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INTRODUZIONE
Questo lavoro ha come obiettivo quello di mettere in risalto il problema fra
diritto e verità, studiando la ‘ fictio iuris’ come fenomeno indicato e
reperibile nelle fonti giuridiche.
Quando si parla di fictio, si vuole intendere ‘atteggiamento o
comportamento falso o simulato, episodico o abituale’; ma la bipartizione
finzione/realtà sono un problema molto complesso, che ha da sempre
affascinato sia la filosofia sia le scienze fisiche. Sono diverse le accezioni
del termine, indifferentemente dall’oggetto materiale, azione umana o altro
accadimento che in realtà si ‘sa’ non esistere
1
. Si pensa alla finzione come
‘una deformazione cosciente della realtà cui si riconnette una conseguenza
giuridica’,
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o ‘quel procedimento logico, per cui, pur non essendo un dat o
fatto direttamente contemplato da una norma giuridica, si riesce ad
assoggettarlo ugualmente alla disciplina dettata da quest’ultima,
immaginando che in luogo del fatto stesso se ne sia verificato un altro
diverso, rientrante nella previsione normativa’.
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Una seconda definizione,
la quale mette in risalto la finalità della fictio, la ritiene ‘un mezzo per far
corrispondere le conseguenze giuridiche proprie di una determinata
fattispecie ad altra diversa fattispecie che, di per sé, ne sarebbe
assolutamente priva’.
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Una nuova definizione, che evidenzia la struttura
della fictio, la qualifica come ‘modo di rappresentare o di parlare,
cogliendo, appunto, gli strumenti linguistici che consentono l’economia dei
mezzi normativi’. Si vuole allora individuare il fenomeno come una
particolare modalità espressiva tramite cui esplicare determinati concetti.
Il punto più importante da trattare è quello concernente la finzione, quale
meccanismo ritenuto necessario per l’esigenza di applicare la regula iuris a
casi in cu i essa produrrebbe conseguenze inique. Per intendere meglio
questo meccanismo, è necessario partire dal rapporto che intercorre tra
norma giuridica e il suo campo di applicazione, in considerazione del fatto
1
E. Bianchi, ‘ Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca
augustea’, p. 10, Padova, 1997.
2
Ernesto Bianchi, cit. p. 12.
3
Vincenzo Colacino, ‘Fictio iuris’, in NDL, 1957, 269-271.
4
Ernesto Bianchi, cit. p. 14.
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che spesso, al posto di introdurre per legge un’ eccezione alla regola, si
preferiva immaginare un’artificiosa modificazione del fatto, ‘facendo finta’
che questo potesse essere diverso da quello che era nella realtà, ragionando
sulla base del ‘come se’. Di questo interessante fenomeno, il diritto r omano
ci ammaestra con ricca casistica
5
. Un fenomeno, quello della finzione, che
serviva per lo più a impedire o spesso a estendere l’applicazione del ius
civile. L’ordinamento romano se n’è sempre servito per raggiungere scopi
che altrimenti non poteva conseguire. Scopi rispondenti a un senso di
giustizia, perché grazie alla finzione riesce possibile temperare il rigore di
certi principi. Una volta conseguiti questi scopi, la finzione non si pone in
contrasto con il sistema di ius, rendendo in questo modo più semplice il
ricorso all’uso di deroghe ed eccezioni a regole fondamentali.
Tra gli ordinamenti che hanno fatto uso della finzione giuridica, quello
romano è sicuramente quello cui si deve indubbiamente attribuire la
creazione cosciente e l’utilizzazione co erente dello strumento in questione.
Tuttavia non è stato l’unico; vi sono stati altri importanti esempi di finzione
in differenti realtà giuridiche, quali il diritto mesopotamico, i quali hanno
preceduto il diritto romano nell’utilizzo delle finzioni, dove s’intravede
solo un occasionale ricorso a questa figura, privo di qualsiasi
consapevolezza e sistematicità. Questi, fecero uso della finzione col fine di
eludere l’applicazione di norme giuridiche contenute nel codice di
Hammurabì, il quale rappresentava il più ampio testo giuridico delle civiltà
mesopotamiche e uno dei più antichi del mondo. Adottata come modo di
pensare proprio della cultura romana, la finzione legislativa prevede
l’esistenza o l’inesistenza di un fatto, al fine di ricollegare alla sussistenza
del fatto o a lla sua mancanza, le conseguenze giuridiche che ne
deriverebbero qualora esse corrispondessero alla realtà, rendendo cioè
possibile o escludendo l’applicabilità di una norma al rapporto dato. Non si
modificano dunque le norme esistenti, ma si modifica artificiosamente il
fatto cui queste dovrebbero applicarsi, fingendo inesistenti alcuni elementi
che osterebbero l’applicazione di una norma, o fingendo sussistenti tali altri
elementi che soli ne renderebbero l’applicazione. Si allude al risultato di un
processo mentale che, poiché immaginato o inventato, non corrisponde
puntualmente a una specifica realtà.
5
A. La Torre, Cinquant’anni col diritto, Milano, 2008.
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Come già nel linguaggio comune, anche in campo giuridico al termine è
stata spesso riconnessa una valenza moralmente negativa, motiva ta dalla
convinzione che nella finzione sia sempre presente un inganno, o
quantomeno una forzatura, che, da un lato, violerebbe sostanzialmente la
corretta interpretazione di u na norma e, dall’altro, consentirebbe che
l’ordinamento non tenga conto di disci plinare sistematicamente lacune
legislative ipocritamente, invece, affidate a questo strumento. Per di più, la
finzione, rispetto alla interpretazione estensiva e a quella analogica, si
differenzia in quanto sarebbe arbitrariamente utilizzata in talune singole
fattispecie e non in altre. Di fatti è 'importante notare la differenza tra le
procedure interpretative basate su finzione , interpretazione estensiva e
analogia : si applica la fictio quando non è possibile applicare
l'interpretazione estensiva e l’analogia, entrambe inadeguate.
L’importanza della fictio iuris nel mondo del diritto è comunque oggi
seriamente contestata: il carattere artificiale che presenta nel suo apparire,
ha spinto molti autori verso l’idea che dovrebbero essere utilizzati
strumenti più tecnici, razionali e sinceri, come segno di un effettivo
progresso giuridico, senza correre così il rischio di trascinare chi se ne
serve, lungo una via piena d incertezze e di equivoci, di errori e
d’ingiustizie.
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CAPITLO I
DIRITTO E FINZIONI AGLI ALBORI DI ROMA
1. Ius e lex
a. La fictio in sacris
b. Passaggio dal sacro al laico: una finzione per superare il diritto
di giurare per il flamen dialis
2. L’editto del pretore
3. Processo e formule
4. Le finzioni pretorie
5. Le finzioni ex lege e giurisprudenziali
6
1 IUS E LEX
La tradizione romana andò consolidando nei secoli vari significati di ius
6
,
fra cui particolarmente risalente, quello di un comune ‘dover essere’,
vincolo per la comunità, ius proprium civitatis, e qualificato come ius civile
Romanorum, poiché parametro di condotta proprio dei cives Romani (o
anche secondo le Istituzioni di Giustiniano, ius Quiritium - dacché
‘Romani…a Quirino Quirites appellantur’,’i Romani sono chiamati Quiriti
da Quirino – Romolo’)
7
. È opinione generalmente accettata che durante i
primi tre secoli della storia di Roma, gran parte del diritto, in particolare
quello privato, sia stato costituito dai mores, ossia da costumi e da regole
non scritte e non conformi. I mores non sono espressamente menzionati da
Pomponio
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il quale riferisce che all’inizio della civitas, il popolo prese a
operare ‘sine lege certa, sine iure certo’ e che, introdotte poi alcune leges
9
,
queste furono abrogate in seguito alla cacciata dei re e di nuovo quindi il
popolo non poté in massa valersi che di ‘incerto iure et aliqua
6
Ius è il corrispondente latino di ‘diritto’. L’etimologia è incerta. Vero è che in un certo periodo la lex
poté apparire un settore del diritto distinto dal ius. Ma ciò non è sufficiente a farci asserire che diritto, a
seconda dei casi, si dicesse ius oppure lex. Queste espressioni corrispondono a diverse idee, che trovano
riscontro nella loro diversa radice, ma fu ben presto chiaro che anche quello creato da u na lex era ius, pur
costituendo una distinta pars iuris. I linguisti sono giunti a trovare una connessione tra ius (anticamente
ious) e parole dell’antico indiano e dell’avestico indicanti ‘salute’ o ‘purezza’ grazie all’osservanza di un
rito, con una fort e componente religiosa o magico - religiosa. Di qui per esempio allora un’antica
definizione dell’antico ius come ‘formula religiosa che ha valore di legge’. Il problema etimologico
rimane comunque aperto. Legge ha un senso giuridico e uno più ristretto e proprio. Giuridicamente vale
come diritto oggettivo, propriamente vale anche come norma o insieme di norme scritte, generali, astratte,
precostituite. Cfr. Dizionario giuridico romano, F. Del Giudice.
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Questa formula accompagnava solenni affermazioni di signoria familiare e dominicale ( vindicationes),
per lo più fatte dinanzi al re o al magistrato che amministrava giustizia. Quirites era la specifica qualifica
dei cittadini romani nella pienezza dei loro diritti. Ius Quiritum era dunque lo specifico diritto dei
Romani, fondato sui mores, rivelato dai pontefici, codificato o in qualche misura riformato dalle XII
Tavole. A rigore, esso non avrebbe dovuto comprendere il diritto proveniente da leges, ma non si può
presumere che il linguaggio giuridico del temp o fosse informato a un rigore assoluto. È dubbio inoltre se
fosse considerato ius Quiritum il diritto risultante dall’interpretatio . Occorre sempre ricordare in
proposito che ci mancano sostanzialmente fonti coeve e che il concetto, per quanto lo possiamo
conoscere, è sfumato. Ad ogni modo è probabile che nella prospettiva dei giuristi preclassici e classici, ius
Quiritum fosse il diritto antico e tradizionale, che ebbe il suo coronamento nelle XII Tavole. Ed è un fatto
che Pomponio presenta implicitamente l’interpretatio come il ponte di passaggio dal ius Quiritum al ius
civile. Il ius civile era anch’esso letteralmente il diritto proprio dei cittadini ( cives) romani, ma in senso
più moderno e suscettibile in prosieguo di tempo di una vasta gamma di significati. Cfr. Dizionario
giuridico romano, F. Del Giudice.
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‘Necessarium itaque nobis videtur ipsius iuris orginem atque processum demostrare. Et quidem initio
civitate nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere istituit: omniaque manu a regibus
gubernabantur’. (da Pomponio, Liber Singularis Enchiridii) –‘Sembra quindi necessario spiegare
l'origine e lo sviluppo del diritto romano. In verità nei primi giorni della nostra città il popolo ha iniziato a
vivere senza una legge o un diritto esplicito: tutte le cose sono state regolate in base alla volontà dei re’’.
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‘Leges Regiae’, quali norme consuetudinarie affermatesi attraverso l’amministrazione diretta della
giustizia da parte del re.
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consuetudine’
10
. Poiché però queste regole ( mores) per loro stessa natura
non erano attestate per iscritto e, tanto meno raccolte in e lenchi
riconosciuti, il loro contenuto e quindi il loro significato, la loro stessa
esistenza erano assolutamente incerti (il ius incertum di Pomponio). Così il
compito di rilevare un dato mos, indicandone nello stesso tempo il
contenuto e dandone la relativa interpretazione, spettò in modo del tutto
naturale a quelli che erano i portavoce ufficiali della volontà degli dei, ossia
ai collegi sacerdotali. All’inizio della repubblica (V sec. a.C.) i mores erano
ancora molto prevalenti, a prescindere dall’asserita abrogazione delle leges
regiae (Pomp. D. 1.2.2.3) e i poteri dei pontefici nel rivelarli e interpretarli
erano accresciuti per la rinnovata supremazia dell’aristocrazia gentilizia,
cui i pontefici appunto appartenevano. È facile capire che i plebei avessero
motivo di ritenere o di sospettare che tal esercizio avvenisse a vantaggio
dei patrizi e a danno loro. Così l’abolizione di questo pote re dei pontefici
attraverso la redazione di un corpo di norme scritte e precisamente
formulate divenne una rivendicazione avanzata dai plebei nella prima metà
del V sec. a.C.
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avendo come scopo, porre limite e argine al potere
patrizio. Al ius, custodito e interpretato dai patres, si tende a contrapporre
le leges, create dalla rivoluzione plebea o comunque espresse, in vari modi
dalla volontà popolare. In quest’ordine d’idee le norme delle XII Tavole,
approvate dal populus
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, furono considerate ‘fons omnis publici privatique
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Digesto di Giustiniano, 2.2.3
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I primi decenni della libera res publica sarebbero stati segnati da un’aspra contrapposizione tra due
distinte comunità facenti entrambe parte della civitas, ma con diversità di diritti e prerogative, quella dei
cd. Patricii, i quali si consideravano i diretti discendenti degli originari fondatori della città, con pieni
diritti civili e politici, e quella numericamente più estesa ma giuridicamente e politicamente subalterna,
dei cd. Plebeii. Questi ultimi contribuivano alla crescita e alla difesa della città -stato, ma non avevano
accesso alle magistrature, né al collegio pontificale e negli scambi economici e commerciali con gli
esponenti del patriziato non avevano alcuna garanzia di un’equa risoluzione delle controversie.
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Il tribuno della plebe Gaio Terenzilio Arsa , propose nel 462 a.C. la nomina di una commissione
composta da appositi magistrati con l'incarico di redigere un codice di leggi scritte per sopperire all'oralità
delle consuetudini ( mores) allora in vigore. Il Senato, dopo un'iniziale opposizione (la proposta fu
riformulata l'anno seguente dai cinque tribuni della plebe), votò nel 454 a.C. l'invio di una commissione
di tre membri nominati dai concilia plebis in Grecia, per studiare le leggi di Atene e delle altre città.
Nel 451 a.C. fu istituita una commissione di decemviri legibus scribundis che rimpiazzò le magistrature
ordinarie, sia patrizie che plebee, sospese in quell'anno. I membri della commissione furono scelti tra gli
ex-magistrati patrizi. Seguendo il testo liviano, furono nominati decemviri i tre della commissione inviata
ad Atene, in qualità di "esperti" e " Gli altri furono eletti per far numero" (Supplevere ceteri numerum).
Le Dodici Tavole (non sappiamo se di legno di quercia, d'avorio o di bronzo) vennero affisse nel foro nel
449 dai consoli L. Valerio e M. Orazio una volta restaurate le magistrature ordinarie, dove rimasero fino
al sacco ed all'incendio di Roma del 390 a.C. ad opera dei Galli. Cicerone narra che ancora ai suoi tempi
(I secolo a.C.) il testo delle Tavole veniva imparato a memoria dai bambini come una sorta di poema
d'obbligo (ut carmen necessarium), e Livio le definisce come “fonte di tutto il diritto pubblico e privato
[fons omnis publici privatique iuris]”. Sin dal I sec. a.C. molti lemmi decemvirali non si comprendevano