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La prima parte, che ho scelto di intitolare Sneakers, da scarpe da
tennis a filosofia di vita, servirà a mettere in evidenza
l’importanza di una ricerca nel settore delle scarpe sportive, in
funzione dei fattori psicologici e sociali e in un quadro globale,
quello dell’abbigliamento. Sarà tracciato un percorso storico che,
partendo dalle sue radici, arrivando fino ai giorni nostri,
dimostrerà l’evoluzione del concetto relativo alle sneakers.
Questo percorso spiegherà come si è modificata la
considerazione delle scarpe da tennis rispetto al passato, che le ha
viste tramutarsi da “compagne di gioco” a “compagne di vita”: le
sneakers sono protagoniste di oggi, veri oggetti di culto e
filosofia di vita.
In questa sede, saranno analizzati soprattutto i diversi fenomeni
socio-culturali che hanno portato a questo cambiamento: dal bon
ton intelligente alla neo informalità a tutti i costi.
Non mancherà a questo proposito un’analisi dei comportamenti
del consumatore in questo ambito.
Questa prima parte, da come si può dedurre, è guidata dal tema
del linguaggio: il linguaggio della moda, del consumatore e
infine delle aziende produttrici delle sneakers.
La seconda parte ci proietta al centro dell’argomento principale
che è anche lo scopo di questa ricerca. Essa è dedicata alla
comunicazione delle aziende di questo settore e a tal proposito
s’intitola: Sneakers e pubblicità.
Questa parte è fondamentale nel far luce sul ruolo determinante
della pubblicità per l’espandersi dello sportswear, che si traduce
nell’utilizzo di capi sportivi in situazioni extrasportive.
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Per essere più chiara ho analizzato tre cases history di tre grandi
multinazionali: Nike, Adidas, Reebok. La scelta non è stata
casuale, ma è ricaduta sulle aziende che occupano la più grossa
fetta di mercato per immagine e profitto.
Ma la mia ricerca non poteva prescindere dal prendere in esame
anche un caso italiano: la “nostra” Superga che, nelle sue
dimensioni modeste, è stata la protagonista dell’evoluzione del
costume della nostra società.
In questa seconda parte saranno analizzati alcuni dei tanti
strumenti di comunicazione che le aziende hanno a disposizione
per proporci i loro prodotti. Per dare loro una suddivisione più
precisa e ordinata, ho scelto di raggrupparli in due aree
principali: quella relativa alla comunicazione commerciale (lo
spot televisivo, la sponsorizzazione, la creazione di eventi e
altri), e quella relativa alla comunicazione istituzionale.
Anche nel caso degli strumenti di comunicazione commerciale,
la scelta è stata compiuta in maniera non fortuita, ma in relazione
a quelli che risultano essere i mezzi più coinvolgenti agli occhi
del consumatore e più proficui alle tasche delle aziende.
Per quanto riguarda, invece, il capitolo relativo alla
comunicazione istituzionale, ho scelto di approfondirlo
rapportandolo alle recenti proteste di alcune organizzazioni
contro le multinazionali; questo perché in seguito ad essa, le
aziende hanno dovuto modificare le loro strategie per
salvaguardare la propria immagine. Anche questi tipi di strategie
fanno parte del grande serbatoio della comunicazione e quindi
non potevano non essere presi in considerazione.
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Infine, in appendice, ho trascritto due interviste da me svolte per
Adidas e Nike per cercare risposte su argomenti che avevano
bisogno di maggiore chiarezza e approfondimento.
La metodologia utilizzata per consentire al mio lavoro di
prendere forma è stata innanzitutto la ricerca bibliografica
attraverso testi, manuali e articoli; inoltre, l’approfondimento ha
riguardato la pubblicità, sia televisiva che su stampa
(soffermandomi maggiormente su quella in tv, per i motivi sopra
citati), con un’analisi dei suoi contenuti e la sua evoluzione degli
ultimi trent’anni; infine il web!
Per capirne di più di eventi, nuovi strumenti di comunicazione
integrata, e soprattutto di “city attact” sono stata spettatrice
diretta di un evento organizzato da Nike nella città di Roma (il
torneo Scorpion K.O.).
Ho preso un treno che, in una giornata nevosa, mi ha portato a
Bologna dove ha sede Nike Italy per “curiosare” tra gli uffici di
una grande multinazionale e saperne di più…
Ho scritto lunghe e-mail a molte aziende per cercare risposte.
Risposte che, alla fine, ho ottenuto.
Nella lettura di questa mia piccola impresa, spero che ritroverete
l’impegno e l’amore che nella sua stesura non la hanno
abbandonata neanche per un rigo. Ma soprattutto spero che esso
apra quella finestra su di un argomento che merita l’interesse di
chiunque: poiché intorno a noi ogni cosa parla e comunica con un
proprio linguaggio e poiché ognuno di noi ha indossato, almeno
una volta nella sua vita, scarpe da ginnastica.
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1° CAPITOLO
UN MONDO CHE NON PUÒ FARE A MENO DI
PARLARE
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1.1. INTRODUZIONE
Un mondo che non può fare a meno di parlare, il nostro. Un
mondo in cui ogni cosa significa, in cui ogni cosa vuole
suggerirci o a volte dichiararci a chiara voce la sua esistenza. Un
mondo dove la facciata di un palazzo dirompente davanti ai
nostri occhi, la gradinata di una Chiesa, la macchina che
guidiamo e la persona che incontriamo, seppur in modi e con
linguaggi differenti, ci presentano la loro identità, il senso della
loro esistenza. Oggetti, animali, persone, tutto vuole comunicare,
tutto ha bisogno di parlare.
Per quanto riguarda noi esseri umani, gli elementi attraverso i
quali comunichiamo sono molteplici e non ci si riferisce solo alle
forme verbali. Ci sono numerosi linguaggi impliciti che,
coscienti o no, continuano a parlare di noi senza che noi
emettiamo voce.
Ci si riferisce all’abito che indossiamo, agli oggetti con cui ci
adorniamo, ai tatuaggi con cui coloriamo o decoriamo la nostra
pelle, tutte forme attraverso cui i nostri corpi entrano in relazione
con il mondo e tra loro.
“La moda non è solo un fenomeno frivolo, epidermico, salottiero, ma
è lo specchio del costume, dell’atteggiamento psicologico
dell’individuo, della professione, dell’indirizzo politico, del gusto.”
(La moda della moda, Dorfles G, 1984)
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Questo, perché, la moda è influenzata pesantemente da eventi
politici, economici o sociali, che agiscono direttamente sul
fattore moda, determinandolo.
Tutto ciò, ci fa capire quanto sia fondamentale in una data
circostanza l’abito che indossiamo perché da esso possono
emergere “racconti” su di noi e sul tessuto sociale in cui siamo
avvolti.
La precisione nell’abbinamento dei colori, l’accurata scelta degli
accessori oppure, all’opposto, la trascuratezza sono da sempre
significanti di qualcos’altro.
Basterà, per intenderci, citare i contestatori del ’68, o
l’anticonformismo degli hippies e dei punks, o ancora, l’uso dei
jeans come espressione del conformismo all’anticonformismo.
“Il vestire in ogni società e cultura è una forma di progettazione, di
simulazione del mondo, valida per la società e per l’individuo, che si
realizza in segni e oggetti attraverso cui il corpo si situa
temporaneamente e spazialmente nel suo ambiente circostante.”
(Mass moda, Calafato P., 1996)
Parole non dette, ma storie che sono ben chiare a tutti e che ci
sono raccontate dal taglio di una giacca o dall’ampiezza delle
gambe di un pantalone: questo è il linguaggio dell’abbigliamento,
questo è il modo implicito di esprimersi della nostra società e
della nostra individualità.
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1.2. DIMMI COME TI VESTI E TI DIRÒ CHI SEI
L’aspetto esteriore, nell’ambito della comunicazione non verbale,
è senza dubbio il segnale che più influisce sulle percezioni e sulle
relazioni con gli altri. E’ il nostro biglietto da visita attraverso il
quale noi possiamo stabilire il nostro ruolo in una data
circostanza, segnalare la nostra disponibilità verso gli altri,
definire il nostro status sociale ed economico e, perché no,
suggerire anche il nostro stato psicologico del momento, per
esempio attraverso i colori scelti per l’abbigliamento e la cura
verso i particolari.
Per questo carattere determinante del linguaggio del corpo, ogni
individuo ha sempre curato con particolarità il proprio
abbigliamento, fin dagli albori della sua esistenza, consapevole
che adornarsi significa soprattutto caratterizzarsi e differenziarsi.
Pertanto, il fenomeno dell’abbigliamento e della moda in
generale, non può essere semplificato come un semplice
fenomeno di costume, ma esso è un mezzo che ci consente di
entrare in contatto con gli altri e con la realtà che ci circonda; per
questa sua importanza si è trovato spesso al centro di discussioni
di teorici e di studiosi di diverse discipline.
Georg Simmel, nel suo saggio più famoso
1
, scrive del fenomeno
moda, sostenendo che tutta la storia della società può essere
rappresentata da un susseguirsi di lotte e compromessi tra la
1
La moda, Simmel G., Longanesi & C., Milano, 1985
12
fusione con il nostro gruppo sociale e la distinzione individuale.
E questo già nei primi anni del Novecento.
Più recentemente Codeluppi afferma:
“I vestiti non servono solamente a tenerci caldo; noi siamo così poco
interessati alla loro capacità di proteggerci dal freddo che la gente è
disposta in un clima rigido ad andare in giro poco coperta pur di
apparire ben vestita”. (La sociologia dei consumi, V. Codeluppi,
1995)
Molte sono le ipotesi che cercano di spiegare in maniera diversa
il fenomeno relativo all’abbigliamento, ma tutte convergono in
un’unica soluzione: la moda è lo specchio e il traduttore di ogni
società.
Come tale, esso è stato influenzato da (e, spesso, ha influenzato)
avvenimenti storici, sociali ed economici appartenenti ad una
data epoca e dall’immaginario collettivo ricorrente in ognuna di
esse.
“Per immaginario collettivo s’intende quell’insieme di flussi
comunicativi, di idee, di comportamenti che hanno segnato
profondamente l’identità e lo sviluppo dei decenni Settanta, Ottanta,
Novanta e che ne hanno definito la cultura, dalla pubblicità alla moda,
dalla musica al cinema, dall’arte alla letteratura, dal fumetto alla
televisione.” (Metatendenze, Morace F., 1996)
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Ogni diversa epoca, infatti, appare connotata da alcuni caratteri
unici che fanno sì che, quando ci si riferisce ad un certo momento
storico-sociale, siano richiamati ad esso alcuni tratti determinanti
di quel periodo.
Ed è così che in ogni diversa epoca o decennio, come per ogni
altro fenomeno culturale, si è avuta una diversa considerazione
dell’abito e, badate bene che, con questo termine s’intende anche
tutta la serie di accessori che il vestirsi comporta, naturalmente
scarpe comprese.
Possiamo provare a ripercorrere alcune tappe fondamentali che
portano, alla fine di questo percorso, ai giorni nostri.
Proiettiamoci nel diciottesimo secolo, quando camminando per le
strade si può capire senza troppi sforzi a che classe sociale
appartiene una persona. Gli abiti cambiano totalmente se si tratta
di gente appartenente alla classe borghese o se a quella proletaria,
ma all’interno di queste fasce la distinzione praticamente non
esiste. L’espressione della personalità individuale è confinata
nelle mura domestiche, mentre per le strade vagano solo
maschere sociali. Ogni classe sociale ha il suo stile vestimentario,
che è abbandonato non appena si diffonde negli strati sociali
inferiori, riducendone l’originalità.
L’industrializzazione: in quest’epoca, non è più necessario
esprimere uno status pubblico, quindi l’abito può essere usato per
esprimere caratteristiche personali. Ma tutto ciò viene vissuto in
maniera negativa, c’è la paura che qualcosa che non va nella
personalità di un individuo può saltare fuori anche solo da un
colletto piegato male, così le persone stanno molto attente anche
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ai più piccoli particolari, poiché ogni cosa serve a mettere in luce
la vera natura di un soggetto.
Poi, con la creazione del concetto di “vita individuale”, questa
paura di sembrare diverso o addirittura deviante, si è trasformato
in un piacere, e così il colletto di cui si accennava prima, da
spiacevole inconveniente, diventa segno di originalità che può
anche conferire fascino ed eleganza.
E mentre siamo a “spasso nel tempo” e tra le varie lotte e
compromessi che anche il settore dell’abbigliamento ha
conosciuto, giungiamo agli ultimi decenni che la società
occidentale ha attraversato: gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e
Novanta.
Negli anni Sessanta, “il vissuto sociale dei prodotti si dispiega
nella dimensione ideologica del consumo.”
2
In quegli anni l’identità socioeconomica dei soggetti è stabilita
attraverso l’atto d’acquisto, per niente ragionato: non importa se
sappiamo a cosa serve un determinato oggetto, l’importante è
averlo.
E chi meglio di un capo di abbigliamento può mettere
continuamente in mostra quanto siamo in grado di consumare.
I prodotti di marca sono diventati degli status symbol in grado di
attribuire a chi li indossa e soprattutto a chi non li indossa
caratteri specifici come quello della cittadinanza, quindi
dell’appartenenza.
La grande diffusione delle marche, che si è sviluppata in questo
periodo, dipende molto dai cambiamenti nei sistemi di vendita e
2
I nuovi boom, Gobbi L., Morace F., Brognara R., Valente F., 1993
15
di pubblicità. Dal jeans alle scarpe, dal cappello ai calzini tutto è
ormai praticamente simbolizzato, tutto è ormai contrassegnato da
una marca.
Dal punto di vista sociologico, il fenomeno della diffusione delle
marche è da attribuire al declino dei fattori di appartenenza
sociale e di identificazione, e ciò ha portato alla necessaria
introduzione di altri strumenti di identificazione sociale.
Quindi, mentre nella società tradizionale, la differenziazione si
esprime soprattutto attraverso la qualità della stoffa dell’abito e la
cura verso i particolari, nella società degli ultimi decenni questo
compito è attribuito alle marche.
Gli anni Settanta. Qui ci troviamo ad assistere ad un’inversione
di marcia, c’è il rifiuto dello status symbol, delle Grandi Marche
a tutto vantaggio degli stilisti. E’ la griffe la protagonista di
questo decennio. Grandi Marche sostituite da Grandi Stilisti, in
grado di trasmettere parte, se non tutto, della loro creatività
all’individuo che indossa i loro abiti, che gli permettono di
differenziarsi da quello che è l’individuo della produzione di
massa, e da quello conformista legato all’abito sartoriale.
“I grandi stilisti riescono a creare in questi anni un sistema di segni
estremamente autonomo, che esprime una grande capacità
comunicativa, e che si incontra con il bisogno simbolico di sistemi
significanti sicuri ed universali.” (Fashion subway, Morace F., 1996)
Anche in questo decennio, il possesso di determinati oggetti
lancia segnali di appartenenza e di identità, ma adesso il consumo
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è strettamente legato alle ideologie politiche del momento. Ecco
perché in questi anni la trasgressione porta alla passione per abiti
provenienti da altre culture, cosiddette esotiche, e spesso per
l’autoproduzione, è in questo senso che si parla di “esotizzazione
e proletarizzazione dell’abito”.
Vecchio, sgualcito, povero, ed infine casual, l’abbigliamento si
orienta verso uno stile popolare, se non addirittura misero. Così
mentre i ceti poveri cercano di vestire “bene”, per i ceti medi, la
negazione delle regole vestimentarie diventa un imperativo
morale.
Altro cambio di binario si ha negli anni Ottanta, in cui l’atto
d’acquisto diventa ancora più importante perché la
differenziazione, in questi anni, diventa un ideale. La scelta del
prodotto da acquistare, però, diventa più ragionata perché
attraverso di esso si possono leggere non solo lo status ma anche
lo stile, le relazioni interpersonali e la tendenza politica.
Si affermano a pieno titolo, ancor di più che nel decennio
precedente, i Grandi Nomi in grado di trasmettere unicità e stile
derivanti sia da quello dello stilista che dalla cultura
dell’industria produttrice. Da questo bisogno di unicità che
esplodono i prodotti in serie si, ma diversificati, che permettono
la tanto amata personalizzazione.
E’ soprattutto nei giovani che queste “necessità” emergono. Il
bisogno di crearsi un proprio look, di apparire unici, di
distinguersi dalle altre generazioni. Tutto questo porta
all’affermarsi di quei prodotti-codice in grado di trasferire
informazioni su chi li indossa. Proprio per questo bisogno di
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creatività che le figure centrali di questo decennio sono lo stilista,
il designer e il pubblicitario. La moda diventa parte del
quotidiano, l’attenzione verso l’abito fa sì che ci sia un
miglioramento del capo stesso. Inoltre in questi anni, l’esigenza
di praticità dell’abbigliamento quotidiano, derivante dal declino
della differenziazione sociale in molti luoghi di lavoro, e dalla
maggiore disponibilità di tempo libero, favorisce l’affermazione
dell’attività sportiva di massa che spinge l’attenzione verso i capi
d’abbigliamento che per le loro caratteristiche richiamano questo
tipo di attività.
Il successo, in questi anni, di alcune aziende operanti nel settore
dell’attività fisica, come Nike, Adidas, Reebok ma anche
l’italiana Superga, si spiega con il modello culturale che esse
trasmettono e che in questi anni si dimostra vincente: l’idea di un
corpo efficiente e sano. Il nostro punto di arrivo non può che
essere rappresentato dall’ultimo decennio: gli anni Novanta, in
cui trionfano sempre di più i gruppi giovanili.
“Dalle imprese poco edificanti dei nazi-skin, alla strabordante vitalità
dei rapper e al loro stile hip hop, fino allo stile neo-hippy dei grunge,
ormai sostituito dalla vitalità adrenalinica delle nuove tribù sportive e
del tempo libero.” (Fashion subway, Morace F., 1996)
Al di là dei valori e dei disvalori che a queste tribù possono
appartenere possiamo riscontrare in ognuno di essi il bisogno di
identificarsi in qualcosa e differenziarsi da qualcos’altro; è il
riproporsi del famoso binomio imitazione-differenziazione che
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George Simmel aveva individuato più di qualche decennio fa:
“La moda è imitazione di un modello dato che appaga il bisogno di un
appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono (…)
non di meno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla
differenziazione, al cambiamento, al distinguersi.”
(La moda, Simmel
G., 1985)
Gli anni Novanta sono gli anni della “Pantera” che riportano
nelle aule universitarie argomenti come la droga, l’AIDS,
l’immigrazione, e che fanno emergere una nuova ondata di
insoddisfazione giovanile che risuona da quelle aule in piazze,
strade e nei sempre più centrali media.
Queste nuove tribù si esprimono in modi e con mezzi diversi
rispetto a quelle degli anni precedenti. Esse parlano e ci parlano
attraverso pratiche sportive nuove, e molto spesso estreme. Il
“tribalismo sportivo”, così è definita la nuova protesta giovanile
che dalle piazze si trasferisce alle spiagge, su piste con
strabilianti pendenze, su ponti da cui potersi lanciare.
Sport come lo skateboard, snowboard, jumping, diventano veri e
propri fenomeni di culto per milioni e milioni di giovani. E
naturalmente, come ogni tribù che si rispetti, anche quelle degli
anni Novanta hanno dei punti di riferimento dai quali attingere
regole e rituali.