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comunicazione di massa che più è riuscito ad
esaudire queste richieste, placando la
contraddizione con modi e risvolti che vedremo più
avanti.
La stessa figura del cronista di guerra ha
conosciuto, nel tempo, fasi diverse: è stato all’inizio
esaltato, visto come il baluardo dell’indipendenza e
della libera informazione, per questo odiato e
temuto dai militari e dai politici. E’ stato poi
intrappolato nelle maglie della censura, reso quasi
inutile o utile a scopi ben diversi dai suoi. E adesso?
Oggi ogni emittente televisiva o redazione
giornalistica lesina i suoi inviati, il trend in ascesa è
di mandarne pochi per poco tempo: perché un
inviato sul luogo di battaglia costa, perché è più
comodo usufruire dei servizi dei freelance o delle
agenzie internazionali come l’Eurovisione, che
tendono a offrire sempre di più servizi già pronti. C’è
da tenere in considerazione, poi, anche
l’esplosione di internet e delle tecnologie digitali:
oggi chiunque può scrivere i suoi resoconti da un
luogo di guerra e mandarli in rete, corredati da foto
e filmati amatoriali, sottoponendoli così a migliaia di
lettori, ad esempio tramite un blog. E’ un discorso
antico, affrontato in diverse pubblicazioni, e parla
del pericolo che corre la mediazione giornalistica in
questo momento di grande facilità di produzione e
trasmissione delle notizie. Un discorso non solo
antico ma anche ampio, che investe tutto il
giornalismo in senso lato.
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1.IN PRINCIPIO FU HOWARD RUSSELL
Howard Russell fu il primo corrispondente di
guerra in senso moderno. La sua prima cronaca
risale al 14 novembre del 1854, sulle pagine del
“The Times” durante la guerra di Crimea. E
racconta il disastro della battaglia di Balaclava.
Fino a quel momento, le corrispondenze di
guerra erano state realizzate perlopiù da militari,
che le inviavano ai giornali sotto forma di lettere
o diari, senza alcuna continuità logica o
temporale. Ed esaltavano in modo indefesso se
stessi innanzitutto, e il proprio esercito in
secondo luogo. Come si potrà dedurre, non
erano esattamente cronache imparziali. Russell
fu il primo a documentare una sconfitta
dell’esercito inglese di Sua Maestà, fu il primo a
scoprire le magagne delle strategie militari di
una guerra che si metteva al peggio per gli
anglo-francesi. Cose fino a quel momento
ritenute segrete, da non divulgare
assolutamente, pena essere tacciati di
tradimento. Russell per primo squarciò questo
velo di silenzio (e il suo direttore, Delane, non
poté pubblicare tutti i suoi resoconti, anche se le
fece circolare negli ambienti governativi),e le sue
cronache delle penose condizioni dell’esercito
inglese toccarono e sconvolsero l’opinione
pubblica nell’inverno del 1854-55, provocando in
parte anche la caduta, in febbraio, del governo
di Lord Aberdeen.
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Fu mandato in Crimea in febbraio anche Roger
Fenton, fotografo: la sua spedizione fu
patrocinata dalla Corona. Questo perché
Fenton, con il metodo sicuro e realistico della
fotografia, doveva documentare una realtà
diversa da quella raccontata da Russell, doveva
attutire l’impatto e lo sgomento che certi
resoconti avevano suscitato nei cittadini inglesi.
In quel “doveva” e nei titoli di alcuni suoi ritratti
(“Giornata tranquilla alla batteria di mortai”,
“Cantiniera che cura un ferito”), c’è tutta
l’essenza del reale motivo della spedizione di
Fenton. Una prima e primitiva forma di censura,
di occultamento della verità, consapevole e
studiata a tavolino, per manipolare l’opinione
pubblica. La censura vera e propria non
esisteva ancora quando la guerra di Crimea
cominciò, comparve però prima che la stessa
guerra fosse conclusa. Il precedente
immodificabile fu creato da Sir Codrington,
comandante in capo della spedizione britannica,
che alla fine del febbraio 1856 vietò in modo
molto esplicito la pubblicazione di qualunque
notizia “che potesse essere utile al nemico”.
La prima guerra mondiale ha segnato la
chiusura dell’epoca d’oro degli inviati di guerra,
liberi fino a quel momento (più o meno) di
intrufolarsi per ogni dove sui campi di battaglia e
di riferire per filo e per segno quello che
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vedevano. Al massimo, guadagnandosi lo
sdegno e la riprovazione dei militari.
Gli eserciti si fecero invece, in seguito, molto più
diffidenti e si chiusero a riccio, inquadrando gli
inviati in una rigida disciplina di stampo militare:
erano tenuti lontani da entrambe i fronti, e tutto
quello che scriveranno o fotograferanno verrà
attentamente filtrato. I politici, dal canto loro, non
sopportavano che le crude corrispondenze dei
cronisti avessero infranto la cortina romantica
che da sempre accompagnava i conflitti, con il
suo codazzo di eroi romantici ed alti valori. La
guerra era stata offerta ai lettori in tutta la sua
atroce crudezza, e non c’era retorica che
potesse attenuare l’orrore della morte. Si era
aperto, con le cronache dal fronte, uno spaccato
sulla vita vera e reale, come poi succederà in
Vietnam. E come in Vietnam, alle autorità
politiche e militari questo non riusciva proprio ad
andar giù. La censura in quanto tale, agli albori
della sua esistenza, aveva già il duplice scopo
che la caratterizza tutt’oggi: non solo il controllo
serrato sulle informazioni, ma anche la
manipolazione dell’opinione pubblica. Quando
l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio del 1915,
entrò immediatamente in funzione anche l’Ufficio
di Censura. Erano chiamati “uffici stampa”, e la
sede centrale si trovava presso il Comando
Supremo Militare, a Udine, mentre delegazioni e
censori si trovavano in tutte le città. La censura
cominciò subito a creare difficoltà ad inviati e
redazioni, e spesso i lettori si trovarono a
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sfogliare quotidiani con ampi spazi bianchi nelle
pagine: succedeva quando il divieto di stampa
arrivava troppo tardi, e i buchi stavano anche a
testimoniare e a rappresentare la "violenza" che
era stata perpetrata ai danni dell'informazione.
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1.1 Censure, propaganda e news managment
La guerra mette in discussione il reciproco
influsso che c'è fra le forze politiche e i sistemi di
informazione, quel rapporto che può essere
abitualmente di collaborazione o di
interdipendenza: intensifica la dipendenza
reciproca dei media dal sistema politico , perché
è una minaccia istituzionale e quindi porta a fare
fronte comune contro il nemico, ma nello stesso
tempo intensifica anche il contrasto, perché
insieme alla guerra cresce sia la domanda di
senso dei telespettatori, sia la volontà di governi
e comandi militari nel nascondere verità
inopportune.
Durante lo svolgimento delle due guerre
mondiali cresce la consapevolezza del
cambiamento del rapporto fra media e politica,
ed è l'intero apparato dello Stato a gestire
l'opinione pubblica in guerra, tramite gli appositi
ministeri, per mobilitarla contro il nemico,
convincerla a sostenere sacrifici ed arruolarsi. In
Italia durante il ventennio fascista la censura di
guerra tocca i suoi massimi livelli: ogni cronista
ed ogni direttore riceveva le direttive da seguire
tramite le "veline" del Minculpop (il Ministero
della Cultura Popolare), che indicavano
chiaramente quali notizie dare e quali ignorare.
(Alcuni esempi: "Non pubblicare corrispondenze
sui nostri bombardamenti in Africa Orientale", 7
dicembre 1935, oppure, "ignorare tutto ciò che si
riferisce all'inchiesta per l'omicidio dei fratelli
Rosselli", 15 gennaio 1938, ecc.)
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Anche negli Stati Uniti la situazione della
censura e della manipolazione è particolarmente
interessante: durante la seconda guerra
mondiale gli americani applicano una vera e
propria censura alla fonte, ed impediscono ai
corrispondenti di accedere ai teatri di guerra,
almeno che non sottoscrivano un accordo. Nel
1942 questo "accordo", fino ad allora informale,
diventa il Code of War Practise for the American
Press, un decalogo che raccomanda ai cronisti
di non pubblicare notizie riguardanti navi, aerei,
truppe, fortini, tempo meteorologico o
armamenti. Non sono comunque previste
punizioni specifiche per chi disattende il codice,
si tratta solo di suggerimenti. Nel giugno dello
stesso 1942, nasce l'Office of War Information,
che da quel momento in poi gestirà le immagini
e le notizie della guerra -dentro e fuori dagli Stati
Uniti- come riterrà più opportuno.
Siamo sempre in America, ma negli anni '60,
quando, con John Fitzgerald Kennedy alla Casa
Bianca, nasce la politica spettacolo e soprattutto
il news managment, la tendenza alla gestione
delle notizie, la produzione di pseudo eventi, o
eventi creati ad arte per attirare i media, e che
non possono essere ignorati da questi ultimi
perché si appellano al loro dovere di informare. Il
termine news managment è stato usato per la
prima volta da James Raston, nel 1955, davanti
ad un comitato congressuale, mentre il concetto
di pseudo-evento è stato introdotto dallo storico
Boorstin, che lo differenziò dalla propaganda
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proprio per la sua caratteristica di non mirare
alla sensibilità emotiva ma al concreto dovere di
fare informazione. Infatti, il news managment
non si basa sulla menzogna in quanto tale, ma
sugli eventi creati apposta per rientrare nei criteri
di notiziabilità dei giornalisti, e che sono in grado
di fare notizia indipendentemente dalla loro
falsità o veridicità. C'è inoltre da considerare la
tendenza spiccata dei giornalisti a servirsi molto
di più dei canali ruotinieri (comunicati ufficiali,
conferenze stampa, eventi non spontanei) che di
quelli informali: è qui che il news managment
alligna e prolifera.
Gli esempi non mancano: uno dei più famosi fu
messo in atto da Hagerty, l'addetto stampa del
Presidente degli Stati Uniti Eisenhover: con il
presidente ricoverato all'ospedale di Denver per
trombosi coronarica, Hagerty convoca lo stesso
tutti i membri del suo gabinetto, come se il
presidente potesse ancora svolgere le sue
mansioni. I giornali, vista la rilevanza dell'evento,
non poterono fare a meno di riportare l'accaduto,
facendo così il gioco dell'astuto Hagerty.
L'informazione non viene limitata, ma al
contrario diventa parte di una strategia, che si
articola in due attività antinomiche, in questo
caso "l'informare" e "il segretare". Il news
managment può essere allora esemplificato da
un quadrato semiotico, simile a quello di
Greimas che aveva invece come termini
"l'essere" e "l'apparire".