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Per dimostrare quanto si afferma è importante iniziare con l’analisi diacronica
della percezione e dell’ideologia del lavoro dalla prima industrializzazione ad
oggi, al cambiare del contesto organizzativo, sociale e tecnologico. Si indagherà
poi sugli aspetti più interiori della motivazione al lavoro.
La parte centrale è dedicata allo studio della sovrapposizione che già esiste tra
gioco e lavoro e dei vantaggi che questo comporta, se ne comporta; per questo
sarà presa in esame anche una esperienza reale.
Infine l’ultimo capitolo sarà dedicato alle conclusioni e alla proposta di
soluzioni organizzative che possano facilitare l’avvicinarsi di gioco e lavoro.
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Capitolo primo
CULTURA, VALORI E PERCEZIONE DEL LAVORO
DAL PRE-INDUSTRIALISMO AD OGGI
1.1 DUE PAROLE SUL LAVORO…
Considerando la parola lavoro da un punto di vista linguistico ed etimologico, è
possibile notare che il lavoro in principio viene visto con una prospettiva
antropomorfica; se consideriamo il greco duglia o il francese travaille, o ancora,
una variante di lavoro nello stesso italiano, travaglio, possiamo facilmente
risalire al lavoro che la donna compie al fine di partorire. Il concetto di lavoro si
lega così, all’inizio, ad un evento biologico fondamentale, quello appunto della
conclusione della gravidanza e cioè del parto.
Il lavoro è dunque un riferimento al dolore, ma anche alla creazione. Il lavoro è
doloroso, ma anche vitale, riproduttivo, femminile.
Se invece prendiamo in esame i termini più abituali (e di formazione più
recente) di lavoro, per esempio l’italiano lavoro, il labour inglese, l’ arbeit
tedesco, si riferiscono tutti a una realtà di lavoro “duro”; arbeit pare abbia
un’origine dallo slavo robota, che è riferito ad una attività costantemente
pesante.
Con l’inglese work, che si riferisce sia all’attività che al prodotto, arriviamo ad
una concezione più astratta, e moderna, del lavoro. Ciò che diviene centrale è
l’attività al fine di ottenere prodotti, materiali o immateriali che siano; diventa
indifferente se a compiere il lavoro sia un uomo o una macchina.”
4
Le lingue di origine latina sono notoriamente più antiche e i diversi semi che
compongono i termini lasciano intuire come, già da un punto di vista
linguistico, il significato del lavoro abbia eseguito notevoli voli pindarici nel
corso della storia della nostra cultura.
4
REBECCHI, “I giovani e il lavoro”, in Addabbo T.(2001) Il lavoro come
cambia, come si rappresenta: metodologie.
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1.2 LA DOPPIA NATURA DEL LAVORO
“Del proprio beeper, chi lo porta parla come di una disgrazia, ma intanto
gli brillano gli occhi.”
Aris Accornero
Oggi si assiste ad un radicale cambiamento del modo di intendere l’attività
lavorativa. C’è una progressiva valorizzazione del lavoro, non più visto come un
male necessario, un mezzo per “sbarcare il lunario”, anzi, vista la scarsità di
lavoro umano necessario oggi e considerato che esso rimane comunque l’unico
mezzo legale per emanciparsi dalla povertà, il lavoratore è spesso considerato
un privilegiato.
Tuttavia, anche se effettivamente esiste una rivalutazione del lavoro, non vanno
trascurati i costi psicologici e sociali che esso ancora comporta e che fanno
perdurare le connotazioni negative legate all’attività lavorativa, spesso
accompagnata da condizioni di stress psicologico e fisico, disagi
nell’organizzazione della vita privata, difficoltà nel trovare un’occupazione che
soddisfi le proprie esigenze, aspettative e predisposizioni, difficoltà nei rapporti
interpersonali e molte altre ancora.
Molti prevedono un futuro in cui molte delle attività che oggi chiamiamo
lavorative, liberate dalle loro funzioni strumentali, saranno considerate alla
stregua delle altre attività umane ricreative.
Per ora il lavoro attraversa una fase di natura schizofrenica, di generazione e di
morte, privilegio ed espiazione, piacere e sofferenza, dominio e schiavitù,
alienazione e autorealizzazione, identità e massificazione, scelta e condanna,
decisione ed esecuzione.
5
Katz ha fatto notare che vi sono “meccanismi sostitutivi di compensazione” e
che la “compensazione fuori del lavoro” non è la stessa cosa della soddisfazione
5
De masi D.(2003) La fantasia e la concretezza. Rizzoli, Roma.
8
nel lavoro: è parziale e non ripaga; è come credere di monetizzare lo scontento:
si rischia lo strumentalismo verso il lavoro
6
.
Tuttavia la compensazione fuori dal lavoro è stata per molti decenni l’unico
possibile incentivo al lavoro; Secondo Gorz, infatti, il fattore umano è un
intoppo al lavoro in quanto fare affidamento alla cooperazione volontaria,
autoregolata, significherebbe non riuscire a calcolare e prevedere il
funzionamento della “macchina” in modo rigoroso. Ma ciò implicava che il
lavoratore dovesse entrare nel processo di produzione spogliato della sua
personalità e della sua particolarità, degli scopi e dei desideri suoi propri, in
qualità di semplice forza-lavoro, intercambiabile con quella di qualsiasi altro
lavoratore, per servire scopi che gli erano estranei e indifferenti.
Pertanto gli incentivi al lavoro dovevano riguardare necessariamente la sfera
non lavorativa.
La mancanza di integrazione sociale positiva è, dunque, sia causa che
conseguenza dell’organizzazione del lavoro alienante: si cerca di evitare
l’integrazione sociale in quanto deleteria per l’integrazione funzionale.
Secondo una logica antitetica alla nostra, il lavoratore andava educato ad un
approccio strumentale verso il lavoro.
In questo modo però la vita privata diventava la negazione della vita sul lavoro
e viceversa.
I valori edonistici della società, di confort, di godimento immediato, di minimo
sforzo si contrappongono diametralmente ai comportamenti richiesti sul lavoro.
L’attività produttiva si separava dal suo senso, dalle sue motivazioni e dal suo
oggetto per diventare il semplice mezzo per guadagnare un salario.
Ecco perché il lavoro ha una natura schizofrenica: la sua capacità generatrice di
senso viene del tutto capovolta ed è pertanto il lavoratore stesso a rifiutarla.
Qui intervengono le human relations, che dagli anni ’20 in poi cercano di
ricomporre lavoro e lavoratori in un quadro organico. Nascono i gruppi semi
autonomi.
6
KATZ in Accornero A.(1994) Il mondo della produzione. Il mulino, Bologna.
9
Questo permetteva di vivere il lavoro di nuovo come attività e come
cooperazione, che doveva portare a minore assenteismo e maggior rendimento.
E’ una svolta di 180°. Si valutano i lavoratori per la loro adattabilità, spirito di
cooperazione e attaccamento all’azienda.
Dall’integrazione funzionale si passa all’integrazione sociale, ovvero sia un
secondo aspetto della natura doppia del lavoro.
7
I rapporti che si creano all’interno di un posto di lavoro sono difficili da
definire, in quanto sono il frutto della giustapposizione di un piano formale e di
un piano informale; secondo Accornero, l’industria ha storicamente prodotto
livelli mai visti da un lato di cooperazione e dall’altro di tensione. Non vi era
mai stato un luogo e un ambito dove i ruoli dei soggetti si fossero trovati così
vincolati da una convivenza strettissima e una belligeranza permanente.
L’esperienza aziendale non evoca scenari meramente funzionali, oppure
dicotomici. L’azienda è un luogo elettivo di cooperazione e di conflitti. Lì
dentro si svolge una contesa sociale insanabile dove l’attività quotidiana non è
chre un ronzio di fondo. L’impresa insomma può suscitare sia una elevata
integrazione che una elevata opposizione.
8
7
Gorz A.(1992) Metamorfosi del lavoro. Boringhieri, Torino.
8
Accornero A.(1994) Il mondo della produzione. Il mulino, Bologna.
10
1.3 VECCHI VALORI E NUOVI VALORI
Prima dell’avvento della fabbrica, la gran parte dei lavoratori erano contadini e
artigiani, che vivevano il proprio lavoro come parte integrante della propria vita
privata.
Spesso la bottega era parte della propria stessa casa e dunque l’economia del
tempo a disposizione dell’individuo era scandita dalle convenienze o dalle
necessità che questi man mano incontrava.
Poi, alla fine del ‘700, arrivò l’industria: milioni di contadini e artigiani
divennero lavoratori “subordinati”; i tempi e i luoghi di lavoro non dipesero più
dalla natura e dalla vita del contadino ma dalle regole dell’imprenditore e dai
ritmi delle macchine, delle quali l’operaio costituiva un semplice ingranaggio. Il
lavoro, che poteva durare anche quindici ore al giorno, divenne fatica crudele
per il corpo dell’operaio e assillo stressante per la mente degli impiegati, ma,
soprattutto, iniziò a separarsi drasticamente dalla vita privata dell’individuo.
<<Nei due secoli successivi al ‘700 le parole più spesso ripetute nel mondo
aziendale saranno “razionalismo” “razionalizzare” “razionalizzazione”.
In estrema sintesi, per l’organizzazione scientifica del lavoro,
“razionalizzazione” significa che tutto ciò che è positivo attiene alla sfera
quantitativa e razionale, ciò che è razionale è maschile, ciò che è maschile
riguarda la produzione, tutto ciò che riguarda la produzione si celebra nei luoghi
di lavoro. Di conseguenza tutto ciò che è emotivo è femminile, tutto ciò che è
femminile riguarda la riproduzione, tutto ciò che riguarda la riproduzione si
consuma nell’universo domestico.
Casa e azienda, vita e lavoro, maschi e femmine, affetti e razionalità, pratica ed
estetica sono sfere che vanno tenute distinte e separate.>>
9
Secondo questa suddivisione, certamente il gioco non appartiene alla parte
razionale della vita; Ford, nella sua autobiografia, dice <<Quando lavoriamo
dobbiamo lavorare, quando giochiamo dobbiamo giocare. Non serve a nulla
mescolare le due cose. L’unico obiettivo deve essere quello di svolgere il lavoro
9
De masi D.(1999) Il futuro del lavoro. Rizzoli, Roma. pag. 107
11
e di essere pagati per averlo svolto. Quando il lavoro è finito, allora può venire
il gioco, ma non prima>>.
10
Il calcolo contabile è la forma per eccellenza della razionalizzazione reificante.
Esso pone la quantità di lavoro per produrre una unità di prodotto, facendo
astrazione dal vissuto del lavoro: dal piacere o dal dispiacere che questo lavoro
mi procura, dalla qualità dello sforzo che richiede, dal rapporto affettivo,
estetico con l’oggetto.
L’epoca nella quale hanno vissuto i nostri nonni e genitori era fondata su valori
“industriali”: senso del dovere, stoicismo, efficienza. Erano valori che
calzavano a pennello in una società in cui il lavoro da fare era molto e le
ricchezze da distribuire erano poche.
Il mondo è cambiato, ma noi continuiamo a pensare facendo affidamento su tali
basi culturali. Forse non si è mai parlato tanto di crisi come da quando si sono
diffuse nuove tecnologie e nuovi metodi organizzativi, capaci di liberare l’uomo
dalla fatica fisica, di potenziare le sue capacità di memoria, di calcolo e persino
di intelligenza; di trasformare molto tempo del lavoro dipendente in tempo
autogestito. E’ assai probabile che ad essere in crisi non fosse tanto il sistema
sociale quanto il sistema di valori con cui lo si interpretava. E’ questo un effetto
del “cultural gap”, per cui le categorie mentali del passato, ormai obsolete,
influenzano la successiva visione del futuro e finiscono per condizionarla.
Oggi il mondo è cambiato; le ricchezze sono divise in modo molto diverso dal
passato, la natura del lavoro è cambiata e nuovi valori stanno definendo un
nuovo zeitgeist. I valori ludici di cui parleremo in questo capitolo trovano
terreno fertile nelle nuove generazioni, formate da persone già abituate a
confondere le attività di studio, di lavoro e di tempo libero.
De Masi descrive così questa nuova generazione “digitale”: <<la frequente
consuetudine con la disoccupazione li ha abituati a coniugare spezzoni di lavoro
casuali con fasi di studio più intenso, con viaggi, con la cura della famiglia e del
10
Ford H. (1982) Autobiografia. a cura di S. Crowther, Rizzoli, Milano.
pag. 166.
12
gruppo amicale.(…) I digitali sono spesso disoccupati, ma colti e agiati(…),
tendono a dare poca importanza al denaro come fine a se stesso e poca
importanza al consumo come simbolo di status. Curano il proprio corpo ma non
lo arredano in modo costoso, preferendo ciò che si è a ciò che si appare. I
digitali sono una cultura. Anzi, una controcultura rispetto alla cultura
impiegatizia e manageriale, frenetica ed esecutiva>>.
11
La nuova generazione ha in parte compreso, come dice Lane, che il consumo e
il denaro hanno soltanto un debole rapporto con ciò che rende la gente felice:
l’autonomia, la stima di sé, la felicità familiare, l’assenza di conflitti fuori dal
lavoro, l’amicizia. La qualità della vita dipende dunque dall’intensità degli
scambi affettivi e culturali, dalle relazioni fondate sull’amicizia, l’amore, la
fraternità, l’aiuto reciproco, e non dall’intensità dei rapporti mercificati.
12
In realtà, questa presunta “saggezza” che caratterizzerebbe le nuove generazioni
è anch’essa il risultato di quel processo riflessivo di cambiamento dei valori
descritto da Inglehart nel suo libro “La rivoluzione silenziosa”.
L’autore spiega come questi valori “post-materialisti” siano il frutto della
liberazione delle società occidentali dall’assillo dei “bisogni primari”, cioè di
sopravvivenza e di sicurezza (condizione in cui i paesi occidentali si trovano
ormai dal dopoguerra) e dunque di una concentrazione sui bisogni di auto-
realizzazione.
13
Dunque la valorizzazione di quegli aspetti più “alti” della vita è più facile che
avvenga in un contesto di oggettivo benessere e di relativa spensieratezza dai
problemi più materiali.
Tale tesi è valorizzata anche dal fatto che questi valori sono più sentiti dai
giovani, notoriamente più spensierati e meno responsabili del proprio
sostentamento rispetto agli adulti.
Tuttavia, quella condizione fisica e sociale che viene indicata come giovinezza
riguarda fasce più ampie di quelle circoscritte dalla semplice differenza di età.
11
De masi D.(1999) Il futuro del lavoro. Rizzoli, Roma. pag.281
12
R.E. LANE in Gorz A.(1992) Metamorfosi del lavoro. Boringhieri, Torino.
13
Inglehart R.(1983) La rivoluzione silenziosa. Rizzoli, Milano.
13
Fenomeni come l’allungamento dell’età giovanile, la crescita delle aspettative,
la ridiscussione delle tappe che per tanto tempo hanno contraddistinto il
passaggio all’età adulta (l’ingresso nel mondo del lavoro, l’uscita dalla famiglia
di origine, la costituzione di un proprio nucleo familiare ecc..) diventano infatti
essenziali per capire le trasformazioni che attraversano le nuove generazioni.
14
Inoltre, questi valori costituiscono la base culturale di quella che Richard
Florida ha chiamato la nuova classe creativa. Non a caso l’autore chiama
“classe” questa categoria emergente, che secondo le sue ricerche costituisce il
30% della forza lavoro negli USA; infatti se oggi identifichiamo il successo
nella vita con un metro nuovo, questo è dovuto al fatto che i valori evidenziati
da Inglehart come post-materialisti sono diventati, grazie all’importanza e al
benessere di questa nuova e invidiata elite, il nuovo mainstream.
Moltissimi, anche chi non fa parte della “classe creativa”, pretenderà e
perseguirà questo nuovo modello di vita. E’ probabile che in breve tempo gran
parte della nostra società sarà fondata su quei nuovi valori che ora stiamo
associando solamente ai giovani e ai creativi.
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Nel mondo del lavoro questi cambiamenti hanno causato un innalzamento
valoriale degli obiettivi e delle motivazioni al lavoro. Si è passati da valori
materialisti, come la bontà dello stipendio e la sicurezza del posto, a valori
meno tangibili come il senso di realizzazione, tramite un lavoro stimolante e
divertente, e la ricerca di socialità positiva sul lavoro .
Accornero nota gli stessi mutamenti anche se ne dà una lettura meno ottimistica:
<<Dal momento che i sacrifici delle famiglie consentono a non pochi giovani di
essere selettivi rispetto all’impiego desiderato, il rischio è che questo “crescere
senza lavoro” alteri i sistemi di valore: che nei ragazzi affievolisca l’etica
dell’operosità costruita dalla civiltà industriale, e nelle femmine venga ridotta
14
COSETTI in Addabbo T.(2001) Il lavoro come cambia, come si rappresenta:
metodologie studi e immagini del lavoro. Franco Angeli, Milano.
15
Florida R.(2002) L’ascesa della nuova classe creativa. Mondatori, Milano.