI, Milano, 1977; Ciambotti
M., La misurazione della dimensione e il problema definitorio della piccola impresa, in “Rivista
dei dottori commercialisti”, N. 1, 1984; Rispoli M., Il valore aggiunto nel controllo della strategia
aziendale, in “Finanza marketing e produzione”, N. 4, 1983.
11
In realtà nessun parametro quantitativo fornisce informazioni su eventuali partecipazioni
detenute.
12
Raccomandazione 2003/361/CE del 6 maggio 2003. È necessario ricordare che il recepimento
delle raccomandazioni non è obbligatorio.
10
formulato una raccomandazione riguardante la definizione delle imprese di
minori dimensioni. In particolare: per le microimprese ha introdotto anche
un limite di fatturato pari a 2 milioni di euro, per le piccole imprese tale
valore è stato portato a 10 milioni di euro, inoltre, per le medie imprese il
volume di fatturato è stato portato a 50 milioni di euro (totale di bilancio
uguale a 43 milioni di euro).
Alcuni studi utilizzano la dimensione dell’affidamento come proxy
della dimensione delle imprese; è stata infatti dimostrata esservi una
correlazione diretta tra dimensione del credito concesso e dimensione
dell’impresa
13
.
In conclusione risulta poco utile offrire una definizione univoca di
PMI: di conseguenza nel corso della ricerca quando farò riferimento alle
piccole imprese intenderò quella particolare categoria di imprese che
rappresenta il pilastro portante dell’economia italiana, che raggiunge ridotti
volumi di fatturato e che occupa un limitato numero di addetti.
Nei paragrafi che seguono si analizzeranno in particolare la struttura
finanziaria, per meglio comprendere l’entità dell’intervento bancario nel
finanziamento delle imprese e il rapporto banca-pmi, al fine di valutare al
meglio gli effetti che il nuovo accordo di Basilea, che sarà approvato in
versione definitiva nel corso del 2004, avrà sulle piccole e medie imprese.
13
Foglia A., Il finanziamento delle imprese in Italia, in “Banca Impresa Società”, N.1, 1995.
11
1.2 Le variabili che influenzano la struttura finanziaria: dalla teoria alla
realtà.
E’ opportuno fare una breve sintesi delle principali teorie che si sono
susseguite negli studi di finanza aziendale sulla struttura finanziaria delle
imprese.
Fino a qualche anno fa in letteratura si riteneva che le teorie di
finanza valessero per tutte le imprese, mentre oggi ci si rende conto che le
peculiarità finanziarie delle piccole e medie imprese richiedono un
approccio specifico. Questo a causa della scarsa apertura a soci esterni e
della mancanza di titoli quotati in mercati ufficiali, che rendono ancor più
difficoltoso il ricorso a nuovo capitale.
Gli studi effettuati dagli economisti per definire la struttura
finanziaria ottimale
14
sono stati numerosi.
Uno dei più importanti fu certamente lo studio di Modigliani e Miller
nel 1958. In questo studio viene dimostrato che, in presenza di un mercato
perfetto, il valore dell’impresa non è influenzato dalle scelte di
finanziamento. Le ipotesi su cui si basa tale teoria sono numerose
15
:
inesistenza di imposte societarie e personali; possibilità da parte delle
imprese e delle persone di ricorrere all’indebitamento senza limiti e con lo
stesso tasso di interesse; gli investitori conoscono la redditività futura
dell’impresa; la suddivisione delle imprese per classi omogenee di rischio;
agli investitori sono applicate le stesse condizioni delle imprese.
14
Per struttura finanziaria ottimale si intende il rapporto tra indebitamento finanziario e mezzi
propri che massimizza il valore dell’impresa.
15
Brusa L., Zamprogna L., Finanza d’impresa, Etas, Milano, 1997.
12
Secondo Modigliani e Miller il valore dell’impresa è dato dalla redditività e
dal rischio insito nell’attività di impresa; in questo caso il passivo
rappresenta solo la ripartizione tra capitale proprio e mezzi di terzi.
Modigliani e Miller, nel 1963, modificarono la prima teoria per la
presenza di imposte societarie ed arrivarono a sostenere che l’impresa
avrebbe dovuto finanziarsi al 100% con capitale di debito.
Quanto sostenuto da Modigliani e Miller trova riscontro nella situazione
italiana, anche se è necessario considerare l’aliquota effettiva di imposta
gravante sulla società poiché, in caso di assenza di redditi, la deduzione di
interessi passivi non comporterebbe alcun risparmio fiscale e l’impresa
sarebbe definita come tax exhaustion.
Un’analisi empirica
16
del 1991, riferita alle imprese italiane, mostra come vi
sia una relazione positiva tra grado di indebitamento e grado di tax
exhaustion, quest’ultimo calcolato facendo il rapporto tra aliquota
effettivamente pagata e aliquota di imposta in vigore.
Numerose furono le critiche a queste teorie. La realtà è caratterizzata
dalla presenza di imposte personali, da costi di fallimento, costi di agenzia e
da asimmetrie informative.
Nel 1977, Merton e Miller considerando la presenza di imposte
personali, sostenne la necessità di bilanciare il debito in base alle aliquote di
imposta gravanti sulla società e sugli azionisti. In questo caso conviene
indebitarsi fino a quando l’aliquota di imposta personale da pagare sugli
utili di impresa è superiore all’aliquota di imposta sugli interessi.
16
Bonato L., Hamaui R., Ratti M., Come spiegare la struttura finanziaria delle imprese italiane?, in
“Banca Commerciale Italiana – Collana Ricerche”, R91-18, 1991.
13
In Italia, come dimostrato da diversi studiosi
17
, conviene indebitarsi
perché l’aliquota di imposta dovuta sul capitale di debito è superiore
all’aliquota dovuta sul capitale di rischio.
Una evoluzione della teoria di Miller venne elaborata nel 1980 da De
Angelo e Masulis. Secondo gli studiosi è necessario, per determinare il
grado di indebitamento ottimale, considerare la specifica situazione in cui
l’azienda si trova. L’impresa potrebbe avere meno benefici
dall’indebitamento in caso di accumulazione di perdite pregresse, oppure in
caso di benefici fiscali come esenzione da imposta di componenti positivi di
reddito. Gli studiosi hanno infatti dimostrato che le imprese che si trovano
nella situazione descritta precedentemente presentano livelli di
indebitamento minori.
Un’ulteriore critica alla tesi di Modigliani e Miller consiste
nell’aumento dei costi conseguenti al rischio di crisi percepiti dai terzi
esterni all’azienda e dai costi di fallimento derivanti dalla crescita
dell’indebitamento. La conseguenza è che i terzi finanziatori potrebbero,
ritenendo più rischiose le PMI, limitare i finanziamenti, pretendere
compensi più elevati oppure richiedere garanzie onerose. Ciò riduce il
valore di mercato dei titoli dell’impresa
18
. Le imprese tendono quindi a fare
ricorso al capitale di rischio in misura inferiore a quanto suggerito dalle
teorie.
I costi di fallimento vengono suddivisi in due categorie:
- diretti, sono le spese legali ed amministrative legate alla procedura
concorsuale;
17
Carlotti M., Struttura finanziaria e variabili fiscali nel contesto italiano attuale, in “Finanza,
Impresa e mercati”, N. 1, 1993; Giannini S., Imposte e finanziamento delle imprese, Il Mulino,
Bologna, 1989.
18
Brealey R.A., Myers S.C., Sandri S., Principi di finanza aziendale, McGraw-Hill, Milano, 1999.
14
- indiretti, dati dai costi causati da problemi organizzativi e gestionali
che potrebbero derivare da comportamenti opportunistici degli
stakeholders.
Secondo Altman
19
i costi indiretti sarebbero dati dalle perdite delle vendite
e di altre opportunità poiché i clienti, solitamente, hanno dubbi se
concludere o meno dei contratti con soggetti in difficoltà. Con particolare
riferimento alle imprese di piccola dimensione è necessario notare come i
costi derivanti dal dissesto siano proporzionalmente maggiori rispetto alle
imprese di grandi dimensioni, perché più facilmente assoggettate a
procedure concorsuali rispetto alle grandi imprese
20
.
In altri termini nel determinare il grado di indebitamento si deve
considerare da un lato il vantaggio fiscale del debito e dall’altro è
necessario minimizzare i costi di fallimento perché riducono il valore
dell’impresa di una somma uguale al valore attuale dei costi di fallimento
moltiplicato la probabilità che lo stesso si verifichi.
Jensen e Mekling
21
(1976) prendono in considerazione i costi di
agenzia, da intendersi come gli oneri posti a carico dell’impresa per
contenere i danni derivanti da conflitti di interesse esistenti tra azionisti-
creditori e azionisti-managers evitando quindi l’uso opportunistico della
propria posizione. Secondo Jensen e Mekling l’aumento dell’indebitamento
cresce la probabilità che i managers o gli azionisti, pongano in essere scelte
che determinano la redistribuzione della ricchezza (esempio: distribuzione
degli utili, scelta di investimenti eccessivamente rischiosi, rinuncia ad
investimenti che richiedono l’aumento di capitale), danneggiando così i
19
Altman E.I., Operazioni di ristrutturazione del passivo aziendale e valori di capitale, in “Finanza
marketing e produzione”, N. 1, 1991.
20
Ciò anche per motivi di ordine sociale.
21
Dini L., Pencarelli T., Teoria della struttura finanziaria e piccola impresa, in “Piccola impresa”,
N. 3, 1995.
15
creditori. Ciò comporta l’adozione, da parte dei creditori, di azioni difensive
come l’aumento del tasso di interesse o delle garanzie richieste.
Secondo questa teoria, i costi di agenzia dovrebbero essere inferiori per le
imprese dei settori regolamentati (ad esempio i servizi pubblici), favorendo
così l’indebitamento, poiché la probabilità che i manager sostituiscano le
attività meno rischiose in attività più rischiose è ridotta.
Questo è confermato anche da una ricerca empirica (Bonato, Hamaui,
Ratti); gli autori hanno dimostrato come vi sia una minore grado di
indebitamento nei settori più protetti come quello farmaceutico.
La struttura finanziaria ottimale sarebbe in questo caso quella che riduce i
costi di agenzia relativi al debito ed al capitale di rischio.
La Pecking Order Theory
22
(o teoria dell’ordine di scelta) si basa
sulla asimmetria informativa esistente tra manager e investitori esterni. Il
prezzo delle azioni varia in base al tipo di informazione che i manager
danno al mercato. Ad esempio l’annuncio dell’aumento del dividendo
ordinario fa aumentare il valore delle azioni poiché i soggetti esterni
traggono informazioni sulla profittabilità dell’impresa. La maggiore
conoscenza dei manager, rispetto agli investitori, genera un’informazione
asimmetrica che influenza la modalità di finanziamento dell’impresa.
Secondo questa teoria ciò porta ad un ordine di scelta nelle fonti di
finanziamento:
I. prima si utilizza il finanziamento interno (soprattutto gli utili
reinvestiti);
II. si adatta l’obiettivo di distribuzione degli utili in relazione alle
opportunità di investimento. In altre parole, si cerca di coprire le
diverse opportunità di investimento e le impreviste perdite di
22
Tra le ipotesi assunte vi è la preferenza del finanziamento interno e la presenza di asimmetrie
informative.