2
Oggi, l’importazione del vocabolo e del modello americano
di outlet ha, quindi, totalmente cambiato l’idea di spaccio,
dando vita a centri commerciali ultra-chic, villaggi dello
shopping “haut de gamme”, con tanto di negozi monomarca,
parcheggi, bar e zone chill out.
Obiettivo del lavoro è esaminare i trends in atto, sia su scala
nazionale che internazionale, e fornire un’analisi a partire dalla
genesi di questa nuova formula commerciale. Verranno,
inoltre, prese in considerazione le variabili di diversa natura
(livello del prezzo, qualità del prodotto, notorietà della marca,
localizzazione del centro, accessibilità alla struttura, ecc.) in
grado di condizionare, sia in senso positivo che negativo,
l’evoluzione del canale.
Il lavoro è costituito da quattro capitoli. Nel primo capitolo,
dopo una breve ricostruzione delle tendenze della distribuzione
italiana al dettaglio, si cerca di fare chiarezza sul termine
outlet, intorno al quale si riscontra tutt’oggi una certa
confusione linguistica e concettuale. Viene offerto, poi, un
percorso evolutivo del formato a partire dalla sua connotazione
originaria (lo spaccio aziendale), fino ad arrivare al factory
outlet center, evidenziandone le caratteristiche organizzative,
spaziali ed architettoniche e i limiti e l’opportunità che la
formula comporta per gli attori coinvolti (produttori e
consumatori). Infine, dopo un cenno al marketing
esperienziale, che costituisce una filosofia centrale nella
gestione di un factory outlet center, viene proposto un
confronto con gli shopping centers e gli off-price centers, al
fine di palesarne le differenze e le analogie.
Il secondo capitolo presenta un ritratto del mercato, con una
panoramica sul mercato americano, dove la formula è ormai
giunta a piena maturità. Vengono poi esaminati la situazione
europea e, più dettagliatamente, il mercato italiano, che
presenta ancora grandi potenzialità di espansione. Infine,
3
attraverso la descrizione di alcuni casi esemplari, viene
descritta la diffusione di questo modello commerciale anche
nel mondo del web.
Il terzo capitolo pone l’accento sulla sinergia che si viene a
creare tra queste grandi strutture commerciali e il territorio che
le ospita. Vengono descritte le dinamiche localizzative proprie
dei factory outlet centers, con particolare attenzione ai fattori
(micro e macro) determinanti ai fini di un’ubicazione ottimale.
L’analisi svolta dimostra, inoltre, come i centri abbiano
influito su molteplici aspetti della vita economica e sociale.
Il quarto capitolo è interamente dedicato all’analisi di
un’azienda leder a livello europeo nello sviluppo e gestione di
factory outlet centers, la McArthurGlen. Di questa viene
descritta, sia a livello nazionale che internazionale, la
posizione, analizzata la competitività, delineate le strategie
passate e presenti, evidenziate le performance, nonché
ipotizzati gli sviluppi futuri. Per quanto riguarda il mercato
italiano sono state approfondite, in particolare, le realtà già
operative sul territorio (Serravalle Scrivia e Castel Romano), lo
sviluppo a breve termine (Barberino di Mugello) e quello
pianificato per il prossimo futuro (Conselve, Napoli e Bari).
4
Capitolo 1 L’outlet
1.1 Il settore della grande distribuzione al dettaglio in
Italia: caratteristiche generali e preferenze localizzative
Negli ultimi anni la distribuzione commerciale italiana è
molto cambiata e le sue strategie oggi si aggrovigliano l’una
sull’altra.
Due sono gli elementi più rilevanti che riguardano le
tendenze attuali del settore: la globalizzazione delle imprese e
la moltiplicazione delle formule commerciali. Ma l’aspetto
forse più sorprendente, che contrasta con quanto sembra essere
l’opinione pubblica, è il fatto che, malgrado le recenti
operazioni concluse e quelle in atto nel settore della
distribuzione europea, questa ancora non presenti un elevato
grado di concentrazione.
L’incessante sviluppo fatto segnare dalle grandi tipologie
distributive dalla metà degli anni Settanta in avanti è stato
accompagnato da una spiccata tendenza alla specializzazione
nelle formule distributive e nei contenuti merceologici, che ha
moltiplicato le tipologie della offerta.
1
In effetti, il carattere complesso dell’offerta costituita dalle
imprese della grande distribuzione rende difficile una
categorizzazione: trattandosi di una mescolanza di servizi di
natura logistica e informativa molto eterogenei, che dà luogo a
punti vendita spesso molto diversi l’uno dall’altro in termini
1
Cfr. Brunetta G., Salone C., Commercio e territorio: un’alleanza
possibile? Il Factory Outlet Center di Serravalle Scrivia, Regione Piemonte
– Osservatorio regionale sul commercio, Torino, 2002, p. 9.
5
dimensionali e tecnici (self-service, vendita assistita), alcuni
autori preferiscono parlare di vendita assistita impropria.
2
In ogni caso, quale che sia la possibile definizione generale
di questo tipo di offerta commerciale fondata sulla grande
dimensione, la sua crescente fortuna può legittimamente farsi
risalire a fattori diversi ma complementari fra loro:
1. in primo luogo, il progressivo e radicale mutamento
verificatosi nelle abitudini dei consumatori, che
attribuiscono sempre maggiore rilevanza al fattore tempo
anche nell’effettuazione degli acquisti; ciò ha portato alla
concentrazione dei diversi profili di offerta commerciale
all’interno della medesima struttura edilizia (centro
commerciale integrato), fondata su economie di scala e di
varietà, o in sedi diverse ma collocate in stretta prossimità
tra loro, al fine di sfruttare esternalità localizzative di tipo
settoriale e intersettoriale (è il caso di molti retail parks
oggi diffusi nell’arco pedemontano settentrionale, spesso
ubicati alle porte di centri urbani).
3
Questo ha introdotto, nelle modalità d’acquisto, due
variabili determinanti: la prima è rappresentata dalla
riduzione della frequenza degli acquisti, che comporta una
diminuzione degli spostamenti e del tempo
complessivamente dedicato agli acquisti stessi; la seconda,
in certo modo speculare alla prima, riguarda la
concentrazione della spesa, con un aumento dell’importo
degli acquisti per singola visita;
4
2
Cfr. Frontini A. e Viganò M. , I centri commerciali al dettaglio in Italia:
evoluzione e prospettive di sviluppo, Commercio, n. 63/1998, p. 20.
3
Cfr. Lunzani A. e Tamini L. Tipologie commerciali e revisioni del piano
urbanistico, Urbanistica, n. 114/2000, p. 87-88.
4
Cfr. Bullado F., La grande distribuzione commerciale ridisegna il
territorio. Una proposta metodologica di analisi, tesi di dottorato,
Università di Pisa, 2000.
6
2. in secondo luogo, l’avanzare del processo di
modernizzazione della rete distributiva al dettaglio,
funzionale alle strategie d’impresa dei gruppi operanti nel
settore commerciale;
3. in terzo luogo, il “virtuoso” intreccio tra le logiche di
sviluppo settoriale sopra ricordate e l’ingresso nel settore di
operatori provenienti dai mercati immobiliari d’impresa
(es., Gruppo Fingen S.p.a.) e dal settore creditizio-
finanziario (es., Morley Fund Management e BP
Investment Management Limited), sempre più interessati a
forme di diversificazione delle attività d’impresa e degli
investimenti.
Nel corso dei primi anni Settanta, l’avvento delle nuove
formule distributive fondate sulla grande dimensione è, da una
parte, rappresentato dalla proliferazione di minimercati e
superettes
5
e, dall’altra, dalla comparsa di un numero non
elevato di centri di grandi dimensioni, fenomeno confinato in
alcune regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-
Romagna). Nella prima tipologia l’assortimento della merce è
comunque di tipo alimentare, entro strutture di vendita di
ridotte dimensioni (tra i 200 e i 400 mq). La diffusione di
questi punti vendita è piuttosto rapida, poiché avviene per
innovazione incrementale fondata sull’ammodernamento di
punti vendita esistenti. La loro caratteristica principale è quella
di offrire un servizio di prossimità simile a quello dei negozi
tradizionali, che tende ad ubicarsi in prevalenza nelle corone
urbane dense, frontiere dell’urbanizzazione residenziale. Per
converso, i nuovi centri commerciali presentano una superficie
media ampia (con punte degli 11.800 mq nel 1975, il valore
massimo sino ad oggi mai raggiunto) e un’identità
5
Non esiste una definizione ufficiale di questo tipo di esercizio. Sono
considerati superettes esercizi alimentari con superficie compresa fra i 200 e
i 400 mq e con prevalenza del libero esercizio.
7
commerciale piuttosto netta, costituita da un grande
ipermercato con funzioni di anchor e da una galleria di piccole
dimensioni.
In una seconda fase, il cui inizio è collocabile intorno alla
seconda metà degli anni Settanta, si osserva un dualismo
crescente tra l’espansione della superficie media delle strutture
di vendita esistenti, e la diminuzione della superficie media dei
centri commerciali costruiti ex novo, con la progressiva
riduzione numerica delle piccole strutture di vendita.
L’esodo verso le aree periferiche delle regioni urbane e
metropolitane si accentua, ma si tratta comunque di
localizzazione prossime al core e alle concentrazioni
residenziali, in vicinanza di incroci di arterie di grande
percorrenza, caselli autostradali e centri attrattori, come le
località turistiche.
La fine degli anni Ottanta costituisce lo spartiacque tra
quello che potremmo definire un periodo di convivenza tra
fenomeni sostanzialmente “incrementali” e lo sviluppo di
centri commerciali di nuova fondazione. Questi ultimi
proliferano nelle aree a maggior concentrazione di domanda, le
aree metropolitane, ma anche le città medie dei reticoli
urbanizzati presenti nelle regioni settentrionali. La formula
subisce un processo di razionalizzazione, con una graduale
differenziazione dell’offerta, indotta anche da forme di
concorrenza intra-type e inter-type sempre più accentuate:
piccoli centri commerciali di prossimità, grandi strutture
polifunzionali extra-urbane (o peri-urbane), centri di medie
dimensioni, generalisti o specializzati.
6
In pochi anni, quindi, accanto al tradizionale supermercato e
al grande magazzino, si sono diffuse, dopo essere state
sperimentate nei Paesi di origine, altre formule come
6
Cfr. Frontini A. e Viganò M., op. cit., p. 29.
8
l’ipermercato di origine francese, il superstore
7
di origine
anglosassone, l’hard e il soft discount
8
di provenienza tedesca,
il warehouse store
9
, il wholesale club
10
, il convenience store
11
e il category killer
12
, tutti di origine americana.
L’innovazione della distribuzione negli ultimi tempi è stata
anche particolarmente vivace e si nota anche che diminuiscono
i tempi di diffusione di una nuova formula – dal Paese in cui è
stata sperimentata agli altri Paesi – proprio grazie al processo
di internazionalizzazione delle imprese.
L’osservazione di quanto avviene al di fuori dei nostri
confini è perciò sempre più interessante, dal momento che
fornisce indicazioni e anticipazioni su quanto potrebbe
accadere da noi in un futuro anche prossimo.
7
I superstores sono dettaglianti che competono offrendo un ricco
assortimento di prodotti a prezzi inferiori.
8
I grandi magazzini discount, con superfici che oscillano tra 8.000 e 13.000
metri quadri (una nuova generazioni di supercentri di questa categoria
occupa da 10.000 a 21.000 metri quadrati), offrono un’ampia scelta di
prodotti, compresi ricambi di auto mobili e servizi, casalinghi, mobili,
abbigliamento, cosmetici. In questi esercizi commerciali non si trovano
griffe, ma sottomarche, cioè riproduzioni delle grandi firme che talvolta
sembrano simili all’originale e che costano molto meno. Di solito sono
prodotti di bassa qualità.
9
I warehouse stores, da 10.000 a 17.000 metri quadrati, offrono una varietà
di prodotti, in grosse quantità e confezioni, a prezzi all’ingrosso. Hanno un
numero limitato di prodotti (5.000 o meno).
10
Il wholehouse club è un discount per esercizi più piccoli, in cui i membri
del club ricevono sconti sull’acquisto di grosse partite di merci.
11
I convenience store sono dettaglianti i cui vantaggi per il consumatore
risiedono nella posizione, nella facilità di parcheggio e nella rapidità di
accesso e di uscita. Tali negozi offrono prodotti che i clienti sono soliti
acquistare velocemente, come latte e bibite, e praticano ricarichi di prezzo
maggiori dovuti alla comodità d’acquisto.
12
I category killers vanno da 2.000 a 12.000 metri quadrati, offrono una
vasta scelta di prodotti e prezzi bassi in una particolare categoria.
9
La differenziazione della formula distributiva è una strada
che può essere perseguita per competere con gli altri retailers
concorrenti. Attraverso questa operazione si ha una nuova
combinazione dei diversi fattori: capitale, lavoro e
organizzazione.
Infine vi è ancora da notare che l’internazionalizzazione
delle imprese e il proliferare delle formule distributive sono tra
loro strettamente collegate. Non è raro, infatti, il caso di
imprese che nel loro Paese hanno lanciato una formula
distributiva con successo decidano di esportarla anche in altri
contesti. Esportazione di formule innovative e saturazione dei
mercati di origine sono stati due motivi di esportazione
all’estero.
1.2 Outlet: definizione e logistica
In questo panorama, sempre mutevole e fortemente
dinamico, c’è un nuovo ingresso: si tratta degli outlets, una
tipologia distributiva che si sta ritagliando uno spazio
importante nel panorama europeo e sembra prendere piede in
misura decisamente interessante in molti Paesi avanzati.
Gli outlets sono il simbolo di una significativa novità degli
anni Novanta: l’accentuata diversificazione delle formule
distributive in tutti i comparti.
Per il livello di sviluppo raggiunto, il canale è diventato
oggetto di analisi periodiche, così come avviene per le altre
forme del dettaglio moderno.
Il marchio outlet, nato negli Stati Uniti per identificare lo
spazio che offre i prodotti direttamente dal produttore al
consumatore, anche in Italia ormai è sinonimo per molti del
10
miglior rapporto tra qualità e prezzo disponibile sul mercato.
Questa nuova filosofia distributiva ha impatti tutt’altro che
secondari sul canale della grande distribuzione.
Intorno al termine “outlet” c’è un po’ di confusione
linguistica, ma in realtà il concetto è molto semplice. Outlet è
un termine anglosassone, la cui traduzione letterale in italiano è
“sbocco, uscita, punto di vendita”(out = fuori, uscita; let =
mandare, far uscire
)
.
13
Il termine, tra l’altro, è usato anche e soprattutto per definire
gli spacci aziendali ed ha preso piede in Italia proprio come
sinonimo più nobile di spaccio, che probabilmente evoca
scenari meno raffinati.
“Outlet” viene sempre più spesso associato a “factory” che
significa “azienda”. Letteralmente “factory outlet” vuol dire
“spaccio aziendale”: un punto di vendita al dettaglio gestito
direttamente da imprese produttrici o da grandi distributori, che
integrano la funzione produttiva (da cui l’aggettivo factory) e
la funzione di vendita dei prodotti di marca a prezzi scontati.
Outlet come spaccio quindi. Ma la parola inglese, si sa, fa chic;
soprattutto quando si parla di moda supergriffata venduta a
prezzi più o meno stracciati.
Comprare il massimo e spendere il minimo, fare acquisti
senza rinunciare alla qualità, ma prestando attenzione al
budget: questa è la filosofia di chi si rivolge agli outlets. I
prodotti sono venduti direttamente a prezzo di fabbrica o con
sconti oltre il 50%. Tale risparmio è consentito dal fatto che le
aziende mettono in vendita, in questi spacci, i campionari, le
produzioni delle stagioni precedenti, i surplus produttivi, i
piccoli fallati, le ultime taglie e tutto quello che a causa di
difetti a volte impercettibili non può essere venduto in canali di
vendita consueti (i cosiddetti articoli primetta).
13
Cfr. Petrucco F., Outlet marketing: marketing della
distribuzione,Vallecchi. Firenze,1976, p. 3.
11
Il mix di prodotti commercializzati è concentrato soprattutto
sui beni di consumo personale.
Inizialmente il fenomeno era circoscritto all’abbigliamento,
che ancora oggi copre il 70% della merce in vendita; la restante
parte riguarda altre categorie no food quali design,
accessoristica, tecnologia, profumeria, gioielleria, ecc.
Oltre all’attenzione ai prezzi scontati, il comportamento
d’acquisto del consumatore è anche segnato dall’idea di
shopping come esperienza. Andare a caccia di affari, del
miglior prezzo dei prodotti di ragionevole qualità è più che mai
una parte intrinseca della shopping experience.
14
Ma gli outlets sono soprattutto una forma di
democratizzazione delle marche, sono le griffe per il popolo, le
grandi firme a portata di tutti. Sempre di più, sempre più
invitanti e meglio distribuiti sul territorio nazionale,
rappresentano l’ultima frontiera per i fashion victims.
1.3 Dallo spaccio aziendale al factory outlet center :
evoluzione del formato attraverso quattro periodi
La storia degli outlet può essere ripercorsa facendo
riferimento a quattro periodi:
- pionieristico (1900-1979): gli outlets erano costituiti da
piccoli negozi localizzati direttamente nelle fabbriche e
distribuiti solo in pochissime città;
- first generation: (anni ‘80) nascita del “village concept”:
14
Il trend di consumo in cui queste realtà si inquadrano è quello dello
“smart shopping” (“shopping alla moda”), ovvero della caccia all’affare
(sempre presente, ma in crescita durante i periodi di crisi) ed il target
privilegiato quello dei fanatici delle marche.
12
- industry boom (anni ‘90): nascita dei primi “village style”,
più curati nei dettagli e nella qualità dei servizi;
- maturità (oggi): gli outlets sono spazi in cui si va per fare
acquisti di qualità a prezzi contenuti, ma anche per
incontrare altre persone, per divertirsi, per usufruire di
svariati servizi.
15
Tabella 1. Evoluzioni tipologiche
SOGLIA
DIMENSIONALE
FORMULA
DISTRIBUTIVA
SOGLIA TEMPORALE
Da 50 a 1.500 mq. Spacci aziendali
(spacci aziendali multipli)
(1970-80)
Da 150 a 3.000 mq. Stocchisti multibrand
(Outlet center stores)
(1980-90)
Fino a 6.000 mq. Outlet center
(Outlet leisure e turist
park)
(1990-2000)
Fonte: NRJ Unitrade Srl, ottobre 1999.
I factory outlet centers (Foc) costituiscono una sorta di
evoluzione tipologica dei tradizionali e bistrattati spacci
aziendali (factory outlet stores): una formula commerciale
antica, nata con finalità sociali e assistenziali, che ha saputo
rinnovarsi, trasformandosi in outlet, in negozio, o in laboratorio
di marketing.
16
15
Cfr. Convegno Polimoda, Gli outlet nel settore moda: evoluzione
industriale e strategia per la crescita globale, Firenze, 2001.
16
Cfr., Brunetta G., Salone C., op. cit., p. 12.
13
Non si può, dunque, definire come nuovo il fenomeno dei
punti di vendita a prezzi scontati del produttore, dal momento
che gli spacci aziendali, anche in Italia, sono presenti in molti
settori e da svariati anni.
Tradizionalmente, questi ultimi sorgono nelle immediate
vicinanze dei luoghi di produzione, occupano un edificio
aziendale separato, il factory shop, e sono particolarmente
diffusi per i tessuti di lana, la biancheria e l’abbigliamento.
L’azienda produttrice di solito è proprietaria di questa struttura
self-service che vende soprattutto rimanenze, articoli primetta e
beni resi.
Secondo Moda Industria, l’associazione italiana che
raggruppa le industrie di abbigliamento, maglierie e calze, nel
1996, nel nostro Paese, le vendite negli spacci aziendali hanno
raggiunto il 5% in quantità e il 3% in termini di consumi totali,
per un ammontare di oltre 1.500 miliardi di lire.
17
La maggior
parte di essi è localizzata nelle regioni settentrionali,
soprattutto nelle aree di Milano, Novara, Biella e Firenze,
lungo le principali arterie di comunicazione, all’interno delle
concentrazioni industriali e, in molti casi, di distretti industriali
specializzati nella produzione di articoli tessili e di
abbigliamento.
Gli spacci aziendali hanno vissuto almeno due fasi, la prima
riservata ai dipendenti dell’azienda
18
, la seconda aperta al
pubblico, anche se molto spesso selezionato da un sistema di
permessi e tessere, per non incorrere nei rigori della
legislazione commerciale o nelle ire della rete di vendita
tradizionale. L’accesso ad alcuni di questi spacci è ancora oggi
17
Cfr., Canalia G., L’impatto economico-territoriale di un centro
commerciale tematico: il caso del FOC di Serravalle Scrivia, Torino, 2001.
18
Risale alla metà dell’Ottocento l’idea, tutta americana, di alcune aziende,
di mettere in vendita ai propri dipendenti rimanenze di magazzino e/o
prodotti con qualche piccolo difetto di fabbrica.
14
talmente ambito da aver creato un vero e proprio mercato delle
raccomandazioni per poter entrare, ma la tendenza è
chiaramente quella di aprire al pubblico in modo ufficiale.
Lo spaccio aziendale, quindi, era un tempo destinato
esclusivamente al lavoratore di quella data impresa, dove si
potevano acquistare, a un prezzo di favore, beni di tipologie
diverse, a seconda del core business della società: dai generi
alimentari ai vestiti, dai prodotti per toilette ai detersivi. Poi il
mondo dei consumi è cambiato, e il vecchio spaccio aziendale
ha mutuato una formula tipicamente americana, dove collezioni
e griffe e altro, pur sempre con sconti interessanti, sono venduti
al pubblico.
Gli imprenditori hanno dapprima assecondato una domanda
via via crescente da parte dei dipendenti, sottraendo uno spazio
alla produzione per dedicarlo alla vendita, a prezzi ridotti
rispetto a quelli di mercato.
Si è trattato di un investimento in prospettiva, in quanto in
breve tempo gli acquisti di questi clienti hanno coperto le
esigenze di una famiglia allargata composta da parenti, amici e
conoscenti; parallelamente all’allargamento della cerchia dei
destinatari si è assistito all’ampliamento dell’assortimento dello
spaccio, che non si limitava più a contenere esclusivamente
beni prodotti dall’azienda, ma anche beni da essa
commercializzati.
Per il produttore era nato quindi un vero canale in più, non
semplicemente aggiuntivo, ma complementare rispetto ai
canali distributivi canonici.
Contemporaneamente all’allargamento della clientela e della
gamma dei prodotti offerti si sono modificate anche le
caratteristiche di questi ultimi: se all’inizio si trattava in
prevalenza di prodotti di seconda scelta, ci si è andati
orientando su prodotti di fine serie, di fine stagione o di
sovrastock, ma di ottima qualità.