Introduzione
La proclamazione dell’avvenuta “fine della Storia” in corrispondenza con l’ampia
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diffusione delle democrazie liberali nel mondo, tesi formulata da Francis Fukuyama per
la prima volta nell’articolo The End of History? pubblicato nell’estate 1989 sulla rivista
“The National Interest” e ulteriormente sviluppata nel testo del 1992 La fine della Storia
e l’ultimo uomo, costituisce il fondamentale riferimento delle riflessioni di tipo politico-
economico e sociale articolate dall’autore.
Per comprendere cosa significhi per Fukuyama proclamare la “fine della Storia”,
affermazione che fin dal primo apparire è stata fonte di critiche e fraintendimenti, si può
prendere avvio, su indicazione dello stesso autore, dal seguente interrogativo:
“Ha ancora senso per noi, alla fine del XX secolo, parlare di una storia coerente e
direzionale dell’umanità che finirà col portare la grande maggioranza della medesima
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alla democrazia liberale?”
La risposta è per Fukuyama sicuramente affermativa: il processo storico ha compiuto in
maniera definitiva il proprio corso, giungendo alla fine. Non è possibile immaginare
ulteriori progressi rispetto all’ordinamento politico democratico-liberale, che, raggiunto
dalla maggior parte dei Paesi sviluppati, sembra destinato a coinvolgere
progressivamente tutti i Paesi del mondo.
A partire da queste affermazioni, che rappresentano in estrema sintesi la sua tesi
principale, Fukuyama articola il proprio pensiero anche in riferimento a temi che
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Francis Fukuyama è nato a Chicago nel 1952. Laureato in Scienze politiche ad Harvard, è decano di
Facoltà alla Johns Hopkins University, dove insegna economia politica internazionale; dal 1996 al 2000 è
stato inoltre docente di scienze politiche presso la George Mason University. È stato membro del Political
Science Department della RAND Corporation (istituto di ricerca in Santa Monica, California, fondato nel
1948, che si occupa principalmente di sicurezza nazionale e di welfare) negli anni 1979/80, 1983/89 e
1995/96. Ha ricoperto incarichi governativi nel campo delle politiche di pianificazione sociale. Dal 2002
è inoltre membro del Council of Bioethics, organo della presidenza degli Stati Uniti. Attualmente vive a
McLean, Virginia.
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F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, BUR, Milano 2003, p. 11.
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coinvolgono la sfera sociale e morale fino ad interrogarsi sui possibili risvolti
dell’utilizzo delle biotecnologie, in particolare quando sono applicate all’uomo.
La valutazione della tesi della fine della Storia è compiuta nel presente testo prendendo
in considerazione anche questi temi, così come essi sono sviluppati principalmente nei
testi La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine
sociale e L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, ma
anche all’interno di articoli e interventi pubblici, in particolare nel corso degli anni tra il
1989 e il 2002.
Al termine del primo e del secondo capitolo sono presentati due brevi tentativi di
confronto critico per evidenziare i punti problematici emersi da quanto esposto sul
pensiero dell’autore; un quadro complessivo di tali difficoltà verrà fornito invece nelle
conclusioni del testo, tenendo in considerazione l’intero percorso delle riflessioni
sviluppate da Fukuyama.
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Capitolo 1
La fine della Storia
1. La democrazia liberale alla fine della Storia
Oggi siamo testimoni della fine della Storia, “il punto finale dell’evoluzione ideologica
dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma
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definitiva di governo umano”.
Il futuro – spiega ancora Fukuyama – non ci permetterà di assistere a mutamenti
sostanziali, perché arrivati allo stadio ultimo del processo storico si potranno verificare
solo avvenimenti di “cronaca minore” non influenti sull’esito, ormai definitivo, della
storia; essa ha esaurito il proprio percorso in maniera ottimale, essendo giunta a mostrare
i migliori principi e istituzioni sia sul piano politico sia economico.
1.1 L’avanzata della democrazia liberale
Nell’espressione “democrazia liberale” sono riuniti due concetti dei quali, pur
riconoscendo lo stretto legame, deve essere sottolineata e analizzata la separazione.
A livello politico il liberalismo si esplicita, nella spiegazione di Fukuyama, nel
riconoscimento giuridico di alcuni diritti individuali, tra i quali sono ritenuti
fondamentali i diritti civili, politici e religiosi. In campo economico il liberalismo si
manifesta nella forma di attività economica basata sul libero scambio e la proprietà
privata, definibile come “economia di mercato”.
Il concetto di liberalismo è associato all’idea democratica in quanto tra i diritti liberali
spicca la possibilità di partecipazione politica, garantita in linea di principio da una
forma di governo democratica. È comunque possibile che si verifichi una separazione tra
liberalismo e democrazia, ossia che un paese sia liberale anche senza essere governato in
modo democratico, o che si verifichi il caso contrario, come è accaduto ad esempio nella
1
F. Fukuyama, The End of History?, in “The National Interest”, n. 16 (Summer 1989), p. 4.
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Repubblica islamica dell’Iran, dove al maggior livello di democrazia non è seguita
2
un’apertura liberale nella difesa delle libertà individuali e delle minoranze.
Fukuyama precisa inoltre di volersi richiamare, nell’indicare quali paesi siano
3
democratici, ad una definizione puramente formale di democrazia. Egli sostiene infatti
che solo una democrazia formale, anche se non sempre esente da forme di ingiustizia,
rappresenti un efficace baluardo contro possibili abusi di potere e costituisca inoltre un
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valido accesso verso la democrazia sostanziale.
L’analisi di Fukuyama continua osservando come l’affermazione politica della
democrazia liberale, che avrebbe condotto verso la fine della Storia, non sia un
fenomeno avvenuto improvvisamente o in modo casuale: dall’osservazione dell’intero
percorso storico emerge infatti, secondo l’autore, una tendenza costante, anche se spesso
soggetta a battute d’arresto e deviazioni, in sua direzione.
2
Il possibile scollamento tra principi del liberalismo “costituzionale” e procedure democratiche, secondo
quanto sostenuto da Fareed Zakaria nelle pagine introduttive di Democrazia senza libertà, Rizzoli, Milano
2003, è dato dal fatto che essi non hanno legami intrinseci. Storicamente è accaduto che proprio attraverso
le elezioni il potere sia stato assunto da regimi dittatoriali, che l’avvento di democrazie abbia peggiorato la
situazione interna di alcuni Paesi rispetto ai precedenti regimi dittatoriali (Zakaria cita la Jugoslavia di
Tito), ed inoltre non è sempre garantito che la democrazia sia la forma di governo cui un popolo aspiri: è
improbabile che in alcuni paesi arabi le elezioni porterebbero alla formazione di regimi democratici su
modello occidentale. Il fatto che la libertà non proceda sempre parallelamente alla democrazia è
confermato, secondo Zakaria, dall’esempio costituito da Hong Kong, che, non democratica, ha fornito
prova di un forte “costituzionalismo liberale”.
3
La distinzione tra democrazia formale e sostanziale è spiegata con chiarezza da Norberto Bobbio nel
testo Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Einaudi, Torino 1985. Nel linguaggio
politico moderno la definizione di una democrazia come formale o sostanziale fa riferimento alla forma
del governo e al contenuto di essa. Quest’ultimo caso, la democrazia sostanziale, è contraddistinto dal
perseguimento, compiuto da parte di un determinato gruppo politico, del principio dell’uguaglianza
sociale ed economica.
4
F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, p. 64: “Un paese è democratico se permette ai propri
cittadini di scegliersi il governo che vogliono attraverso elezioni periodiche, pluripartitiche ed a scrutinio
segreto, in base al suffragio eguale ed universale. […] Appena ci allontaniamo dalla definizione formale,
apriamo la porta ad infiniti abusi del principio democratico. Nel nostro secolo i maggiori nemici della
democrazia hanno attaccato la democrazia “formale” in nome della democrazia “sostanziale”. È stata
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Essa rappresenta dunque un esito positivo che non giunge inaspettato, pur collocandosi
verso la parte finale di un periodo storico che ha conosciuto e prodotto un profondo
pessimismo.
Il XX secolo è stato infatti caratterizzato da eventi traumatici per l’umanità, tali da
spezzare le ottimistiche speranze di progresso del periodo precedente, durante il quale la
scienza e la politica moderne sembravano destinate ad un’evoluzione che avrebbe
condotto ad un indefinito miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, permettendo
l’eliminazione di malattie e povertà. Ancora nel 1921 James Bryce, politico liberale
inglese, scriveva: “La democrazia non perirà mai, prima che non sia morta nel mondo la
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speranza”, affermazione purtroppo messa a dura prova negli anni immediatamente
successivi dalla realtà dei cambiamenti avvenuti in Europa in ambito politico.
Nel corso del Novecento non solo i regimi democratici sono stati soffocati da potenti
stati totalitari, ma la scienza ha permesso applicazioni tecnologiche distruttive per
l’umanità.
Questi fatti hanno avuto ripercussioni sulla visione che gli uomini hanno della storia:
mentre nel XIX secolo si poteva ancora parlare di una Provvidenza o comunque di
un’evoluzione progressiva ritmata da leggi storiche, dalla Prima guerra mondiale in poi
non è più sembrato possibile far rientrare avvenimenti come lo sterminio di interi popoli
o l’utilizzo di armi atomiche all’interno di un qualsiasi sviluppo progressivo della storia.
A giudizio di Fukuyama fa parte di questa crisi l’accusa di etnocentrismo che gli europei
hanno rivolto a se stessi mettendo in dubbio ideali e valori ritenuti universalmente validi,
per cui non è stata più accettata come un dato di fatto, ad esempio, la coincidenza tra
progresso e democrazia.
Una simile visione critica avrebbe inoltre portato a credere con sicurezza alla stabilità e
inespugnabilità della presenza del blocco comunista contrapposto al mondo Occidentale,
facendo così giungere in modo quasi inaspettato la caduta del comunismo alla fine degli
anni '80.
questa la giustificazione usata da Lenin e dal partito bolscevico per sciogliere l’Assemblea costituente
russa e proclamare una dittatura di partito”.
5
J. Bryce, Democrazie moderne, citato in H. Fenske, Il pensiero politico contemporaneo, Il Mulino,
Bologna 2001, p. 233.
8
Questo grande cambiamento storico, secondo Fukuyama, deve essere quindi considerato,
insieme con le crisi, altrettanto significative, degli autoritarismi di Destra e di Sinistra in
molte parti del mondo, un primo importante passo per smantellare il pessimismo del XX
secolo.
Per questo, e supportato inoltre dagli eventi del periodo intercorso tra la pubblicazione
dell’articolo The End of History? (estate 1989) e del testo La fine della Storia e l’ultimo
uomo (1992), Fukuyama ritiene di poter affermare che “ormai all’inizio degli anni ’90, il
mondo nel suo complesso non presenta per nulla mali nuovi, ma sotto certi aspetti ci
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appare addirittura migliorato”.
In questa stessa direzione è interpretata “la debolezza degli stati forti”, espressione con
cui Fukuyama introduce il tema della crisi dell’autoritarismo che ha avuto inizio a
partire dagli anni '70 nell’Europa del Sud. Il cammino verso l’instaurazione di regimi
democratici è proseguito in America Latina negli anni '80, così come in Asia Orientale e
in Sud Africa.
La ragione principale di questo progressivo cambiamento è indicata da Fukuyama in una
crisi ideologica, la mancanza di legittimità.
Ogni forma di governo per esercitare e continuare a detenere il potere necessita di essere
sostenuto dalla percezione, da parte dell’opinione pubblica o perlomeno del gruppo più
stretto di collaboratori di chi effettivamente governa (i regimi dittatoriali non richiedono
il parere favorevole della maggioranza), della legittimità della propria autorità.
Nel caso dei regimi autoritari di Destra ad incrinare il potere sono stati inizialmente
problemi non risolti o fallimenti in qualche settore della politica, ma la vera motivazione
deve essere individuata nella scarsa e poco coesa forza con cui il regime ha cercato di
imporre il principio su cui fondare la propria legittimità: per questo hanno preso il
sopravvento le crisi interne del Paese.
Fukuyama prende in considerazione le situazioni venutesi a creare in Portogallo,
Spagna, Grecia, Argentina, Perù, Uruguay, Sud Africa, tra gli anni '70 e '80, le quali, pur
tutte diverse per caratteristiche e sviluppi storici, sembrano presentare la caratteristica
comune di aver effettuato un cambiamento da un regime autoritario ad un governo eletto
democraticamente grazie alla “convinzione sempre più forte che nel mondo moderno la
6
F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, p. 34.
9
7
sola fonte legittima di autorità [sia] la democrazia”. Nel caso dei regimi autoritari di
Destra indicati, la legittimità ha tratto alimento dalla forza con cui il potere si è imposto
e con cui ha cercato di giustificare se stesso.
Secondo questa visione i problemi di legittimità sono risolti dall’imposizione
dell’ideologia: la forza con cui il regime assume il potere e con cui l’ideologia che lo
giustifica è affermata, si alimentano l’una dell’altra, rinchiuse in una sorta di circolo
vizioso.
Il problema è più complicato nel caso delle potenze totalitarie di sinistra, le quali hanno
saputo imporsi più radicalmente e più a lungo. Come il termine stesso suggerisce, con
“totalitaria” si indica un’ideologia che pretende di definire in ogni suo aspetto la vita dei
membri della società civile, imponendosi del tutto sui cittadini, anche nell’ambito delle
decisioni private.
Nonostante la lunga durata dei regimi comunisti e la loro diffusione in vari stati del
mondo, l’ideologia di sinistra, spiega Fukuyama, non è riuscita ad introdursi totalmente
nella vita delle persone, alle quali è rimasta, a dispetto di ogni tentativo contrario, la
capacità di pensare autonomamente e di comprendere gli errori del sistema. Questo ha
comportato una crisi di legittimità culminata nel riscontro della grande debolezza
economica: sviluppatasi in modi diversi, questa crisi si è propagata in Unione Sovietica,
in Cina, nell’Europa Orientale.
Il periodo post-comunista è stato caratterizzato, nei diversi Paesi coinvolti, da numerosi
problemi di natura politica, economica e sociale di difficile e non immediata soluzione,
ma oltre agli strascichi negativi, “le crisi gemelle dell’autoritarismo e della
pianificazione centralizzata socialista hanno lasciato sul ring, quale ideologia di validità
potenzialmente universale, un solo contendente: la democrazia liberale, la dottrina della
libertà individuale e della sovranità popolare. A duecento anni da quando per la prima
7
Ivi, p. 43. A questo proposito si può brevemente richiamare quanto spiegato da N. Bobbio in Stato,
governo, società. Frammenti di un dizionario politico, (p. 77), riguardo al problema della giustificazione
del potere. Esso si pone nella domanda: “Ammesso che il potere politico sia il potere che dispone dell’uso
esclusivo della forza in un determinato gruppo sociale, basta la forza a farlo accettare da coloro su cui si
esercita […] ? A questo interrogativo si può rispondere in due modi, in base al fatto che esso sia
interpretato come “un problema di mera effettività (nel senso che un potere fondato soltanto sulla forza
non può durare)”, o “un problema di legittimità (nel senso che un potere fondato solo sulla forza può di
fatto essere effettivo ma non può essere considerato legittimo)”.
10
volta animarono le rivoluzioni americana e francese, i principi gemelli della libertà e
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dell’eguaglianza si sono dimostrati non sempre durevoli ma sempre risorgenti”.
1.2 La democrazia liberale come soluzione definitiva dei problemi storici
La vincitrice indiscussa tra le forme di governo e di organizzazione economica e sociale
che si sono presentate nel corso della storia è dunque la democrazia liberale, “l’idea
liberale”, infatti, risulta per Fukuyama “vittoriosa”.
Come inoltre l’autore sostiene in apertura di The End of History?, “ci sono forti ragioni
9
per credere che sarà l’ideale a governare il mondo materiale sul lungo percorso”.
Questa affermazione può essere utilizzata anche come risposta a quelle critiche che
sostengono l’impossibilità di proclamare la fine della Storia sulla base della
constatazione che storicamente si sono presentate, e non è escluso che non si riaffermino
quali alternative alla democrazia liberale, varie forme di nazionalismi, fascismi, o
fondamentalismi di matrice islamica.
L’inconsistenza di queste osservazioni, è la risposta di Fukuyama, risiede nel fatto che
nessuna delle alternative indicate sia ritenuta dai critici stessi migliore o superiore
rispetto ad ogni altro tipo di organizzazione politica, sociale ed economica.
10
Gertrude Himmelfarb, professore presso la City University di New York, una tra le
prime voci critiche di Fukuyama, la cui replica compare in forma di articolo su “The
National Interest”, pur accettando la dichiarazione di Fukuyama secondo cui “qualcosa
di davvero fondamentale è accaduto nella storia del mondo”, (in riferimento alla fine
della Guerra Fredda), si oppone decisamente al tentativo di affermare la vittoria
universale e definitiva della democrazia liberale.
Anche Himmelfarb critica in particolare una delle basi su cui si fonda la tesi della fine
della Storia, la considerazione secondo cui non esistono “concorrenti ideologici” alla
8
F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, p. 63.
9
F. Fukuyama, The End of History?, p. 4.
10
Gertrude Himmelfarb è professore emerito di storia presso la Graduate School della City University di
New York. Tra le numerose critiche rivolte a Fukuyama relativamente all’affermazione della fine della
Storia, ci si è soffermati su quelle avanzate da G. Himmelfarb in quanto, oltre ad essere particolarmente
riassuntive dei rilievi generalmente presentati nei confronti di Fukuyama, offrono la possibilità di
esplicitare ancor meglio la posizione di quest’ultimo.
11
democrazia liberale in quanto, diversamente da quest’ultima, religioni, nazionalismi,
razze, etnie, sarebbero privi di un “significato universale”.
Certamente, secondo l’argomentazione di Himmelfarb, la figura di Hitler per la storia
non ebbe un “significato universale” nel senso che Fukuyama attribuisce all’espressione,
eppure l’atrocità dell’Olocausto è individuabile proprio nella sua unicità e la sua
importanza risiede anche nell’avvertirci della possibilità che simili eventi si ripetano.
Himmelfarb sembra inoltre testimoniare il pessimismo descritto da Fukuyama, quando
afferma: “Sono stata personalmente troppo traumatizzata dal comunismo e dal nazismo
per avere qualsiasi fiducia nelle eterne realtà della storia – tranne che per la realtà della
contingenza e del cambiamento, dell’imponderabile e di ciò che è imprevisto (e, molto
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spesso, di ciò che è indesiderato e indesiderabile)”.
Un’ulteriore critica è rivolta all’affermazione secondo cui la democrazia liberale sarebbe
riuscita a risolvere la “questione di classe”, dal momento che secondo Fukuyama i
problemi sociali ancora esistenti sono soltanto l’eredità storica di condizioni
premoderne, destinati ad appianarsi, incapaci di influire sul sistema politico ed
economico affermatosi ormai in via definitiva.
Nella realtà dei fatti, argomenta Himmelfarb, questi problemi – senza che si scorga per
essi una soluzione – continuano a persistere e sono inoltre potenzialmente in grado di
provocare reazioni sociali imprevedibili. Una questione sociale come ad esempio la
povertà dei neri, pur non rispecchiando vecchi problemi di classe, ma essendo di un
“nuovo” tipo, “potrebbe essere tuttavia sovversiva nei confronti della democrazia
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liberale, forse anche di più per il fatto che la democrazia liberale non la comprende”.
In risposta all’affermazione di Fukuyama secondo cui il nazionalismo, allo stesso modo
dei problemi sociali, rappresenti una difficoltà risolvibile nel momento in cui il
liberalismo raggiunga la piena completezza, Himmelfarb argomenta che la storia,
soprattutto del '900, dovrebbe insegnare a non sottovalutare simili fenomeni.
In conclusione del proprio articolo, Himmelfarb avverte che “c’è sicuramente
all’orizzonte un’altra America, probabilmente molto meno benevola, di cui non
11
G. Himmelfarb, in Aa. Vv., Responses to Fukuyama, in “The National Interest”, n. 16 (Summer 1989),
p. 25
12
Ivi, p. 26.
12
possiamo scorgere i contorni ma della cui esistenza possiamo essere abbastanza
13
sicuri”.
A proposito di quest’ultimo rilievo, Fukuyama nell’articolo A Replay to My Critics
(inverno 1989/90), osserva che sviluppi storici negativi sono certamente possibili, ma
non bisogna dimenticare che la rivoluzione democratica mondiale e il credo
nell’egualitarismo sul quale essa è basata, non sono un prodotto degli anni '80, e neppure
del periodo a partire dalla Rivoluzione Francese. “Come Tocqueville ha osservato nel
secolo scorso scrivendo La democrazia in America, il progresso in direzione
dell’egualitarismo democratico sembra essere un inevitabile processo storico che è stato
in viaggio per molti secoli e a cui nessuno sul lungo percorso ha potuto resistere. […] La
nostra moderna consapevolezza democratica-egualitaria è in un certo senso
un’acquisizione permanente, una parte delle nostre “caratteristiche naturali”
14
fondamentali come la necessità di dormire o la paura della morte”.
Come ripetuto anche a dieci anni di distanza nell’articolo Second Thoughts. The Last
Man in a Bottle, sostenere l’esistenza di una logica evolutiva che trascina la storia
umana – la tendenza in direzione dei valori democratici, della libertà e dell’uguaglianza
– non significa ritenere che tutte le nazioni diventeranno in breve democratiche: tale
direzionalità può essere affermata anche nella consapevolezza che possa essere
ostacolata o addirittura invertita a livello locale o per lunghi periodi di tempo (anche
quando ciò significhi il coinvolgimento di molte nazioni e di intere generazioni).
Una risposta analoga potrebbe essere indirizzata anche alle critiche di Irving Kristol,
giornalista di “The National Interest”, il quale osserva come la democrazia Americana,
apparentemente trionfante, conosca al proprio interno notevoli disagi, che tendono ad
accentuarsi: “Fra tali problematiche ci sono il vivo desiderio di comunità, di spiritualità,
una crescente sfiducia nella tecnologia, la confusione tra libertà e licenziosità, e molti
15
altri ancora”.
Non ha rilievo per Fukuyama neppure l’obiezione, a cui si è già in parte risposto, che
mette in evidenza il fatto che l’Islam costituisce in larga parte del mondo e per una
13
Ibidem.
14
F. Fukuyama, A Replay to My Critics, in “The National Interest”, n. 18 (Winter 1989/90), pp. 27-28.
15
Irving Kristol, in Aa. Vv., Responses to Fukuyama, in “The National Interest”, n. 16 (Summer 1989),
p.28.
13