La decisione di trattare l’argomento dal punto di vista della psicologia
sociale deriva essenzialmente dal fatto che questa disciplina si occupa in
maniera particolare dello studio delle differenze di genere e degli
stereotipi, ed è stata quindi ritenuta idonea a fornire una base teorica
appropriata all’argomento.
In questa prospettiva il primo capitolo, intitolato Lo stereotipo, un’economia
della mente che diventa un’avarizia del cuore, è volto ad offrire una panoramica
generale sullo stereotipo, una particolare strategia cognitiva di cui la
mente umana si avvale normalmente per classificare il mondo; il fenomeno
viene esaminato da diversi punti di vista e secondo approcci teorici
distinti, facendo luce sui suoi meccanismi di funzionamento e sulle
modalità attraverso cui può degenerare in una scorciatoia mentale che
impedisce un corretto ed obiettivo funzionamento del pensiero.
In particolare ci si è soffermati su un tipo specifico di stereotipo, lo
stereotipo di genere, riportandone i più significativi modelli teorici di
riferimento nell’ambito della psicologia sociale, ma soprattutto cercando
di analizzarne i contenuti, poiché di tali contenuti si sostanzia la
rappresentazione del rapporto di genere.
Il secondo capitolo, dal titolo Gender Advertisements: la scoperta di un’opera, è
incentrato appunto sulla ricerca di Goffman; dopo una breve
introduzione alla vita e al pensiero dell’Autore, si passa ad esaminare
questo saggio che inspiegabilmente ha ricevuto scarsa attenzione dalla
letteratura italiana sull’argomento, al punto da non essere mai stato
nemmeno tradotto nella nostra lingua.
Della parte squisitamente teorica dell’opera, che precede l’analisi delle
immagini vera e propria, si sono riportati i tratti salienti ai fini del nostro
discorso, e ci si è soffermati invece sulle diverse categorie relative ai
comportamenti di genere che Goffman individua attraverso l’esame degli
annunci pubblicitari.
Ciascuna di esse viene esaminata nel dettaglio, esplicitando i vari micro
comportamenti e gli atteggiamenti che caratterizzano la loro
rappresentazione in pubblicità, allo scopo di poter concretamente
effettuare una comparazione dei risultati riportati dall’Autore con quelli
ottenibili da un’analisi realizzata sulle stesse basi oggi.
Il terzo capitolo, infine, intitolato Un confronto in chiave attuale, è dedicato
proprio a tale analisi; dopo aver riportato per sommi capi alcune ricerche
condotte successivamente da diversi autori sulla scorta delle teorie di
Goffman, ho introdotto alcune notazioni preliminari sui cambiamenti
intercorsi in questi ultimi trent’anni nella stampa e le loro possibili
ripercussioni sulla struttura delle rappresentazioni pubblicitarie in essa
contenute. Segue poi una spiegazione dei criteri metodologici adottati
per la ricerca, con le motivazioni delle scelte che hanno condotto alla
selezione del materiale da esaminare e le soluzioni impiegate per tradurre
in pratica l’analisi dei casi pubblicitari concreti, rispettando
l’impostazione del lavoro applicata da Goffman.
In ultimo si sono passate in rassegna, separatamente, tutte le categorie
individuate dall’Autore, esplicitando i risultati ottenuti dalla mia analisi e
sottolineando le differenze più significative a riguardo.
Senza voler qui anticipare le conclusioni a cui sono giunta, si può
affermare che sono stati rilevati dei cambiamenti importanti nella
rappresentazione del rapporto di genere fornita dalla pubblicità.
Da una parte, infatti, la donna continua, in una buona percentuale dei
casi esaminati, ad essere raffigurata in una posizione di subordinazione
rispetto all’uomo, e questo è in linea con quanto teorizzato da Goffman
nel 1979.
Dall’altra, però, si nota anche che la rappresentazione dell’uomo sta
cambiando, avvicinandosi, in modo quasi impercettibile ma deciso, a
quella che prima era la raffigurazione tipica della donna.
La mia ricerca ha tratto il materiale da esaminare da due diversi tipi di
periodici, uno con un target prevalentemente maschile ed uno con un
target prevalentemente maschile.
Il risultato più sorprendente è che i cambiamenti relativi alla
rappresentazione dell’uomo, di cui si è detto sopra, sono rinvenibili quasi
esclusivamente nelle pubblicità selezionate dal periodico con il target
maschile.
Capitolo I
Lo stereotipo, un’economia della mente che diventa
un’avarizia del cuore
1. Lo Stereotipo: definizione ed inquadramento teorico
Walter Lippmann, giornalista e autore, nel 1922, di una celebre opera sui
processi di formazione dell’opinione pubblica, è il primo ad introdurre
nelle scienze sociali il concetto di stereotipo.
Con una straordinaria acutezza egli rileva che gli individui, nella loro
percezione del mondo, sono influenzati da immagini mentali, che essi
creano o che sono loro date.
La conoscenza diretta è scavalcata in favore di una serie di schemi
precostituiti, che ha lo scopo di facilitare e di rendere gestibile una realtà
che è, oggettivamente, troppo complessa e variegata.
L’Autore si rende ben conto dell’effettiva difficoltà in cui si trovano gli
individui, al tempo in cui egli scrive: la società occidentale è uscita da
poco da una guerra di proporzioni fino allora mai viste, e soprattutto mai
raccontate e descritte con tanta immediatezza e dovizia di particolari.
Lippmann, sagacemente, coglie le trasformazioni radicali che la nuova
informazione sta apportando nella vita di ognuno: ormai non si vive più
chiusi nel proprio orizzonte ristretto, confinati nell’ambito immediato e
limitato della propria esistenza, ignorando quello che avviene anche in
posti relativamente vicini. L’informazione consente di avere accesso a
fatti distanti, a culture diverse, ad esperienze stupefacenti.
E' proprio tanta ricchezza di dati a stimolare le sue riflessioni su ciò che
egli appropriatamente definisce stereotipi: se il mondo è tanto vasto, se
le cose, le persone, le situazioni con cui venire in contatto sono così
tante, una conoscenza diretta di tutto diventa impensabile.
E’ qui che entrano in gioco gli stereotipi, queste immagini che ognuno
possiede nelle sua testa e che arrivano ad imprimere una sorta di stampo
alle percezioni, prima che arrivino all’intelletto: sono dei filtri che fanno
vedere le cose in un modo piuttosto che in un altro, proprio perché
colorati di determinate caratteristiche. Tutto ciò che vediamo, tutto ciò
di cui facciamo esperienza non viene assorbito e vissuto così come è
realmente, ma piuttosto come noi crediamo che sia secondo gli stereotipi
che ci guidano:
sentiamo parlare del mondo prima di vederlo. Immaginiamo la maggior parte delle cose
prima di averne esperienza. E questi preconcetti […] incidono profondamente
sull’intero processo della percezione.
1
Di fronte ad una situazione inaspettata o ad una persona sconosciuta, noi
abbiamo l’impressione di riconoscervi un particolare a noi familiare, ed
immediatamente situazione o persona si trovano ad ereditare, nella
nostra percezione e loro malgrado, tutto ciò che noi abitualmente
associamo a quel particolare. C’è ben altro: gli stereotipi influenzano a tal
punto la nostra capacità di giudizio, proprio perché precedono l’uso della
ragione, da impedirci di rilevare, anche successivamente, informazioni
contrarie o diverse rispetto a ciò che lo stereotipo relativo ci suggerisce.
Essi hanno dunque un effetto distorcente nei confronti della realtà, non
solo nel momento in cui veniamo a contatto con eventi o persone, ma
anche quando con questi ci ritroviamo ripetutamente ad interagire.
Gli stereotipi finiscono col farci negare l’evidenza dei fatti, poiché
consentono la ricerca e l’acquisizione delle sole informazioni che
confermano le nostre aspettative, a scapito anche di conclusioni
oggettivamente differenti.
Da dove nascono gli stereotipi? Lippmann, a riguardo, è molto preciso:
non sono frutto di un’arbitraria scelta del singolo né di mera causalità.
1
Lippmann W., L’Opinione Pubblica, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 86-87
Derivano da una combinazione di natura umana e di circostanze
ambientali; traggono origine dal patrimonio culturale condiviso e con
esso e attraverso esso vengono diffusi e trasmessi. Ogni gruppo possiede
i suoi. Secondo l’Autore, queste particolari strategie della mente
rivestono due funzioni: la prima è quella di economia dello sforzo, in quanto
consentono di risparmiare delle energie nell’impegnativo e complesso
compito di conoscere il mondo; se esistono queste immagini mentali che
automaticamente danno l’impressione di contenere già tutte le
informazioni riguardo all’oggetto della conoscenza, non vi è necessità di
impegnarsi a capirlo nella sua totalità. E’ sufficiente lasciarsi guidare dagli
stereotipi per credere di aver inquadrato qualcosa, e il dispendio di
risorse mentali risulta grandemente ridotto:
nella grande, fiorente e ronzante confusione del mondo esterno trascegliamo quello che
la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo
trascelto nelle forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi.
2
L’altra funzione è di difesa dell’identità personale e della posizione sociale
acquisita: essi esprimono la visione del mondo del gruppo di
appartenenza, rappresentano i propri valori, le proprie certezze, un
ordine che si è costruito e nel quale ci si sente a proprio agio.
La propria scala di valori diviene la scala di valori, e qualunque posizione
che vada in senso contrario viene percepita come un pericoloso tentativo
di minare le fondamenta della roccaforte di sicurezze faticosamente
eretta negli anni. Se un ordine ci deve essere, quale migliore del proprio?
Attraverso gli stereotipi l’individuo proietta se stesso nel mondo,
assicurandosi il rispetto di sé e il mantenimento della propria posizione
sociale:
2
Lippmann W., Ibidem, p. 79
i sistemi di stereotipi formano un’immagine ordinata e più o meno coerente del mondo,
a cui le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre capacità, i nostri agi e le nostre speranze
si sono adattati. Forse non sono un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine
di un mondo possibile a cui siamo adattati. In questo mondo le persone e le cose hanno
un loro posto preciso e si comportano secondo certe previsioni. In esso ci sentiamo a
nostro agio; vi siamo inseriti; ne siamo membri; sappiamo come rigirarci. Vi troviamo il
fascino del sicuro; le sue scanalature e le sue forme stanno là dove siamo abituati a
trovarle. E anche se abbiamo dovuto abbandonare molte cose che ci avrebbero tentato
prima che ci accomodassimo alle pieghe di questo stampo, una volta che ci stiamo ben
dentro, troviamo che esso calza comodamente come una vecchia scarpa. Nessuna
meraviglia, dunque, che ogni attacco agli stereotipi prenda l’aspetto di un attacco alle
fondamenta dell’universo: infatti è un attacco alle fondamenta del nostro universo, e
quando sono in gioco cose grosse non siamo affatto disposti ad ammettere che ci sia
una distinzione tra il nostro universo e l’universo. […] Se la nostra scala di valori non è
la sola possibile, allora c’è anarchia.
3
Una volta comprese queste funzioni, è facile individuare una delle
caratteristiche più importanti degli stereotipi, da cui peraltro Lippmann
ha tratto anche il loro nome: la rigidità.
Il termine, infatti, deriva dal greco sterèos, rigido e tùpos, impronta, e fu
coniato verso la fine del Settecento nell’ambito tipografico per indicare la
riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse.
L’Autore effettua una traslazione lessicale del termine, per definire
appropriatamente questi schemi mentali rigidi che influenzano le
percezioni, apponendo su di esse uno stampo riduttivo e vincolante che
finisce con l’impedire un’effettiva ed aperta comprensione del mondo.
Egli acutamente intuisce la pericolosità che queste approssimative
semplificazioni della realtà rivestono, per lo svolgimento di una sana e
proficua convivenza sociale degli individui, e sottolinea come siano
necessari uno spirito franco e la disponibilità a mettersi in gioco per
contrastarle e guadagnare una sospirata e vera libertà di giudizio.
3
Lippmann W., Ibidem, pp. 91-92
Le brillanti idee di Lippmann hanno aperto la strada, nel corso degli
anni, ad una vastissima serie di studi e di ricerche sugli stereotipi.
Si deve necessariamente premettere che dello stereotipo esistono almeno
due accezioni; la prima, più generale, si riferisce ai processi mentali e alle
loro modalità di funzionamento, e quindi può essere applicata anche ad
oggetti non sociali ed avere una valenza positiva o negativa.
La seconda, fermo restando l’assunto che la mente umana si avvale di
schemi per semplificare ed ordinare la realtà in categorie precise e
tendenzialmente stabili, riguarda in maniera più diretta le immagini
relative ai gruppi sociali, ed in modo particolare quelle negative.
Privilegiando un’accezione piuttosto che un’altra, i diversi autori che si
sono confrontati con il problema hanno elaborato una molteplicità di
definizioni di stereotipo, secondo il punto di vista adottato; facendo
riferimento all’accezione più specifica sopra citata, possiamo indicare lo
stereotipo sociale come:
un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo
condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale.
4
Se poi aggiungiamo che il pregiudizio, inteso come l’agire o il pensare in
modo sfavorevole nei confronti di un determinato gruppo, poggia
sull’assunto che quel gruppo realmente ha in sé quegli aspetti negativi,
allora lo stereotipo può essere anche identificato come il nucleo cognitivo
del pregiudizio.
Per comprendere appieno tale fenomeno ed il suo funzionamento si
deve tenere conto di alcune variabili che distinguono gli stereotipi relativi
ai diversi gruppi e le corrispondenti teorie interpretative.
4
Mazzara B.M., Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 19
Tali variabili sono tre: il grado di condivisione sociale degli stereotipi,
cioè la misura in cui una determinata immagine di un gruppo sociale
viene condivisa nell’ambito di un altro gruppo sociale o di una certa
cultura. In questo caso le spiegazioni si differenziano per l’importanza
attribuita a questo elemento: da una parte, infatti, si considera il grado di
aderenza allo stereotipo come una caratteristica individuale, e dunque
mutevole; dall’altra si sostiene invece che perché si generi lo stereotipo è
necessario un determinato livello di condivisione sociale.
La seconda variabile è il grado di generalizzazione, cioè il credere, più o
meno fortemente, che le attribuzioni negative nei confronti di un gruppo
(definito gruppo bersaglio) siano in esso omogeneamente distribuite; le
teorie, in tal senso, differiscono nella misura in cui alcune ritengono che
lo stereotipo possa esistere solo se il gruppo bersaglio viene ritenuto
omogeneo.
Infine, la terza variabile è inerente alla maggiore o minore rigidità dello
stereotipo; i diversi approcci, quindi, possono considerare lo stereotipo
immutabile o, al contrario, trasformabile. Per cercare di spiegare le
modalità di funzionamento dello stereotipo e quindi individuare, se
possibile, delle strategie per modificarlo, i diversi autori hanno elaborato
teorie e ricerche che hanno focalizzato l’attenzione su vari aspetti.
Ciò che si può evidenziare da un esame dei vari studi è che,
essenzialmente, gli approcci si dividono a seconda che lo stereotipo
venga visto come un fenomeno normale oppure patologico e a seconda
che sia considerato una caratteristica individuale oppure sociale;
analizzando insieme questi due criteri si ottiene una panoramica
sufficientemente esaustiva delle diverse posizioni.
E’ opportuno premettere che tutte le spiegazioni e le teorie che verranno
esaminate devono essere considerate non come alternative e
mutualmente esclusive, ma piuttosto come complementari, poiché quello
degli stereotipi è un fenomeno talmente complesso da chiamare in causa
tutta una serie di elementi interagenti.
A sostegno della normalità dello stereotipo vengono citati fattori disparati,
quali, ad esempio, le basi biologiche del comportamento umano e il
processo di selezione naturale: l’ostilità nei confronti del diverso sarebbe
una risposta istintiva, tipica non solo della specie umana, ma di tutti gli
esseri viventi, alla lotta per la sopravvivenza, che spingerebbe gli
individui ad associarsi in gruppi con elementi simili, e che
automaticamente, grazie a tale senso di appartenenza, genererebbe una
disposizione, positiva o negativa, nei confronti degli altri gruppi.
E’ opportuno aggiungere che, sempre in questo filone di studi, c’è anche
chi, viceversa, sostiene che nella lotta per la sopravvivenza non si sia
sviluppato solo l’istinto alla competizione, ma anche quello alla
cooperazione e di conseguenza il successo evolutivo dipenderebbe da un
utilizzo complementare di entrambi.
Altri indirizzi di ricerca, sempre nell’ambito del riferimento alle basi
naturali dello stereotipo, hanno focalizzato l’attenzione sui meccanismi di
funzionamento della mente umana e sulle modalità con cui vengono
raccolte e classificate le informazioni. Si tratta della cosiddetta
spiegazione cognitiva, che ha le sue origini nell’opera di Gordon Allport,
La natura del pregiudizio (1954), e che è stata portata avanti ed
approfondita nel corso degli anni.
L’assunto di base è che la semplificazione dei dati della realtà sia una
caratteristica necessaria per il sistema cognitivo; senza infatti la
categorizzazione, definita anche differenziazione categoriale, cioè il
raggruppamento delle informazioni elementari in sistemi omogenei,
l’enorme complessità di aspetti del mondo risulterebbe difficilmente
gestibile. Tale processo viene applicato non solo al mondo fisico, ma
anche a quello sociale: si è portati a vedere gli altri in base ai possibili
criteri con cui sono catalogabili, e si estendono le caratteristiche
attribuite al gruppo anche ai singoli individui. Battacchi e Codispoti, a
questo proposito, sostengono che:
[…] se la categorizzazione è un meccanismo cognitivo responsabile delle conoscenze
prevenute, è però anche un meccanismo attivo in generale nell’attività cognitiva. […]
Occorre un livello abbastanza elevato di competenza cognitiva per poter sviluppare un
atteggiamento sociale prevenuto. Non tanto paradossalmente l’avere dei pregiudizi è
segno di una certa maturità cognitiva.
5
Se la categorizzazione, quindi, è un processo del tutto inevitabile e naturale,
ci sono situazioni in cui, nel campo sociale, diviene tendenziosa, e porta
alla creazione dello stereotipo:
nel caso di stereotipi e pregiudizi invece si verifica quasi sempre una estensione dai
requisiti di base, che definiscono la categoria e che sono relativi ad appartenenze sociali,
a requisiti del tutto accessori che invece sono di tipo psicologico, e riguardano i tratti di
personalità, le disposizioni, le qualità morali. Questi ultimi vengono associati ai primi in
maniera molto stretta, finendo per diventare in qualche modo anch’essi parte della
definizione, e stabilendo dunque in modo arbitrario una corrispondenza fra la
definizione oggettiva (in termini di appartenenza) e quella soggettiva (in termini di
disposizioni).
6
5
Battacchi M. e Codispoti O., I pregiudizi sociali, in Caprara G.V. (a cura di), Personalità e
Rappresentazione sociale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988, pp. 177-178
6
Mazzara B.M., Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 68
Si tratta del fenomeno indicato come inferenza, in base al quale si
associano strettamente tratti immediatamente rilevabili con elementi più
nascosti e disposizioni comportamentali; anche questa strategia cognitiva
risulta essere normale, in quanto gli individui, nelle interazioni sociali,
tendono naturalmente a prevedere alcune caratteristiche personali e
comportamentali a partire dall’osservazione di tratti soggettivi; degenera
però nello stereotipo nel caso in cui vengano collegate caratteristiche
oggettivamente date di appartenenza sociale con caratteristiche personali.
Un altro processo ordinario del funzionamento mentale che viene
enfatizzato fino al parossismo nello stereotipo è quello definito come
accentuazione percettiva; in pratica, gli oggetti di una stessa categoria
sarebbero percepiti come più simili tra loro di quanto lo siano
veramente, così come quelli appartenenti a categorie diverse verrebbero
visti come più dissimili rispetto alla realtà.
L’omogeneità, in effetti, è un requisito fondamentale per la creazione
delle categorie e per loro utilizzazione, perché permette di trattare il
gruppo come un’unità ed evitare di dover elaborare separatamente le
informazioni relative ad ogni singolo elemento; lo stereotipo nasce
appunto quando si tende a forzare tale omogeneità, per preservare la
categoria e soprattutto quando la forzatura è inerente a tratti psicologici.
Il gruppo viene allora visto come una distribuzione uniforme di certe
caratteristiche, a cui ne vengono associate automaticamente altre.
Fin qui abbiamo esaminato le teorie che privilegiano una spiegazione
individuale dello stereotipo; altre, invece, sostengono che tale fenomeno
derivi da particolari processi psicologici che entrano in gioco nel
rapporto tra l’individuo ed il suo contesto sociale e che creerebbero un
conflitto automatico tra il gruppo di appartenenza, indicato come ingroup,
e gli altri gruppi, i cosiddetti outgroups.
E’ Tajfel (1981) ad aver focalizzato l’attenzione sull’importanza del
rapporto fra un individuo ed il proprio gruppo di appartenenza; egli ha
elaborato la teoria dell’identità sociale, definita come:
quella parte dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla sua consapevolezza di
appartenere ad un gruppo sociale (o a più gruppi) unita al valore e al significato emotivo
attribuito a tale appartenenza.
7
In quest’ottica, lo stereotipo diviene un elemento importante ai fini
dell’identità personale: l’individuo, infatti, per difendere tale identità,
strettamente connessa con l’appartenenza e definita attraverso un
processo di costante confronto sociale con il proprio gruppo e, insieme,
con gli altri gruppi, tenderebbe ad applicare, all’interno dell’insieme di
appartenenza, quei meccanismi atti a conservare ed accrescere la stima di
sé.
Questo tipo di strategia viene definita favoritismo di gruppo o ingroup bias, e
consiste, essenzialmente, nel valutare in maniera maggiormente positiva
ciò che riguarda l’ingroup, ed in maniera negativa ciò che invece riguarda
gli outgroups. Molti gli esperimenti realizzati in merito, e tutti
tenderebbero a dimostrare che ci troviamo di fronte a meccanismi che
operano in maniera automatica, al di sotto della soglia della
consapevolezza e con una forza eccezionale, ma che comunque
dipendono in maniera preponderante da fattori sociali e culturali.
Un ultimo tipo di teoria che fa riferimento a processi in qualche modo
ordinari è quello che indica lo stereotipo come la risultante di un processo
collettivo di assegnazione di senso alla realtà.
7
Tajfel H. (1981), Gruppi umani e categorie sociali, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1995, p. 381