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che l’attenzione particolare ad un solo compositore, e quindi ad una sola visione della
musica, è ciò che in larga misura ha determinato la collocazione che i due pensatori
hanno attribuito alla musica nei rispettivi campi di indagine, dialogico ed emozionale.
Ampliando la prospettiva, vedremo poi che dietro alle conclusioni cui
perverranno Ebner e la Nussbaum sta un dibattito che in campo musicale è vecchio di
circa cento anni: quello tra romantici o tardo-romantici (Mahler) e la nuova
generazione di musicisti (tra i quali Hauer), abbagliati dall’illusione di una rinascita
della musica e mossi da quell’esigenza di un radicale rinnovamento spirituale che si
manifestò in molti settori della vita culturale ed artistica nel periodo a cavallo fra
Ottocento e Novecento.
La tesi si divide pertanto in due parti principali.
La prima si rivolge ad Ebner. Un primo capitolo sarà finalizzato ad introdurre le
coordinate del suo pensiero dialogico, coordinate nelle quali, nel capitolo secondo,
collocheremo la tematica specificamente musicale. Un terzo capitolo sarà poi rivolto
a rintracciare le radici del pensiero esposto, sia tramite un suo inquadramento storico,
sia attraverso lo studio della concezione della musica del referente ebneriano in
campo musicale, Hauer. Riveleremo dei possibili nessi di causa tra questa concezione
e l’ermeneutica della musica proposta da Ebner in àmbito dialogico.
Per la seconda parte, riguardante la filosofia della musica rintracciabile nel
pensiero di Martha Nussbaum, adotterò un metodo che ricalca quello usato nello
studio su Ebner. In un primo capitolo esporrò pertanto il contesto generale dal quale
prende le mosse la Nussbaum, ovvero il suo tentativo di formulare una teoria
cognitiva delle emozioni; nel secondo capitolo vedremo come la musica,
nell’interpretazione della pensatrice, possa entrare in relazione con un approccio
all’emozione così delineato; e nel terzo capitolo infine analizzeremo alcune delle
ragioni più importanti per le quali la Nussbaum, nelle sue riflessioni in àmbito
musicale, sceglie di riferirsi proprio a Mahler; di conseguenza vedremo i motivi per i
quali la musica di questo compositore è così in sintonia con le finalità filosofiche
della pensatrice.
Le implicazioni complessive di un lavoro così delineato sono quindi molte,
cosicché, pur partendo da una domanda sulla musica, questa tesi si vedrà costretta ad
allargare progressivamente il proprio campo di indagine arrivando a toccare aspetti
del pensiero del Novecento che di per sé non hanno la musica come loro oggetto
d’indagine principale, quali ad esempio la filosofia dialogica, la teosofia e la
psicologia cognitiva. Ma, d’altra parte, un qualsiasi approccio alla musica che non
inglobasse a sé il pensiero dalla quale essa è scaturita rischierebbe di alimentare
quell’atteggiamento nei riguardi della disciplina che, pur riscontrando una gran
fortuna di questi tempi, è in realtà il più inadeguato ai fini di una sua conoscenza
seria: l’atteggiamento di approvazione-disapprovazione ingiustificato e superficiale,
l’atteggiamento del “mi piace” prettamente emotivo.
La musica è forma di pensiero, e come tale va affrontata.
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PARTE PRIMA:
EBNER E LA MUSICA.
LA TENTAZIONE DEL “SOGNO”.
Premessa: un approccio “dialogico”.
Prima di esporre il pensiero di Ebner a proposito della musica è necessario
abbracciare in un quadro più ampio le premesse e gli sviluppi che lo hanno condotto
agli esiti a cui perverremo. In Ebner più che in altri autori, la sfera estetica non può
assolutamente sussistere senza le adeguate premesse teoretiche ed esistenziali.
Essendo il suo un pensiero assolutamente a-sistematico, il prenderne in esame una
parte soltanto significa non aver còlto il messaggio e il monito totalizzante che egli ci
ha lasciato. Il lettore deve pertanto immergersi totalmente nella Weltanschauung
ebneriana, sottesa non senza punti problematici e dolorosi ad ogni sua pagina.
Estrapolazioni frettolose di parti di pensiero dal loro contesto esistenziale-dialogico
provocano disorientamento e sgomento, e rischiano di sembrare provocatorie; questo
perché, in realtà, il pensiero di Ebner è afferrabile solo se lo si abbraccia nella sua
totalità e nella sua onnicomprensività. Inoltre, più che capito esso va vissuto: Ebner
non parla del “reale”, dell’“essere”, impersonalmente e astrattamente. Egli parla con
me, e da me attende replica. E parla in fondo di sé, o meglio di quella parte di sé che
lo accomuna agli altri uomini; ciò fa sì che il suo modo di porsi, pur mantenendo la
forma del “trattato” (i Frammenti), sia a tutti gli effetti un dialogo col lettore. Ed
Ebner cerca, provoca il dialogo.
Ebner, affronta pertanto la tematica musicale in modo insolito per un qualsiasi
altro pensatore estetico, forse addirittura in modo non estetico o pre-estetico. Egli non
si chiede tanto quali debbano essere le caratteristiche della bellezza, ma si chiede
piuttosto quanto la bellezza stessa, l’arte abbiano a che fare con l’essenzialità umana
e se sia dunque così importante. Egli si dichiara “Bedenker des Wortes”, pensatore
della parola, del dialogo.
All’interno del suo orizzonte dialogico la musica rappresenta quindi solo un
momento, pur doveroso e obbligato. Tuttavia proprio il suo inserimento in tale
orizzonte, ne offre un’ermeneutica che non solo fuoriesce dagli argini di una normale
analisi estetica, ma che riesce ad abbracciarla dall’esterno in un articolato
ragionamento teoretico incentrato sul rapporto Io-Tu.
Musica tappa obbligatoria quindi, ma anche nodo estremamente problematico
per Ebner; la sua passione e competenza in materia, a cui fa eco un continuo e a tratti
ossessivo interrogarsi sul suo senso e possibilità, ci testimoniano di una lacerazione
tra l’Ebner “Bedenker” e l’Ebner “Persona”.
Così, la sua svalutazione tutta speculativa della musica non lo esime ad esempio
7
dall’essere un assiduo frequentatore di sale da concerto e un “dilettante” (nel senso
genuino del termine) di buon livello, in grado di leggere al pianoforte brani di una
certa difficoltà, e il suo negare alla musica qualsiasi possibilità di conoscenza non
tiene a freno in alcun modo la sua voglia di parlarne con competenza e trasporto. E
del resto, anche il suo rifiuto della filosofia non gli ha impedito di divenire uno dei
grandi filosofi e diagnosti del male del nostro tempo.
È una scissione questa – sia detto per inciso – che egli ha sempre cercato di
evitare, vista come il prodotto della rigettata cultura moderna (sia essa filosofia,
idealismo, metafisica, teologia o arte), a-dialogica, oggettiva, mortifera, auto-
referente, “sogno dello spirito”. L’Ebner che parla della musica è un Ebner che lotta
contro sé stesso, è un Ebner rammaricato, che non sa spiegare a se stesso
l’incongruenza, l’inconciliabilità che separa il suo essere dalle sue parole (che forse
sono tali per “esigenze di sistema”, per necessità di coerenza filosofica).
In fondo, è proprio su questo punto, sull’identità cioè tra l’essere e la parola,
che l’intera filosofia dialogica gioca la sua partita più importante; la partita che la può
o meno vedere come vera risposta e alternativa alla cultura moderna. In gioco c’è la
sua stessa esistenza e credibilità.
Ma partiamo dal principio, dalle radici dell’articolato pensiero ebneriano
cercando di porsi nel suo stesso punto d’osservazione, partendo, come già detto da
premesse non estetiche ma teoretiche e specificamente dialogiche.*
*
Questa quindi l’organizzazione del lavoro;
Nel Capitolo I esporrò in generale il pensiero dialogico di Ebner.
A ciò seguirà una parte più specifica riguardante lo statuto dialogico della musica (Capitolo II), così
come esso si presenta nei Frammenti “6” e “18”.
A ciò non potranno non far seguito, nel Capitolo III, un inquadramento storico culturale di tale
pensiero ed alcuni riferimenti biografici essenziali, aspetti che tra l’altro ci aiuteranno a
comprendere se ed in che misura la concezione della musica di Ebner è figlia del proprio tempo e
quante e quali influenze essa ha subito dalla situazione storica dalla quale è scaturita. Non potrà qui
mancare un’intera parte dedicata al musicista Joseph Matthias Hauer, col quale Ebner strinse per un
periodo uno stretto rapporto di collaborazione artistico- filosofica, oltre che di personale amicizia.
Questi i tre aspetti su cui questa prima parte della tesi intende far luce:
1. Ebner ed il suo approccio dialogico alla musica;
2. concezione della musica di Ebner e analisi degli influssi che l’hanno così determinata.
Ripercussioni che una siffatta concezione può aver avuto sull’ermeneutica musicale in
ambito dialogico;
3. Hauer e la sua concezione della musica; possibilità e limiti.
8
Capitolo I.
Il pensiero dialogico in Ferdinand Ebner.
«Presupposto che l’esistenza umana ha nel suo nucleo una rilevanza spirituale,
una rilevanza spirituale che non si esaurisce cioè nel suo naturale affermarsi nel
corso delle vicende del mondo;
presupposto che si può parlare di qualcosa di spirituale nell’uomo anche in
termini diversi da quelli della finzione poetica o anche metafisica o imposta da
motivi solamente “sociali”;
allora tale realtà spirituale è essenzialmente determinata dal fatto di essere
radicalmente orientata ad un rapporto con qualcosa di spirituale posto al di fuori
di sé, mediante il quale e nel quale essa esiste. Un’espressione, anzi
l’espressione “oggettivamente” percepibile e dunque accessibile ad una
conoscenza oggettiva di tale essere orientato ad una simile relazione si riscontra
nel fatto che l’uomo è un essere parlante, che egli “ha la parola”. La parola però
egli non la possiede per motivi naturali e nemmeno per motivi sociali. La
società in senso umano non è tanto il presupposto per il linguaggio, quanto
piuttosto necessita di esso, della parola che è presente nell’uomo, come di una
premessa per la propria sussistenza.
Se ora, tanto per dare dei nomi, chiamiamo tale realtà spirituale presente
nell’uomo “Io” e quel qualcosa al di fuori, in rapporto al quale l’Io esiste, “Tu”,
dobbiamo allora riflettere sul fatto che questo Io e questo Tu ci sono dati nella
loro “interiorità” proprio mediante la parola e nella parola; non però come
“vuote” parole-vocaboli in cui non abiterebbe alcun riferimento a una realtà –
quello che, certo, sembrano essere nel loro impiego astratto sostantivato e
sostanzializzato – bensì piuttosto come parola che nella concretezza e attualità
del suo venir espressa “reduplica” nella situazione creata dal parlare il proprio
“contenuto” e il proprio contenuto di realtà».1
Il punto di partenza di Ebner è un bilancio sulla realtà spirituale dell’Io così
come è andato formandosi nel pensiero occidentale, dalla Rivelazione alla modernità.
L’Io occidentale, secondo Ebner, è attualmente perduto nella trappola dell’illusoria
auto-enfatizzazione, essendosi spezzato il ponte dialogico con l’«al di fuori», con il
Tu. Chiaro esempio e concausa di questa chiusura dell’Io di fronte al Tu sono i
sistemi filosofici, su tutti l’Idealismo, visto come proiezione auto-referenziale dell’Io.
La “filosofia dell’oggettivo” non cerca nessun dialogo, ma nel definire
scientificamente il reale, nello scoprire e nell’agire di conseguenza, innalza l’Io
solitario sull’altare del progresso, della conoscenza; e l’Io si compiace di tanta
oggettività, oggettività che è però in fondo un suo prodotto.
Secondo Ebner il pensiero moderno manifesta una tendenza a rifugiarsi in sé
stesso, pretendendo di fondarsi razionalmente a partire per l’appunto da sé stesso. Dal
pensare solitario però sorge unicamente il concetto astratto, un pensiero auto-
1
Ferdinand Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, ed. it., a cura di Silvano Zucal, ed. San
Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1998, pagg. 137-138. (Edizione originale: Ferdinand Ebner, Das Wort und die
geistigen Realitäten. Pneumatologische Fragmente, Brenner Verlag, Innsbruck 1921).
9
referenziale.
A questa derìva, è chiaro, Ebner non intende (non intendeva, nelle intenzioni)
opporre un’altra filosofia, se questa sta ad indicare un’analisi oggettivistica e
sistematica del reale, che abbia come proprio garante l’Io cartesiano, l’Io
dell’intelletto (Verstand), un Io oggettivante e, in ultima analisi, auto-referenziale,
barricato in sé stesso. Ebner percorre un’altra via; egli ricerca, si rivolge all’Io
relazionale, all’Io della ragione (Vernunft), all’Io che coglie sé stesso come essere
essenzialmente dialogico.
1. Dualità e ragione.2
Ebner conia un termine per descrivere il suo bilancio a proposito dell’Io
filosofico e, più in generale, dell’Io della cultura moderna: Icheinsamkeit, traducibile
con “autosolipsismo dell’Io”, “ipseità”, “insularità dell’Io”, l’atteggiamento di un Io
ipertrofico, auto-referenziale e a-relazionale, rivòlto esclusivamente al sé. Se questo
autosolipsismo è una derìva patologica e patologizzante, è chiaro che per Ebner l’Io
sano è caratterizzato da una tensione alla relazionalità, alla dialogicità, tensione che
per Ebner è dovuta all’origine essenzialmente duale dell’uomo.
Tale dualità originaria postulata da Ebner costituisce la patria dialogico-verbale
dell’uomo. Patria dialogica, ma ancor prima patria ontologica: col dialogo l’uomo
non esce da sé, bensì ritorna al proprio essere originario, alla propria essenza.
All’inizio non c’era l’Io e non c’era il Tu, ma l’“Io-Tu”, legame nel quale tuttavia i
termini rimangono entrambi distinti. Tale relazione originaria ha in Ebner una
fondamentale connotazione cristiana; passa attraverso la lettura del Prologo
giovanneo, ed è dunque declinata nella forma Dio-Logos/uomo. Solo l’uomo che
riconosce la propria primaria relazione con Dio, può modulare tale dualità nella
relazione intra-umana. Ciò che rende possibile il dialogo tra gli uomini è la comune
patria duale, anche se il riconoscimento di questa, dopo il Peccato Originale, dopo il
distacco da Dio, non è più scontato. L’uomo, ora solo, la rincorre lungo tutto l’arco
della propria vita e l’anela dopo la morte. Essa tuttavia non si può realizzare se non
quando egli riconosce la portata effettiva e le implicazioni reali della dualità stessa.
Essa, come già detto, è prima di tutto una dualità Dio-Logos/uomo, che solo
successivamente e quando questa è stata accettata, si declina nella forma Uomo-
Uomo. L’accoglimento del Logos, e non un gettarsi superficiale nelle relazioni intra-
umane senza guida alcuna, è l’unica via per un ritorno alla patria perduta, per uscire
dall’auto-referenzialità. La sola relazione intra-umana non ci dice nulla: può essere
essa stessa indice di patologia solipsistica; il passo decisivo è infatti il riconoscimento
di Dio-Logos. La ragione (Vernunft), è la facoltà umana che riconosce e si riconosce
nel Dio-Logos, essa stessa è parte di questo. La “parola”, espressione di Dio-Logos,
2
Cfr. Silvano Zucal, Lineamenti di pensiero dialogico, ed. Morcelliana, Brescia 2004; AA.VV., La filosofia della
parola di Ferdinand Ebner, (atti del Convegno internazionale tenuto a Trento dal 1-3 dicembre 1998), a cura di Silvano
Zucal e Anita Bertoldi, ed. Morcelliana, Brescia 1999; Ferdinand Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti
pneumatologici, op. cit.
10
è, pertanto, il fine della stessa ragione.
L’uomo può tuttavia scegliere di non vedersi come essere relazionale, può
scegliere di non riconoscere il Dio-Tu, e può barricarsi dietro la «muraglia cinese»
dell’Io, optando per quelli che sono i due atteggiamenti nemici della dualità
originaria:
1 il dualismo escludente, sintetizzabile nella formula “o Io, o lui”, ovvero
“l’aut- aut” che vede nell’altro un’istanza dialettica senza possibilità di
sintesi.
2 Il monismo, l’atteggiamento assolutamente auto-referenziale in cui l’Io si
riferisce solamente a sé stesso.
Affermare la negatività del monismo tuttavia non significa annullare la
singolarità, l’unicità, l’irripetibilità dell’individuo. Il tendere ad una fusione Io-Tu in
un magma indistinto è una tentazione mistica da respingere come assolutamente a-
dialogica.
2. Le due solitudini.
Esistono due solitudini, o meglio, due declinazioni della stessa solitudine che
caratterizza la condizione umana post-edenica:
1 la solitudine dello spirito, feconda ed irripetibile solitudine dell’ Io davanti a
Dio, in cui si rivela all’Io (grazie alla Vernunft) il vero senso del Tu divino e
da cui solo un passo breve conduce verso l’uomo e verso il Tu umano.
Questa è dunque una solitudine necessaria, preziosa ed essenziale.
2 la solitudine della morte; ovvero la condizione solitaria dell’Io barricato nel
mondo, in cui egli si scaglia contro la «muraglia cinese» dell’esistenza
individuale. Il risultato di tale opzione è quella che Kierkegaard ha
diagnosticato come disperazione, ovvero insoddisfazione di sé, data dal
desiderio di essere ciò che non si è. Tale disperazione è inevitabile se l’Io
vuol sussistere per sé, se opera quella chiusura di fronte al Tu, che è
espressione prima di tutto di un distacco dal Dio-Tu.
Se disperato, l’Io fa un utilizzo assurdo e auto-referenziale della libertà e del
carattere verbale dialogico che Dio ha posto nell’uomo. Se questo carattere verbale è
lo strumento che Dio ci ha dato per redimerci nei confronti del Tu, il disperato ne fa
l’uso opposto, impiegandolo contro il Tu e in maniera auto-referenziale ed egoistica,
cercando in questo modo, inutilmente e illusoriamente, sollievo alla propria
insoddisfazione. L’esito di questa opzione è un’entropia spirituale, che mai potrà
soddisfare le esigenze dell’Io.
11
3. L’“Icheinsamkeit”.
Il secondo tipo di solitudine citato è a tutti gli effetti un evento demoniaco, in
quanto derìva spirituale, fallimento del rapporto Io-Tu, rifiuto di Dio. Esso prende da
Ebner il nome già citato di Icheinsamkeit, traducibile come “insularità dell’Io”, “auto-
referenzialità”, “auto-isolamento dell’Io”, “ipseità”. Dalla forza di tale chiusura l’Io
può ricavarne un certo compiacimento, che però è in realtà fasullo, poiché l’Io stesso
in segreto soffre del suo auto compiacersi, solitario ed isolato; il fenomeno
dell’Icheinsamkeit non è mai nulla di sociologico e/o di psicologico, anche se
provoca delle inevitabili ricadute sul piano sociale e psichico. Tali ricadute sono però
solamente un’eco, un rimbalzo di un evento accaduto più in profondità, sul piano
pneumatologico, là dove l’individuo ha deliberatamente rifiutato la propria vocazione
dialogica. L’Io, infatti, gioca sempre un ruolo attivo nella propria determinazione
solipsistica; l’Icheinsamkeit non rappresenta né uno stato di emarginazione sociale,
né un semplice “non essere capiti”, ma è sempre e solo il frutto di una specifica
opzione; opzione nella quale l’Io sceglie deliberatamente di riferirsi in modo
esclusivo a se stesso. Questo è un atteggiamento patologico poiché l’Io sano non può
sussistere col proprio baricentro ontologico diretto in toto su di sé; è necessario che
questo baricentro sia volontariamente collocato nella zona relazionale dell’Io, in
quella sfera che lo vede rapportarsi col Tu.
Passiamo ora a sottolineare due aspetti essenziali dell’Icheinsamkeit:
3.1. Struttura a-personale di ogni pensiero generato dall’Icheinsamkeit.
La struttura a-personale del pensiero e del linguaggio generati
dall’Icheinsamkeit è osservabile senza difficoltà negli àmbiti scientifico, artistico,
filosofico e soprattutto teologico. L’Io nell’Icheinsamkeit è un Io fantasmatico che ha
perduto la propria identità in virtù dell’auto-referenzialità esclusiva, che esclude
totalmente la relazione col Tu. L’Io non esiste al di fuori di tale relazione ed ogni
riflessione dell’Io e sull’Io in tal modo consegnata è una sostantivizzazione dell’Io
che lo oggettivizza. Ma il vero Io non si lascia oggettivare né tanto meno
sostantivizzare. L’Io che anziché al Tu si riferisce a sé stesso, diviene “oggetto” di sé
stesso; è questo l’Io della volontà di potenza, che si rivelerà purtuttavia miseramente
impotente sul terreno spirituale.
3.2. Icheinsamkeit come malattia e come colpa.
L’Icheinsamkeit è essenzialmente patologia dell’isolamento deliberato; esso
conduce inevitabilmente alla follia anche in chi né s’avverte, né si ritiene folle. La
follia ha per Ebner un’origine pneumatologica, non psicologica; essa è connessa con
la libertà dell’uomo, con una sua opzione colpevole. Solo secondariamente è
attribuibile ad un’emergente patologia psichica.
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Si rende necessario ora un chiarimento terminologico, una distinzione
fondamentale per il pensiero dialogico, quella tra psychè e pneuma. Quando si parla
di pneuma, spirito, l’Io è pensato aperto alla relazione duale col Tu divino e umano.
Lo pneuma di un uomo è quella parte della sua interiorità che presuppone l’altro
necessariamente, parte che pertanto l’individuo non può controllare e determinare
come se fosse totalmente “sua”. L’Io spirituale è un Io permeabile, che assorbe in sé
la realtà esterna; lo spirito stesso può esser descritto come quell’“atmosfera”
interindividuale nella quale avviene l’incontro dialogico. La realtà pneumatologica
pertanto presuppone l’altro: essa è sostanza, come detto, interindividuale, è quanto di
divino è previamente dato da Dio con la realtà della Vernunft/parola ed è il luogo
dove si compie l’opzione dell’amore, della redenzione col Tu. L’uomo pensato
pneumatologicamente è dunque per definizione non autosufficiente, egli necessita del
Tu.
Diametralmente opposto è l’approccio psicologico (o forse sarebbe meglio dire
psicologistico): l’individuo infatti diviene oggetto della psicologia solo quando si
trova in una situazione di chiusura di fronte al Tu: la psicologia analizza l’individuo
in sé stesso. Anche per Ebner e i dialogici esiste la psychè, ma essa è, nella loro
prospettiva, essenzialmente una parte non autosufficiente dello pneuma; possiamo
pertanto studiare ed intervenire su di essa, ma non dobbiamo dimenticarci della sua
non autosufficienza. Le patologie che la possono riguardare derivano infatti per la
maggior parte “dal di fuori”, e sono un rimbalzo della già menzionata “opzione
colpevole”. La psicologia opera un’assolutizzazione di ciò che di individuale vi è
nella pneumatologia, dimenticandosi così che l’ individuo non ha la propria casa in sé
stesso.
Ecco dunque spiegata, ad esempio, la duplice e discordante diagnosi della follia:
lo psicologo ne ricerca le cause nell’individuo in sé, analizzando le dinamiche
tutte interne alla psychè. Gli agenti esterni sono qui chiamati in causa solo per
spiegare ripercussioni o alterazioni psichiche: la psychè resta l’unico oggetto
d’indagine;
il dialogico invece riconduce la follia ad una chiusura dell’Io di fronte al Tu.
L’Icheinsamkeit è una realtà che è psicologicamente concepibile, ed è follia proprio
per questo, e non per un difetto interno alla psychè.
Vale la pena di ripeterlo: la patologia psichica è per il dialogico solo un
rimbalzo, un’eco di una più profonda sofferenza, quella pneumatologica. L’Io soffre
per la sua auto-referenzialità, ma non è cosciente che sia proprio questo il motivo del
suo star male. La sua ricerca delle cause è un brancolare nel buio e generalmente
contribuisce a consolidare l’Icheinsamkeit stessa. Il Tu diviene, nell’Io solipsistico
(chiuso, psicologico), sempre più oggetto di risentimento; egli diviene il colpevole
del malessere lamentato. Alla base di tale spirale perversa sta una mancanza di
riconoscimento del peccato da parte dell’Io: la vita dello spirito infatti si ammala
quando defeziona della verità e della giustizia ontologiche, quando smarrisce il senso
dell’amore (decentrante), e questo, lo abbiamo visto, è dato da un difetto della
ragione oltre che una scelta deliberata. La realtà patologica non è tanto nell’errare e
nel peccato, ma nel mancato riconoscimento del peccato stesso, nel mancato
13
riconoscimento del proprio distacco da Dio.
S’impone una svolta, un radicale cambio di direzione da parte dell’Io. La salute
spirituale presuppone un ruolo attivo dell’Io, ed è fatta da giustizia ontologica, grazie
alla quale egli possa riconoscere l’essenza delle cose altre, e da amore decentrante, il
quale eviti all’Io di incarcerarsi per non avere scorto amando la struttura valoriale
dell’ente diverso da sé. La persona che rinuncia a ciò si ammala perché ha puntato
completamente le carte della propria esistenza sul calcolo, sulla violenza deliberata,
sull’astuzia luciferina, mezzi che non conducono assolutamente a nulla. L’esistenza
diviene un carcere.
Le cause della follia vanno dunque ricercate nello pneuma, non scavando nella
psychè; solo l’amore, la parola, il dialogo, possono guarire l’individuo. È interessante
notare, per inciso, come anche le sedute psichiatriche si basino sul dialogo, il quale
però è visto in questo contesto solo come uno strumento (pur fondamentale) per la
conoscenza della psychè. Lo psicologo non ne coglie così la reale portata, la
centralità; forse, però, è proprio grazie ad esso, più che per merito delle fredde
diagnosi e agli altrettanto “impersonali” interventi (gli psichiatri non vedono di fronte
a loro una persona, ma un fenomeno psichico, o, nel migliore dei casi, un soggetto),
se talvolta tali sedute hanno buon esito. L’uscire dall’esclusività dell’Io per mezzo del
dialogo non è considerato dagli psichiatri come momento positivo in sé, ma, nella
loro tensione ad oggettivare il Tu, solo come finestra sulla psychè, che può così
essere conosciuta ed “aggiustata”. Si noti: l’effetto collaterale di una terapia andata a
buon fine più temuto dagli psichiatri è il cosiddetto transfert, che consiste
nell’insorgenza nel paziente di un sentimento di amore nei confronti del curante. Ciò
non sta forse ad indicare l’inscindibilità di parola-amore-salute pneumatologica? Il
paziente non è un oggetto, ed il fenomeno transfert è un chiaro indizio della sua
essenza pneumatologica e non psicologica.
4. La redenzione possibile.
In realtà l’esempio del transfert è valido solamente per sottolineare la centralità
del dialogo come patria ontologica umana: ammettere l’efficacia del colloquio
psichiatrico sarebbe infatti uno smentire Ebner, secondo il quale un dialogo
unicamente intra-umano non solo non può in nessun modo portare ad alcuna
redenzione, ma non è semplicemente possibile. La liberazione dal carcere
dell’autoreferenzialità è frutto solo della “parola giusta”, rivolta al Tu, pronunciata
dall’amore. Tale parola non è possibile senza Dio: è Dio che ci ha dato con la ragione
la possibilità di pronunciarla, che ci ha fatti in grado di amare, di redimerci con Lui e
con l’uomo. Se non credo in Dio non posso pronunciare la “parola giusta”. Se il
legame tra gli uomini, la relazione Io-Tu intra-umana, è ugualmente determinata dal
tra, dal framezzo, costituito dalla parola che li ha originariamente costituiti, il loro
stesso legame sarà a questo punto posto in essere dal comune sapere Dio (Wissen um
Gott). Questo “sapere Dio” è un sapere recettivo e non afferrante; tanto più l’uomo
rientrerà in sé stesso con spirito disponibile a leggere le proprie effettive coordinate
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interiori modulate verbalmente, tanto più intimamente l’uomo diviene consapevole
dell’esistenza di Dio. La parola dialogica dentro l’uomo rinvia immediatamente al
partner dialogico primario e quindi al sapere Dio.
Dopo la caduta edenica, tuttavia, l’uomo ha perduto questo sapere, e per far
ritorno alla propria patria dialogico-ontologica ha bisogno di un mediatore.
4.1. Nuova dualità cristologica.
Il vero dialogo è la diretta conseguenza di un precedente riconoscimento di Dio
come primo e irrinunciabile Tu. Così come l’Icheinsamkeit non è primariamente e
principalmente solitudine intra-umana, bensì colpa davanti a Dio, peccato, l’uomo
non può ricevere i mezzi per uscirne dall’uomo, ma solo da Dio. Cristo è il tramite,
Cristo ci indica la via della redenzione; questa può essere infatti solamente il frutto
della parola e dell’amore, rivelati dall’unico uomo senza Icheinsamkeit originale, e
senza Icheinsamkeit scelta: Cristo, che è Parola nella divinità della sua origine. Egli si
è umanizzato e ha parlato direttamente all’uomo, in un linguaggio umano. Si è
collocato linguisticamente al suo livello per rammentargli parlandogli l’origine
dialogica.
La dualità originaria sembrerebbe ormai perduta se non intervenisse la
Zweisamkeit cristica, la quale implica l’Einsamkeit des Ichs, la solitudine positiva
(che ha tuttavia in agguato la tentazione dell’attorcigliamento presuntuoso dell’Io su
di sé, l’Icheinsamkeit), come elemento autenticante di una dualità che non scade in un
monismo senza parola perché deprivato di interlocutori autonomi. L’uomo si
autocomprende pienamente nel suo sapere Dio solo nello spirito di Cristo. Egli è il
grande decodificatore ed ermeneuta del sapere Dio come dimensione originaria
dell’uomo ed essenziale per la sua umana autocoscienza; anche se si appoggia su un
evento storico (“scendere tra gli uomini” vuol dire anche “entrare nel tempo”) esso
deve divenire contemporaneo nell’interiorità; tutti possediamo il senso del Tu divino.
Cristo educa in modo testimoniale e con la sua parola a comprendere pienamente sé
stessi nella propria identità segnata dal Wissen um Gott. Ridona cioè all’uomo il
“sapere Dio”.
L’uomo si trova al cospetto di una scelta radicale: comprendersi a partire dal sé,
o comprendere l’uomo a partire da Cristo. La redenzione passa solo attraverso questa
seconda via: essa esige una conversione. Cristo è infatti la unica via, verità, vita, da
seguire per un ritorno alla patria autentica.
4.2. La parola e il nome.
La redenzione dal peccato consiste quindi in un ritorno all’essenzialità della
parola, tramite la Parola stessa. Ritorno che, come abbiamo visto, può darsi solo su
base volontaristica: l’Io sceglie il dialogo, sceglie Cristo. Tale opzione equivale ad
un’uscita incondizionata dall’Icheinsamkeit. Uscita che non può avere che nell’amore
15
l’unico propulsore intenzionale; la parola stessa è l’effetto, il fine e lo strumento di
una scelta d’amore. Essa non è semplice opportunità comunicativa, ma il veicolo
oggettivo che fonda ontologicamente e rende possibile la relazione dialogica Io-Tu.
Quando si corrompe, perde la propria essenza dialogica e scade in linguaggio, in
chiacchera, facendosi portatrice della patologia spirituale, della colpa deliberata
dell’Icheinsamkeit. Nell’ottica dialogica il Peccato Originale è essenzialmente
snaturamento volontario della parola in mero linguaggio auto-referenziale dell’Io.
La parola permane solo formalmente, essendo essa rivolta unicamente al sé, e avendo
smarrito quindi la propria funzione originaria. La parola così annichilita, svuotata di
ricchezza e germinalità, muore.
Così come la conversione è un riavvicinamento alla parola e al dialogo, a Dio e
alla vita di Cristo, la parola morta è un fenomeno strettamente connesso con la morte
di Dio; infatti essa non può sopravvivere se le si toglie la sorgente che la mantiene in
vita, se viene a mancare l’“a priori” di ogni dialogo che si realizza. Morto Dio, essa
diviene strumento a servizio dell’Io, che la determina a proprio uso e consumo. Essa
è l’esito a-dialogico dell’ipertrofia dell’Io e del suo approccio strumentale alla
relazione interpersonale, ed è allo stesso tempo concausa di un radicalizzarsi nello
spirito della patologia stessa. La parola morta è la parola dei linguaggi auto-
referenziali, è chiacchera.
Ogni dialogo che avviene nella parola decolla e vive grazie ad una prima ed
insieme necessaria parola, il nome. Esso, la sua assegnazione, ha una doppia valenza:
ontologica e spirituale. Il nominato fuoriesce dall’esistenza naturale per attingerne
una spirituale, che insieme ne designa il vòlto e l’identità effettiva sul piano
dell’essere. Chi ha un nome rinasce spiritualmente. Infatti gli animali comunicano,
ma non si impongono nomi né si chiamano per nome poiché i loro messaggi sonori
sono sempre imprigionati dentro il contesto comunicativo ed interattivo biologico e
non pongono mai in essere la personalità col suo vòlto. Il nome è la scoperta da parte
dell’Io che la sua natura e dimensione di Io è in realtà in origine una natura e
dimensione di Tu. Il Tu, attribuendomi il nome, e chiamandomi continuamente per
nome, mi rende possibile cogliermi nella mia identità. Un Io che intendesse sigillarsi
nel proprio autosolipsismo non avrà mai davvero un nome spirituale, solo uno
burocratico.
Ma ben prima di tali nomi umani, fece la sua comparsa il nome divino. Esso è il
nome originario, il Tu originario; tale parola esisteva solamente al vocativo. Il
dramma consiste proprio nel fatto che tale Tu originario è stato trasformato in
asserzione teologica fredda e a-relazionale. Si parla di Dio, non più con Dio. Ma solo
nel secondo caso si ha un “Sapere Dio”. Dio non è oggetto, bensì relazione originaria.
5. I sogni dello spirito.
Dopo quest’ampia introduzione, la questione appena accennata del “nome
oggettivato” di Dio, ci consente di arrivare a definire il concetto di “sogno” in Ebner,
concetto dal quale si diramerà la sua riflessione sulla cultura, sull’arte in generale, e
16
sulla musica in particolare. Ebner include ogni verità nella realtà duale dell’Io-Tu
intraumano e cristico, ed esclude tutto il resto come sogno dello spirito, cioè come
fuga dal sé autentico; il sogno dello spirito consiste in un rinserrarsi
nell’autosolipsismo dell’Io. I grandi sogni dell’uomo sono la metafisica, la scienza, la
cultura, l’arte e soprattutto la teologia come discorso obiettivante su Dio.
In tutti questi casi lo pneuma non rifiuta, non nega a priori la ricerca del Tu. Egli
è disposto, in certi casi sente perfino l’urgenza di uscire dal sé, mosso da una vaga
esigenza di decentramento. Tuttavia questo Io sognante prende la strada sbagliata, la
quale non conduce al Cristo vivo e attuale della parola, bensì alla segregazione
dell’Io in sé stesso. È la strada dell’analisi oggettivante delle varie realtà, che si serve
del linguaggio a-dialogico e a-personale: è questo il caso della filosofia, della scienza
e della teologia. Ma è anche la strada della spiritualizzazione da parte dell’Io dei sensi
superiori (udito e vista); quella in cui l’Io crede cioè di intravedere in essi un accesso
privilegiato ad altre dimensioni del reale e al Tu: questa la strada dei sognatori del
bello, questo il sogno degli artisti.
Ebner espone la sua ermeneutica dell’estetica ed in particolare della musica in
due dei suoi Frammenti Pneumatologici: il sesto e, in parte, il diciottesimo. Ora che
abbiamo sommariamente tracciato le coordinate del pensiero ebneriano dovremmo
riuscire a contestualizzarli. Vediamoli dunque.
Capitolo II.
Musica: un’ermeneutica tra spiritualità e sogno.
1. Il Frammento 6.
1.1. Senso e sensi.
Il Frammento3 si apre con la definizione di “senso”, inteso sia nell’accezione di
“predisposizione”, “essere portati per...” (es. senso musicale, senso poetico...), sia
come “sensi” con cui cogliamo il mondo (udito, vista, gusto...). Il senso in entrambi i
casi è sempre la via attraverso la quale qualcosa entra in noi.
«Il mondo che per noi è esperienza vissuta, [...] il mondo non solo entra nella
nostra coscienza per la via dei sensi, bensì i sensi stessi gli si fanno incontro.
Avere senso per qualcosa significa andarli incontro [...]. Senso è la disposizione
alla recettività spirituale».4
3
Il testo di riferimento è: Ferdinand Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, op. cit.
4
Ivi, pag. 192.
17
Dire quindi che un individuo ha senso per la poesia significa che egli è
naturalmente aperto alla poesia. Dopo questa preliminare definizione Ebner definisce
qual è il senso tipico dell’uomo in quanto tale:
«Lo spirito umano è soprattutto “senso della parola”, è “ragione”».5
Ricordiamoci di quanto è stato detto a proposito della ragione (Vernunft); l’Io
razionale è l’Io che coglie sé stesso come essere essenzialmente dialogico: la ragione
è la facoltà dialogica per eccellenza. È una definizione di uomo quella che Ebner
propone. Definizione assolutamente fondamentale. Se per Boezio l’uomo è “Sostanza
individuale di natura razionale”, per Ebner tale definizione è declinabile in “Sostanza
individuale di natura dialogica”. Da questa definizione discende il suo pensiero, la
sua Weltanschauung. Ragione è dunque “andare incontro alla parola”, ma è anche la
parola stessa che si fa incontro allo spirituale nell’uomo e al suo bisogno di senso.
Nel suo bisogno di senso, l’uomo si fa “concreatore” della realtà; ciò vale anche
per i sensi che ci mediano l’esperienza del mondo:
«essi non sono soltanto strumenti di ricezione ma piuttosto corealizzatori di quel
mondo di cui facciamo esperienza, in quanto gli si fanno incontro».6
Ebner precisa però subito che ciò non vale per i tre sensi inferiori (tatto, olfatto,
gusto): come sappiamo la dimensione estetica riguarda solo i due sensi superiori.
Ebner aggiunge che ciò che è creativo, e quindi ciò che coinvolge i due sensi
superiori, riguarda lo spirituale:
«Non si può parlare della dimensione estetica, senza penetrare nello spirito».7
Sembra quindi che l’estetica sia una realtà spirituale, non psicologica, e che
quindi sfugga dall’Icheinsamkeit; ma aggiunge subito:
«Quando nel campo estetico si tratta dello spirito, non si sa mai esattamente di
che cosa si parla. Poiché cosa sia lo spirito nella sua realtà, non può essere còlto
esteticamente. […]. Nemmeno metafisicamente però…».8
Entrambi i momenti non riescono ad innalzarsi dalla sfera di sogno al contesto
reale della vita spirituale; è infatti vero che l’Io esce da sé, ma egli manca il Tu, e
quindi tali esperienze spirituali rimangono effettivamente indefinite: costituiscono un
“sogno” perché in esse l’Io crede di aver trovato la propria dimora sul piano
spirituale, dimora che è però inesistente, mancando un vero interlocutore, mancando
il dialogo. Ebner presenta successivamente una breve descrizione dei sensi inferiori,
nei quali «viene, per così dire, esperita la materialità del mondo». Essi sono: gusto,
olfatto, tatto.
5
Ivi, pag. 193.
6
Ibidem.
7
Ibidem.
8
Ibidem.
18
1.2.Udire e vedere.
Ebner inserisce una netta distinzione tra questi sensi inferiori e l’udito (e tra di
essi e la vista, sulla quale però non ci soffermeremo), e lo fa in modo singolare,
affascinante, e forse discutibile:
«il momento specifico nell’esperienza dell’ascolto consiste nel fatto che questo
movimento d’aria nell’ascolto non viene recepito come resistenza alla materia,
bensì come suono, il che è qualcosa di totalmente diverso. Il fatto che l’orecchio
ascoltando l’aria mossa delle onde sonore la percepisca come suono – e non
come aria smossa, il che sarebbe un semplice evento tattile, che di per sé sta alla
base del processo dell’udire, considerato nel suo venir causato dall’esterno,
ovvero come scontro di aria smossa con le diverse parti dell’apparato uditivo – è
già una reazione creativa alla percezione dell’aria mossa […]. Poiché però
l’orecchio, nell’atto dell’udire, nella sua reazione al moto dell’aria, reazione
tramite la quale rende questo qualcosa di diverso da ciò che oggettivamente in
esso è dato, non sperimenta la materialità della materia in quanto tale, bensì
piuttosto la fa scomparire; per questa ragione si può allora dire che l’esperienza
del suono equivale ad una “spiritualizzazione”, ad una “smaterializzazione”
della materia».9
La materia diviene così in parte un prodotto dell’orecchio. Si impone un
chiarimento terminologico: spiritualizzazione non significa solamente
smaterializzazione (e il loro utilizzo ravvicinato disorienta un po’!), bensì atto
creativo tramite il quale l’Io si rapporta al mondo. Lo spirito, lo pneuma è la parte
dell’Io che è relazionale, e nel sentire, si relaziona alla materia, le si fa incontro
smaterializzandola. Ricordiamo – ne vale la pena a scanso di equivoci – la
definizione che Ebner dà di “realtà spirituale” nella Prefazione dei Frammenti stessi:
«Presupposto che l’esistenza umana ha nel suo nucleo una rilevanza spirituale,
rilevanza spirituale che non si esaurisce cioè nel suo naturale affermarsi nel
corso delle vicende del mondo; […] allora tale realtà spirituale è essenzialmente
determinata dal fatto di essere radicalmente orientata ad un rapporto con
qualcosa di spirituale al di fuori di sé, mediante il quale e nel quale essa
esiste…».10
Spiritualizzazione della materia dunque significa che l’uomo concepisce il
proprio nucleo nel rapporto con la materia smaterializzata; che in essa egli
concepisce il proprio al di fuori di sé, mediante il quale e nel quale egli esiste come
essere spirituale.
«Nell’esperienza dei sensi superiori si verifica una spiritualizzazione del mondo,
dell’esperienza originaria e primitiva del mondo còlta col sentire e tastare.
Suono e luce sono materia spiritualizzata nell’“atto creativo” dell’esperire,
esperienze tattili spiritualizzate. Il suono non c’è senza l’orecchio da cui viene
9
Ivi, pagg. 194-195.
10
Ivi, pag. 137.