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I consumatori non si percepiscono più come ultima catena di un meccanismo
nel quale politiche, aziende, istituzioni imponevano schemi di pensiero
dall’alto senza possibilità di obiezione.
Dopo essere stati investiti (il termine in voga è “bombardati”) da pubblicità
che, attraverso sottili (a volte non troppo) meccanismi di persuasione, riescono
a stimolare all’acquisto, ma anche ad ingannare, i consumatori hanno via via
acquisito sempre più consapevolezza di quanto sia fondamentale il loro potere
d’acquisto.
Fare la spesa, scorrere tra gli scaffali la molteplicità di prodotti a disposizione,
nasconde, dietro un semplice atto quotidiano, la possibilità di agire secondo i
propri valori e le proprie convinzioni.
Se si suppone che il “voto con il portafoglio” dei consumatori non sia
influenzato esclusivamente dalla massimizzazione del proprio risparmio e
benessere, ma anche da elementi intrinseci, come l’altruismo, l’assunzione di
responsabilità sociale, l’attenzione alle problematiche ambientali, le imprese
devono tenerne conto nel loro piano strategico onde evitare di perdere ampie
quote di mercato.
In questo modo si scardina il modello fondamentale di un’economia del “primo
tipo”, nella quale le istituzioni, attraverso scelte politiche e normative, e le
imprese, attraverso la commercializzazione di determinati prodotti, indirizzano
la scelta dei consumatori in modo univoco ed unidirezionale, facendo strada ad
un modello bottom-up, di partecipazione dal basso dei consumatori in grado di
orientare le scelte dei pilastri economici.
Questo prospettiva però potrebbe rappresentare un ennesimo capitolo del
continuo scontro fra etica e finanza ed il passaggio “di testimone” decisionale
dalle imprese al consumatore, per quanto confortante, sfuggirebbe alle
evidenze empiriche senza offrire speranze e programmi per il futuro, se non
seguisse a questa riflessione un’analisi di quelle che concretamente sono oggi
le forme alternative di commercio, dei loro criteri e, soprattutto, del perché il
consumatore dovrebbe preferire queste a quelle tradizionali.
Nel primo capitolo si analizza il significato del consumo nell’età postmoderna:
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nella logica guidata non dalla necessità o dal bisogno, ma dal desiderio e dal
senso di appartenenza ad un gruppo, il consumo non può essere analizzato
esclusivamente attraverso un’ottica economista e funzionale, ma “ha bisogno di
una psicologia che aiuti a comprendere il processo di consumo come fenomeno
simbolico, culturale, di personalità” in quanto “acquistare è sempre più simile
ad andare al cinema: chi direbbe che quello che acquisto andando al cinema è
un rettangolino di carta? Acquisto l’accesso ad un mondo di identificazioni, di
emozioni” (Fabris, 2001, pag. 32). Attraverso un excursus teorico che
abbraccia la prospettiva cognitiva, esperenziale, esistenziale e sociale, si
delinea l’idea di una “cultura del consumo”, in cui la massimizzazione del
profitto e del risparmio lascia posto al desiderio e all’importanza del creare
relazioni sociali.
Dopo aver analizzato il consumo nell’ottica individuale del consumatore, nel
secondo capitolo protagonista indiscussa è l’impresa, un’impresa che non deve
più solo “far quadrare i bilanci”, ma sanare “conflitti d’identità” in un mercato
dove lo scontro non è più tra chi ha e chi non ha, ma tra chi è e chi non è, in cui
il consumatore non vede nei prodotti esclusivamente fattori materiali, ma
ricerca simboli, segni, emozioni. Un mercato in cui la dimensione etica e la
responsabilità sociale d’impresa vengono considerate dunque condizioni
essenziali per un efficiente impiego del capitale. In una società tesa alla
valorizzazione delle risorse ed ad un’equa distribuzione delle ricchezze, l’etica
non appartiene più esclusivamente alla dimensione della coscienza, ma diviene
un’esigenza di mercato (Sen, 2006). Nel capitolo, infatti, viene analizzata in
tutti i suoi punti la norma SA 8000.
Nel terzo capitolo viene analizzato, definendone, attraverso l’analisi della Carta
Italiana de CEES la storia, i criteri fondamentali, gli obiettivi ed i ruoli dei
protagonisti, un’importante e diffusa forma di commercio alternativa, il
commercio equo e solidale. È stata inoltre presa in considerazione una ricerca
di Becchetti e Costantino (2006) in cui vengono identificate le abitudini e le
caratteristiche dei consumatori del CEES allo scopo di evidenziare le
motivazioni che spingono a scegliere prodotti socialmente responsabili rispetto
a quelli tradizionali.
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Il quarto capitolo affronta un tema che sta acquistando sempre più interesse nel
nostro paese, ovvero la formazione di associazioni, i Gruppi di Acquisto
Solidale, che non sono gruppi che scelgono di devolvere denaro o aiuti per il
terzo mondo e non hanno come fine atti di beneficenza.
Al centro è sempre infatti presente un elemento connesso con il marketing, il
fine è quello di “acquistare prodotti di uso comune”. Ciò che distingue però la
tipologia di acquisto è la riflessione (motore stesso che dà vita ad un gas) sul
significato del consumo e la scelta di avere come punto di riferimento rispetto a
questo criteri come la giustizia e la solidarietà. Gruppi di acquisto dunque, ma
solidali “perché scelgono la solidarietà come regola di appartenenza al gruppo
e come criterio nella scelta dei prodotti, solidarietà nei confronti dei produttori,
dell’ambiente, dei popoli del Sud del mondo e di tutti coloro che subiscono le
conseguenze inique dell’attuale modello di sviluppo” (Valera, 2005).
Oltre all’analisi della loro rete, della loro storia, dei loro obiettivi e modi di
formazione e divulgazione, in questo capitolo emerge chiaramente come
aspetto fondamentale dei GAS è proprio la dimensione di un gruppo, la
necessità di uscire dal senso di isolamento suscitato dal potere dilagante delle
multinazionali (Fabris, 2003).
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Capitolo 1
IL CONSUMO POSTMODERNO
1.1 Il consumo tra modernità e postmodernità
Arte postmoderna, musica postmoderna, filosofia postmoderna, sociologia
postmoderna: il linguaggio comune è ormai intriso di “postmoderno”, tanto da
far apparire come protagonista questo aggettivo e lasciare ai termini cui si
accompagna un significato quasi corollario.
Non c’è da sorprendersi dunque se nell’epoca del consumo (o epoca del
consumatore?) non solo faccia la sua comparsa, ma domini la scena il
postmoderno; ma, come spesso accade, la popolarità, dopo un iniziale picco di
approvazione, genera dubbi e riserve.
Considerare il significato di postmoderno in riferimento al consumo
semplicemente come un “superamento del modernismo” (wikipedia) sarebbe
limitante e finirebbe per celare, anziché esprimere, tutte le contraddizioni ed il
dinamismo dominanti nell’attuale scenario.
Per quanto il prefisso “post” induca a pensarlo, il consumo postmoderno non si
caratterizza come una fase avanzata della modernità, tanto che Calabrese
(1992) preferisce il termine neo barocco in quanto “la società postmoderna,
proprio come il barocco - da intendersi come genere che accomuna eventi e
periodi storici spazialmente separati – segna il primato della superficie e
dell’apparenza, che fa aggio sull’essenza, del sinuoso e dell’ombreggiatura,
dell’illusione, ma anche del dinamismo vitale, della passione, del sentimento,
dello slancio” (Fabris, 2003, p. 50).
Trovare una definizione univoca di questa “nuova era” sarebbe assurdo proprio
perché la postmodernità conserva in sé numerose dicotomie che si esprimono
ad esempio nella co-presenza di un’innovazione tecnologica, elettronica e
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digitale che irrompe nella quotidianità accanto ad un rifiuto del “buono in
quanto nuovo”, della novità ad ogni costo preferendo un bisogno di riallacciarsi
al passato, come anche la convivenza del primato dell’apparenza, della
superficie espressa pienamente nella figura dell’homo aesheticus
(Maffesoli,1985).
Nell’ambito che ci si accinge ad analizzare però quello che potrebbe sembrare
un abbellimento, un aggettivo altisonante per rendere il tutto storicamente più
interessante rappresenta uno dei pochi nodi solidi: il consumo appare un
fenomeno che acquista senso e spessore all’interno dell’epoca postmoderna.
In questa accezione per “post-moderno” si vuole indicare l’abbandono della
fiducia nelle teorie cartesiane dominanti nella modernità, teorie che vedevano
nella ragione il perno della costruzione della conoscenza e della verità: esse
sono frutto di un Io che non è spontaneismo, ma metodo, che non è spontaneità
arbitraria ma Legge e Ragione.
Post moderno è dunque il venir meno di queste certezze e l’avvento di
un’epoca in cui l’universalità della ragione lascerà il posto al “pensiero debole”
di Vattimo (1985), alla frammentazione e alla fluidità della costruzione del
senso.
Numerose faglie hanno minato il primato della filosofia dell’autocoscienza,
tutte fanno capo alla “fausse consciense” che vede tra i protagonisti nomi
illustri come quello di Nieztche, Freud e Marx.
Per quanto i loro pensieri fossero distanti, è possibile individuare un elemento
comune nel sottrarre i contenuti della coscienza all’autoconsapevolezza dell’Io
sottolineando come essi fossero completamente svincolati da elementi razionali
e logici perché guidati da forze “estranee”, che esse si presentassero come
gioco tra semantica del potere e sintassi del volere, tra natura selvaggia e
civilizzazione o tra struttura di potere e formazione della coscienza.
Seguendo questa linea la società postmoderna rifiuta il pensiero cartesiano
considerando l’Io come dotato di una struttura frammentata e mutevole,
molteplice e non solo razionale, frutto di una continua transazione tra
individuale e sociale.
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Il concetto di frammentazione parte dal presupposto che ogni soggetto umano,
nella nuova società, si trova ad interagire con una molteplicità di “ambienti” e
di situazioni che lo portano a manifestare identità diverse ed apparentemente
incompatibili. La nuova dimensione nella quale egli si trova a vivere si riflette
chiaramente anche nei comportamenti di consumo, che risultano sempre più
difficilmente riconducibili alle caratteristiche demografiche, o agli stili di vita o
alle opinioni e alle credenze dominanti, ma le scelte di acquisto risultano
sempre più accomunate dal valore che il consumatore può trarre, in termini di
benessere e di felicità, dall’immagine che quel determinato oggetto è in grado
di comunicare.
Un secondo elemento destrutturante della modernità può essere considerato il
trionfo della Tecnè, dapprima “strumento del progetto democratico ed
egualitario e quindi subordinata alla ontologia etica del rapporto mezzi-fini”
(Fabris,2001, pag. 45), con l’espandersi del suo dominio può essere considerata
fine in sé, emblema del piacere, del controllo e del potere, apparentemente
svincolata da una razionalità di senso globale.
Infine a minare il primato di un io centro del criterio di verità e conoscibilità
affidabile è da considerarsi l’irrompere dell’importanza della comunicazione e
della globalizzazione le quali, mettendo a continuo confronto culture e
linguaggi ed identità differenti, vanificano la possibilità di concetti
universalistici .
Come si inserisce il consumo in questo quadro in cui “tutto si relativizza ad un
contesto specifico e la morale quotidiana ne diventa la più evidente
manifestazione come pure l’etica dei sentimenti o della legalità”, dove “la
consapevolezza dell’infinita serie d’interdipendenze mina la certezza della
verità, che assume il ruolo di razionalità limitata e sempre contestuale?”
(Fabris. 2001, p. 46).
Il consumo diviene simbolo e al tempo stesso “liquido amniotico” (Fabris,
2001) del passaggio da modernità a postmodernità.
Consumare, infatti, oggi non fa riferimento all’acquistare ciò che serve (basti
pensare al consumo nel campo dell’abbigliamento dove di frequente non si
acquista per necessità): le “merci” di scambio non sono più oggetti