Partendo dalla premessa che l’antropologia culturale oggi mantiene colpevolmente una
visione limitata di quelli che sono gli scenari e i modelli dell’evoluzione umana, ho
cercato di far vedere come al contrario potrebbe essere utile per l’antropologia prendere
a prestito alcuni concetti e rappresentazioni elaborati in ambito evoluzionistico.
Ci tengo a precisare che non propongo di studiare la cultura da un punto di vista
biologico: questa operazione sarebbe semplicemente inaccettabile. Quello che intendo
sostenere è invece l’adozione di una prospettiva evoluzionistica anche nel campo del
cambiamento e della diversità culturale, sfruttando per analogia le argomentazioni
prodotte a proposito del cambiamento e della diversità biologica.
Così, nel primo capitolo, ho cercato di mostrare come l’evoluzione potrebbe
rappresentare anche per le scienze sociali quello che è già per le scienze della vita: una
cornice di riferimento all’interno della quale pensare i vari temi, mostrando a questo
fine alcuni elementi che accomunano l’approccio antropologico e l’approccio
evoluzionista.
Nel secondo capitolo ho introdotto la fondamentale distinzione fra i diversi modi di
concepire l’‘evoluzione’. Bisogna infatti tenere presente che quando parliamo di
‘evoluzione’ ci possiamo riferire a: un dato di fatto della natura, la teoria scientifica che
spiega questo dato di fatto, che presento nel terzo capitolo, e da ultimo una filosofia
sociale che pretende di fondarsi sull’ordinamento naturale spiegato dalla teoria
scientifica. Fissato questo punto, ho cercato di evidenziare come l’antropologia
evoluzionista abbia fatto proprio un concetto di evoluzione già lontano dalla sua
pertinenza scientifica, adottando piuttosto una filosofia sociale progressionista che poco
aveva a che fare con l’evoluzione in quanto processo naturale. La proposta è così quella
di abbandonare una visione superata di ‘evoluzione’ per rivolgersi a quello che è oggi
l’‘evoluzione’ in termini scientifici.
Nel quarto capitolo ho parlato invece di evoluzione culturale, presentando e criticando
tre differenti approcci proposti per rendere conto del cambiamento culturale partendo da
un’impostazione evoluzionista. La diversità delle proposte trattate deve essere
considerata come un chiaro esempio di come in realtà non esista un unico modo di
intendere l’evoluzione ma che, al contrario, vi sono diversi approcci epistemologici che
guidano i modelli presentati.
6
Nel quinto capitolo ho cercato di evidenziare somiglianze, differenze e possibili
contrasti fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, per mostrare come la loro
coevoluzione ha caratterizzato la storia della nostra specie e quella delle specie nostre
antenate, argomento approfondito nel sesto capitolo.
Per concludere ho voluto gettare uno sguardo su un tema quanto mai caro ad
antropologi ed evoluzionisti: la diversità. Culturale da una parte, biologica dall’altra,
credo che in generale la diversità rappresenti uno dei temi sui quali la collaborazione tra
i due campi disciplinari si potrebbe rivelare particolarmente feconda per lavori futuri.
7
8
1. Evoluzione come cornice unitaria
Il campo della biologia evoluzionistica si differenzia in una serie di sottodiscipline:
genetica di popolazioni, genetica molecolare, paleobiologia, sistematica, biogeografia,
ecologia, paleontologia, etologia. Il filo conduttore che lega i diversi approcci, le diverse
metodologie e le differenti finalità è la spiegazione evoluzionistica.
1
Oggi «la fecondità
della teoria darwiniana è così grande da riunire, a un secolo e mezzo dalla sua
enunciazione, competenze disciplinari diversissime».
2
La teoria dell’evoluzione è
diventata «una sorta di cornice di riferimento unitaria, un ‘collante’ molto efficace per
riunire in un quadro esplicativo affidabile fenomeni molto diversi fra loro come
l’estinzione dei dinosauri e la resistenza dei pesticidi».
3
La grandezza della teoria dell’evoluzione sta proprio nella sua capacità di rendere conto
in maniera soddisfacente di fenomeni del mondo vivente apparentemente non collegati
tra di loro. La teoria dell’evoluzione ci consente di ricostruire lo scenario generale
all’interno del quale acquistano significato tutte le singole spiegazioni disciplinari. Da
un lato la teoria generale si alimenta dei risultati delle singole discipline, dall’altro
fornisce loro concetti e metodi da poter applicare ai casi particolari.
Io credo si possa realizzare un’operazione analoga anche nelle scienze sociali. Queste
ultime infatti «non hanno un quadro generale sintetico [general synthesising framework]
di questo tipo, e la maggior parte di discipline come l’antropologia culturale,
l’archeologia, la psicologia, l’economia, la sociologia e la storia rimangono
relativamente isolate e insulari, sia le une dalle altre, sia dalle scienze biologiche e
fisiche».
4
Credo potrebbe dare buoni frutti l’adozione di una cornice concettuale
1
«Noi sappiamo che l’evoluzione dev’essere alla base dell’ordine della vita perché nessuna altra
spiegazione può coordinare i dati disparati dell’embriologia, della biogeografia, della documentazione
fossile, degli organi vestigiali, dei rapporti tassonomici e via dicendo» (Gould, 1989, p. 290).
2
Pievani, 2006b, p. 8.
3
Ibidem, p. 9.
4
Mesoudi et al., 2006, p. 330.
9
evoluzionistica anche nelle scienze sociali. In primo luogo si potrebbe così «evidenziare
come queste discipline studino, in realtà, aspetti complementari degli stessi problemi» e,
in secondo luogo, «sottolineare come approcci multipli e multidisciplinari a questi
problemi siano non solo possibili ma necessari per una loro completa spiegazione».
5
Inoltre, un quadro di riferimento evoluzionista consentirebbe di utilizzare, con i dovuti
accorgimenti, una serie di metodi e modelli già adoperati nelle scienze biologiche.
6
Il metodo delle scienze sociali – soprattutto di quelle che seguono un’impostazione
storica – predilige in linea di massima una spiegazione di tipo narrativo, valida per il
caso specifico e con una scarsa attitudine generalizzatrice.
7
Seguendo Robert Boyd e
Peter J. Richerson, intendiamo i modelli
8
e gli schemi esplicativi semplici non come
5
Ibidem.
6
Scrive Luigi Cavalli Sforza (2007, pp. 59-60): «Devo ammettere che la teoria dell’evoluzione culturale
non ha riscosso tanto successo quanto l’introduzione della metodologia degli alberi evolutivi, o delle
mappe di componenti principali, o della diffusione demica dell’agricoltura. Non abbiamo neanche
incontrato una vera opposizione: semplicemente siamo stati ignorati, almeno dagli antropologi; credo in
ragione dell’impronta matematica che abbiamo voluto dare alla teoria stessa». Si potrebbe a ragione
precisare che «questa reazione negativa è tipicamente superficiale, ma non è insensata. È sostenuta, in
parte, dallo spiacevole ricordo di programmi ormai falliti: incursioni ingenue e male informate dei biologi
nelle selve della complessità culturale» (Dennett, 2006, p. 77).
7
Richerson, Boyd, 2005, p. 130. Per marcare il concetto, i due autori aggiungono poco sotto: «se [i
biologi] seguissero la prassi di molti storici e antropologi, rinuncerebbero al concetto di ‘selezione
naturale’ e parlerebbero semplicemente degli eventi concreti nella vita di particolari organismi vissuti in
luoghi e periodi specifici che hanno fatto sì che alcuni geni si diffondessero e altri diminuissero» (p. 131).
8
Ugo Fabietti (1999) dedica un capitolo all’analisi della definizione, l’utilizzo e lo statuto dei modelli
all’interno dell’antropologia. «In antropologia il termine modello serve a designare tanto uno strumento
quanto un oggetto di indagine. Infatti il termine modello non designa solo il frutto di un lavoro teorico
dell’antropologo: sono detti ‘modelli’ anche 1) le enunciazioni dei ‘nativi’ concernenti una serie di
comportamenti pratici o ideali ritenuti dai nativi stessi come ‘normali’ (o anormali) della propria cultura o
società, e 2) i loro comportamenti effettivi, i quali possono avere però un diverso riscontro» (p. 159).
Quando si parla di modelli «ci si riferisce tanto a delle costruzioni operate dagli antropologi quanto a
delle costruzioni operate dai ‘nativi’» (p. 161). In antropologia, a differenza di altre discipline
scientifiche, ci si trova di fronte a ‘oggetti di studio’ che sono dotati di una loro soggettività. Vediamo
uomini che studiano altri uomini e i modelli «in molti casi sono il frutto di una produzione congiunta di
10
leggi, ma come «strumenti da utilizzare o meno a seconda della situazione. I modelli
utili sono come gli strumenti utili: si sa che per un certo scopo funzionano
ragionevolmente bene».
9
Bisogna quindi prestare particolare attenzione a non
confondere questi modelli semplificati con la realtà: «i modelli semplici, volutamente
irrealistici, e gli esperimenti rigorosamente controllati hanno un grande valore euristico,
poiché colgono piccoli pezzi trattabili di realismo. Li usiamo per addestrare le nostre
intuizioni».
10
Non pretendono di spiegare la realtà, ma sono utili per cogliere alcune
dinamiche che si trovano all’interno di processi più ampi senza doversi arrendere di
fronte alla complessità dei problemi che si intende affrontare.
Utilizzare modelli semplificati produce tre importanti benefici.
11
Per prima cosa
consente di affrontare un problema appoggiandosi al lavoro di quanti ci hanno
preceduto sfruttando i loro risultati semplificati in modelli. In secondo luogo «i modelli
semplici offrono isole di chiarezza concettuale nel mare di complessità e diversità
altrimenti paralizzante». Infine, «usando strumenti concettuali standardizzati abbiamo
più opportunità di scoprire generalizzazioni utili nonostante la complessità e la diversità
del comportamento umano».
12
L’intento non è quello di utilizzare metodi propri di una disciplina e applicarli
direttamente ad un'altra. Non è possibile adoperare le tecniche della genetica molecolare
per studiare il cambiamento delle parole nel tempo. È però possibile prendere a prestito
un particolare modus operandi, selezionando concetti e modelli che possono servire per
costruire analogie fruttuose. Insomma, «stiamo esortando i ricercatori delle scienze
sociali a cambiare modo di operare, integrando l’usuale cassetta degli attrezzi con idee
importate dalla biologia».
13
entrambi» (p. 161). Si veda inoltre la classica distinzione proposta da Clifford Geertz tra ‘modelli di’ e
‘modelli per’ (Geertz, 1973, p. 118).
9
Richerson, Boyd, 2005, pp. 131-132.
10
Ibidem, p. 136.
11
Ib., p. 132-133.
12
Ib.,
13
Ib., p. 133. Sono d’accordo con Daniel Dennett (2006, p. 78) quando sostiene che «è semplicemente
imperdonabile che gli studiosi di queste materie [antropologia, sociologia, psicologia, storia e tutte le
11
Si tratta di un’apertura epistemologica verso strumenti che si potrebbero rivelare utili ai
fini della ricerca. Da ciò deriva l’importanza di adottare una prospettiva inter-poli-trans-
disciplinare, secondo la terminologia di Edgar Morin.
14
La specializzazione disciplinare
ha permesso di raggiungere risultati eccezionali, ma questa logica compartimentata non
consente di vedere i problemi che vanno oltre le discipline.
15
È necessario quindi
operare una rottura degli steccati che dividono queste ultime: «o attraverso la
circolazione dei concetti e degli schemi cognitivi o attraverso sconfinamenti e
interferenze o attraverso complessificazioni di discipline in campi policompetenti o
attraverso l’emergenza di nuovi schemi cognitivi e di nuove ipotesi esplicative o infine
attraverso la costituzione di concezioni organizzatrici che permettono di articolare i
domini disciplinari in un sistema teorico comune».
16
Soprattutto nello studio dell’evoluzione, dove le prove sperimentali e le osservazioni
dirette sono per forza di cose limitate, è importante adottare una prospettiva inter-poli-
trans-disciplinare. In mancanza di conferme sperimentali delle proprie ipotesi è
possibile ovviare a queste difficoltà mediante «lo studio parallelo di taluni fenomeni
attraverso discipline diverse».
17
La convinzione di fondo è che «le informazioni
derivanti da discipline differenti possono fungere da conferma indipendente, o da prova
supplementare di un’ipotesi storica».
18
Si tratta di adottare quello che Gregory Bateson chiama il ‘metodo del confronto doppio
o multiplo’,
19
al quale dedica un intero capitolo del suo Mente e natura. La domanda
dalla quale parte l’antropologo inglese è la seguente: «Che sovrappiù o incremento di
conoscenza ne viene dal combinare informazioni derivanti da due o più sorgenti?».
20
scienze umane in generale] lascino che la chiusura disciplinare e il timore del cosiddetto ‘imperialismo
scientifico’ creino una cortina di ferro ideologica che potrebbe nascondere alla loro vista importanti
vincoli e opportunità sottostanti».
14
Morin, 1999.
15
Cavalli Sforza, 1996; 2004; 2007; Morin, 1999.
16
Morin,1999, p. 120.
17
Cavalli Sforza, 2007, p. 42.
18
Ibidem 1996, p. 59.
19
Bateson, 1984, p. 120.
20
Ibidem, p. 96.
12
Bateson presenta alcuni casi in cui dalla combinazione di informazioni provenienti da
fonti diverse si ottengono informazioni nuove.
21
È importante sottolineare che le nuove
informazioni non sono semplicemente la somma di quelle già conosciute, ma sono
«informazioni di tipo logico diverso». Se prendiamo ad esempio il caso della visione
binoculare, ci accorgiamo che il confronto tra l’immagine fornita da una retina e quella
fornita dall’altra genera due vantaggi: «l’osservatore è in grado di migliorare la
risoluzione ai bordi e i contrasti ed è meglio in grado di leggere quando i caratteri sono
piccoli o l’illuminazione fioca. E, ciò che più importa, viene prodotta informazione sulla
profondità».
22
La nuova informazione è qualitativamente diversa dalle precedenti e
senza una loro combinazione non sarebbe stato possibile conoscerla. Dal confronto tra
più discipline abbiamo quindi tutto da guadagnare, in termini di aumento quantitativo e
qualitativo di conoscenza. Il problema è che questa operazione richiede di riuscire a
pensare, come amava dire Bateson, ‘in una prospettiva più ampia’, riuscire cioè ad
andare oltre le compartimentazioni disciplinari.
In questo senso uno spunto interessante potrebbe essere dato dalla combinazione di
modelli matematici semplici con spiegazioni di tipo storico. I modelli matematici
consentirebbero una relativa semplificazione del problema affrontato, mentre la
spiegazione storica garantirebbe l’attenzione al contesto e allo svolgimento contingente
degli eventi. Così, «non occorre scegliere tra semplici modelli astratti e ricche
spiegazioni storiche – questi modelli di spiegazione sono complementari, non sono in
competizione».
23
Un approccio di tipo storico resta imprescindibile. Quello che siamo oggi è il frutto di
storie passate, nasce dalla fine di storie e dall’origine di nuove storie.
24
Se è vero che «è
impossibile capire la situazione degli organismi viventi senza tener conto della loro
21
Visione binoculare, sommazione sinaptica, linguaggi sinonimi dell’algebra e della geometria. Questi
sono alcuni degli esempi che Bateson porta a dimostrazione del fatto che la combinazione di informazioni
genera altre informazioni di tipo nuovo (Ib., cap. 3).
22
Ib., p. 98.
23
Richerson, Boyd, 2005, p. 130.
24
Bocchi, Ceruti, 1993.
13
storia»,
25
a maggior ragione sarà necessario nello studio dell’uomo tenere conto della
sua storia passata. Un’opera mirabile in questo senso è Armi, acciaio e malattie. Breve
storia del mondo negli ultimi tredicimila anni del fisiologo americano Jared Diamond,
un libro nel quale l’autore mostra molto bene come la pretesa superiorità intrinseca
dell’uomo bianco occidentale vada in realtà letta come il risultato di una serie di
condizioni e di eventi contingenti, interpretati a posteriori in maniera parziale e
strumentale.
Con Luigi Cavalli Sforza potremmo sostenere che
la parola ‘evoluzione’ sia molto affine a ‘storia’. Siamo in molti a essere
convinti che la storia, e quindi l’evoluzione, siano la chiave per capire il
presente. L’evoluzione è anche meglio della storia, essendo una teoria ben
collaudata in un numero di discipline sempre crescente.
26
Un approccio storico deve fare i conti con «il potere causale dei singoli eventi»,
27
deve
tener presente che il risultato finale «è dipendente, o contingente, da tutto ciò che è
venuto prima».
28
Rispetto alle spiegazioni matematiche e fisiche, le spiegazioni storiche hanno una natura
diversa ma non incompatibile, non si basano sulla predicibilità, sull’osservazione
sperimentale e sull’invarianza. Le spiegazioni storiche sono possibili solo a posteriori,
sono ricostruzioni di eventi passati fortemente contingenti. «Le scienze storiche usano
un modo di spiegazione diverso, radicato nella ricchezza comparativa ed empirica dei
nostri dati. Noi non possiamo vedere direttamente un evento del passato, ma la scienza
si fonda di solito sull’inferenza, non su un’osservazione nuda e cruda».
29
1.1 Evoluzione e antropologia
In antropologia si guarda con diffidenza all’evoluzione per motivi legati alla storia della
25
Lewontin, 1998, p. 79.
26
Cavalli Sforza, 2004, p. 43.
27
Gould, 1989, p. 292.
28
Ibidem, p. 291.
29
Ib., p. 286.
14