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INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
La malattia del bambino può essere letta come un’esperienza che può
essere foriera di crescita, di conoscenza, di apprendimento, ma anche di
regressione, di difficoltà nell’apprendimento, di passi all’indietro.
Esistono al momento, infatti, molti studi che indicano come alcuni
bambini risentano di gravi danni nello sviluppo della personalità e della
funzione psichica globale, causati proprio dalla malattia, dal dolore,
dall’ospedalizzazione, dall’esistenza di separazione, come da pratiche
chirurgiche avvolte molto cruenti.
La malattia, può essere letta appunto, come un’esperienza di crescita
ma, anche di regressione, proprio perché il bambino non conosce la
malattia, il dolore, la morte, ma imparerà a conoscerle poi, proprio perché
queste sono inscritte nell’ambiente, nel suo ambiente.
Tutto dipende da come le figure adulte che gli stanno accanto
reagiscono alla situazione offrendo aiuto e sostegno o abbandonando il
bambino alle sue difficoltà. Si tratta in primo luogo di genitori e quindi
l’educatore, come di tutti quegli operatori sanitari professionisti e non,
con cui il bambino entra in contatto durante la malattia e
l’ospedalizzazione. Dalle modalità con cui queste entreranno in relazione
con lui, da ciò che diranno o faranno, dipenderà se la malattia potrà
entrare a far parte del bagaglio positivo della vita del bambino, se sarà un
momento in cui egli potrà riflettere su di sé, al contrario, egli ne uscirà
con un’immagine di sé rafforzata, oppure se, al contrario, egli ne uscirà
con un’immagine di sé perdente e menomata.
Per poter vivere l’esperienza della malattia in modo positivo, il
bambino, ciascun bambino, deve essere messo al centro del processo
terapeutico, cioè deve poter attraversare le diverse fasi della malattia
trovando sul suo cammino degli adulti che facilitino il suo inserimento, la
sua degenza ed infine la sua dimissione.
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Il ruolo dell’adulto è appunto quello del facilitatore e accompagnatore,
ma se l’adulto non ha mai affrontato o ha sempre messo da parte i
problemi connessi al tema della malattia e della morte, rischia di non
permettere al bambino di affrontare questa problematica in modo
costruttivo. E di caricarlo , in più, della propria angoscia su questi temi.
L’informazione e la preparazione consentono infatti al bambino di
mobilitare risorse insospettate di forza e di coraggio, e di affrontare
adeguatamente sul piano mentale le proprie esperienze, anche quelle più
dolorose.
Tutto deve essere spiegato, senza “addolcire” o eludere la realtà:
l’ansia e le domande dei bambini o dei genitori devono essere
“ascoltate” e ricevere sempre una risposta.
Il bambino ha diritto di aver paura, di protestare, e una preparazione
corretta ed efficace lo aiuta ad accettare la procedura e a capire che gli
interventi dolorosi non sono una punizione, ma gesti utili per la sua
salute.
Non sapere che cosa comporta una situazione nuova o ambigua, tanto
più se potenzialmente minacciosa come in ospedale, è fonte di disagio,
perché non consente di elaborare una strategia per controllare
quest’esperienza. Aiutare il bambino a capire ciò che sta accadendo
riduce in lui il senso di impotenza e lo stress che ne deriva.
Nel corso della Tesi ho preso in considerazione alcune proposte utili
per poter fornire al bambino, e al genitore una adeguata preparazione.
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CAPITOLO I
LA MALATTIA
VISTA CON GLI OCCHI DI UN BAMBINO
“Sapevo (…) che tutto quanto era in me, le mie preoccupazioni, la mia volontà,
sarebbe stato sostenuto, in mia nonna, da un desiderio di conservazione e di crescita
della mia vita molto più forte di quello che io stesso avevo”.
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Marcel Proust.
La malattia, quale che abbia potuto esserne la causa, rimane
implicitamente una richiesta di cure.
Il lamento somatico, ad esempio, è espressione di una carenza,
carenza di salute, ma anche assenza di desiderio. Curare un bambino
significa riannodarlo alla vita, non solo certamente nel senso di fargli
recuperare la salute, ma anche nella misura in cui le cure permettono
all’attenzione, alla preoccupazione, al desiderio di vita e di felicità nei
confronti del bambino di esprimersi e di rendersi concreto. Il bambino lo
avverte bene, lui che talvolta ha bisogno di ammalarsi per vivere di più e
meglio agli occhi dei suoi e di sentire la forza rassicurante dei genitori
infondergli il proprio desiderio di vita per lui.
La malattia è un fenomeno universale, ma l’idea che l’essere umano se
ne fa varia a seconda dell’età e della cultura in cui vive. Se interroghiamo
un bambino sulla malattia, la sua risposta è soprattutto in rapporto alla
sua età. Il bambino, naturalmente, è poi influenzato dal proprio ambiente
e dalle proprie esperienze personali, ma le sue possibilità di
comprensione sono commisurate all’età mentale. All’età di sette o otto
anni, un bambino non ha ancora gli strumenti per seguire regolarmente i
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. Proust, narrando un episodio di malattia di quando era bambino, curato dalla nonna,
riesce a descrivere molto bene la sensazione di forza rassicurante che i genitori
trasmettono anche indirettamente ai loro bambini soprattutto durante la malattia. Cfr.
Marcel Proust, A la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1954, volume I, p. 667.
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ragionamenti degli adulti.
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Così come non capirebbe certe spiegazioni
concernenti l’origine della malattia o il perché del trattamento che gli è
prescritto, o ancora il perché di tanta sofferenza. E’ allora praticamente
inutile tentare di forzare questa comprensione o comportarsi come se il
bambino comprendesse. Non serve a niente raccomandare a un bambino
di meno di sette-otto anni di essere “ragionevole”, cioè di smettere di dar
corso alla propria emozione quando ha paura. Questo modo di affrontare
gli avvenimenti, controllando i propri impulsi attraverso il ragionamento,
non è assolutamente possibile quando non si ha “l’età della ragione”! Ma
il bambino vive un’altra età della ragione, la sua ragione, vive il suo
mondo immaginario,fantasioso, immortale e completamente immerso nel
presente; ma il suo mondo non è separato da quello degli adulti, perché
corre su una strada parallela alla loro, talmente parallela che avvolte si
incrociano armoniosamente. E l’armonia è data dal rispetto dell’adulto
per il bambino, per le sue emozioni , per le sue paure, per i suoi desideri,
per il suo grado di comprensione in rapporto ovviamente all’età. Ed è
proprio in base a questo che si deve instaurare un rapporto di reciprocità,
è proprio in base al suo grado di comprensione che l’adulto deve spiegare
al bambino quello che gli sta accadendo, quale novità sta vivendo lui in
prima persona e poi anche la sua famiglia; un bimbo “non va
assolutamente estraniato dalla sua vita” e “la malattia fa parte della vita”.
E’ giusto che un bambino piccolo pianga quando sente dolore, quando
ha paura, o quando si sente solo o triste, così come quando ha paura di
sentire dolore. Intorno agli otto anni, egli non è in grado di interiorizzare
il proprio dolore o la propria paura e darsi poi delle ragioni per non
esternarle. A quell’età, non è ancora padrone delle sue reazioni primarie e
può succedere di farsi facilmente travalicare da esse. Ma se egli sa di
poter, senza esagerare, lasciarsi andare nel manifestare la propria
sofferenza e la propria paura e se ha fiducia nei genitori come nelle
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. Ad esempio, per un bambino che non ha raggiunto il livello intellettuale necessario
alla risoluzione di un problema di matematica abitualmente proposto agli allievi di una
o più classi superiori alla sua, è impossibile risolvere tale problema, che in quel
momento risulta essere troppo difficile per lui. Cfr. Pericchi, C., 1984, Il bambino
malato, Assisi, Cittadella Editrice.
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persone alle quali i genitori hanno delegato il proprio potere di
assistenza, l’azione o la cura potranno, tuttavia, non essere vissute da lui
come delle aggressioni.
Il modo in cui sono gestite le cure o in cui il bambino è trattato avrà
una evidente ripercussione sull’accettazione, da parte sua, di ciò che gli è
fatto. Cure, anche dolorose, somministrate con fermezza, ma anche con
dolcezza, medici attenti al bambino e ai suoi bisogni, certamente
renderanno le stesse cure, le privazioni e le separazioni meno
traumatizzanti. Ciò che allora il bambino comprenderà in primo luogo è
che lo si ama e gli si vuole bene. Si sentirà confortato, anche se vive
sicuramente una esperienza dolorosa.
Un bambino piccolo non ha la nozione di buona o cattiva salute. Se gli
chiediamo: “Come stai?”, egli non penserà al suo stato di salute fisica,
ma piuttosto alle cose piacevoli o spiacevoli del momento. Un bimbo di
cinque o sei anni risponderà ad esempio, che il fratello gli ha appena
soffiato il suo camion con la gru, che stasera viene a casa la nonna o che
la madre farà dei biscotti per merenda; mentre un bambino più piccolo
non risponderà affatto perché questa domanda non avrà alcun senso per
lui.
E’ solo a partire dai sei-sette anni che i bambini in genere cominciano
ad avere un’idea di cosa sia la malattia. Interrogati quando si trovano in
buona salute, i bambini da sei a dieci anni definiscono la malattia come
uno stato generale di malessere. Il bambino afferma allora di essere
malato quando non si sente bene. Oppure, in modo più preciso, evoca dei
dolori o dice di essere malato quando avverte un dolore ma non ne indica
il luogo. Talvolta, tuttavia, precisa di essere malato quando ha male ai
denti, alla pancia, ecc.
I bambini più grandi tendono a dare definizioni più oggettive della
malattia. Ne indicano, ad esempio, i segni esterni visibili: guance gonfie,
vomito; o anche i segni non immediatamente visibili: fronte calda, battito
del cuore accelerato. Ben pochi bambini al di sotto dei dodici-tredici anni
sono in grado di indicare un nome preciso della malattia: appendicite,
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morbillo, influenza intestinale. A questa età, però, i bambini sono più
sensibili all’aspetto psicologico della malattia: “Quando ci si ammala, si
è di cattivo umore, non si è felici!”; oppure mettono l’accento sul
comportamento esteriore: “Si è malati quando si è stanchi, quando si ha
voglia di andare a letto!”.
Anche dopo i nove-dieci anni, i bambini fanno scarsamente menzione
del fatto che, quando sono malati, sono costretti a sospendere le proprie
attività. Tale aspetto della malattia è ricordato solo dagli adolescenti, per
divenire nell’adulto un aspetto importante del contesto della malattia.
Invece, dopo i nove anni, nelle definizioni dei bambini comincia a
intervenire più spesso l’atteggiamento degli altri nei confronti del
bambino malato: “Sono malato quando mia madre mi dà delle medicine”
o “quando il dottore mi fa una puntura”.
Il bambino non ha realmente un’idea generale della malattia se no a
partire dagli undici-dodici anni. Il concetto di malattia è stato elaborato a
poco a poco, poiché il bambino è passato da un ragionamento su elementi
concreti e immediati a deduzioni su fatti non immediatamente visivi e
presenti.
Curatolo e Macrì affermano ad esempio, che gli effetti psicologici di
una malattia fisica, sul bambino, "sono in relazione ad una serie di
parametri diversi: la malattia intesa in termini di natura, di durata, di
gravità... la personalità del bambino malato, ...il modo di reagire alla
malattia del bambino".
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Quasi sempre, però, l’importanza o la gravità della malattia è
strettamente collegata alle sue conseguenze pratiche: cure,
immobilizzazione forzata, eventuale ospedalizzazione. In genere, il
ragazzo o l’adolescente non giudicano l’importanza di una malattia dai
rischi che questa potrebbe far loro correre. Questo è molto più frequente
nell’adulto il quale, invece, ha sempre più o meno consciamente presente
l’idea della precarietà della vita. I bambini, in ogni caso quelli che non
hanno sofferto di malattie o di gravi handicap, normalmente non
3
. Curatolo P., Machì F., Guida all'assistenza del bambino malato, N.l.S., Roma, 1983
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prevedono il peggio. Non vi pensano affatto ed è loro estranea l’ansia che
generalmente dimora nell’adulto di fronte all’eventualità di una malattia
anche benigna o di un incidente.
Per gli adolescenti, invece, la salute, come la malattia o l’incidente,
non rappresentano niente. Loro non ci pensano. La salute è un attributo
naturale della vita. Spesso, per il giovane, la malattia diviene prevedibile
solo in età matura o nella vecchiaia. Al limite la salute, con tutte le
precauzioni che la circondano, sarà un valore da “vecchi”. Perché dunque
farci caso quando si è giovani?
All’adolescente piace anche giocare con la propria vita. In realtà, egli
ha appena preso coscienza del proprio corpo, delle proprie possibilità
fisiche e mentali, ma non vi è ancora attaccato al punto di fare dei
sacrifici per conservarle intatte. Una sorta di onnipotenza lo protegge da
eventuali timori. Ciò non impedisce, d’altronde, che egli sia
profondamente rattristato dalla malattia o da un incidente di un familiare
o di un amico. Ma in tal caso, se il proprio attaccamento alla vita è
solido, la sua fiducia nella propria integrità fisica non viene meno.
I primi rapporti con l’esterno: “Il suo corpo”
La conoscenza del proprio corpo è fondamentale per capire la
malattia
Per riconoscere la malattia, il bambino ha bisogno in primo luogo di
conoscere il proprio corpo e, a questo fine, di sentirsi fisicamente
indipendente dal mondo circostante. Questa presa di coscienza avverrà
grazie allo sviluppo delle sue facoltà intellettuali ed emotive, oltre che
attraverso i suoi contatti con gli altri e con il mondo che lo circonda.
Qualunque progresso del bambino dipenderà d’altronde, per tutto il corso
del suo sviluppo, dall’unione del suo livello evolutivo con la qualità del
suo rapporto con gli altri.
Il senso della propria corporeità è , d'altra parte, una dimensione
esistenziale che è strettamente legata all'immagine di sé del bambino. Ma
l'immagine di sé, e l'autostima che l'accompagna, nel bambino
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ospedalizzato non può non riflettere anche i vissuti negativi legati
principalmente alla degenza. A tale proposito la Dell'Antonio sottolinea
che "una condizione che porta al decadimento dell'immagine di sé... è
senz'altro l'istituzionalizzazione per l'emarginazione dall'ambiente
familiare, l'isolamento e la depressione che comporta".
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Una volta superato il periodo del primo inizio della vita, durante il
quale i bisogni corporali e il loro soddisfacimento o la loro frustrazione
svolgono un ruolo primario, appaiono nel bambino comportamenti che
non sono più in rapporto soltanto con le cure materiali di cui ha bisogno,
ma sono già delle forme di comunicazione: comincia così a sorridere a
sei settimane o anche prima talvolta; verso i tre mesi vocalizza quando
gli si parla. L’adulto risponde a questi gesti e, in questo dialogo, si crea
una sorta di comunicazione affettiva dei corpi, poiché il bambino vive la
propria azione e quella dell’adulto come intercambiabile. Per lui, la mano
della madre che porta il cibo alla sua bocca potrebbe essere o è la sua. Se
agita le braccia e gambe, è una parte dell’ambiente circostante che egli fa
muovere. Se c’è una palla che rotola, è un po’ come se lui si trovasse al
suo interno e rotolasse con essa.
I primi interessamenti del bambino al proprio corpo
All’inizio della sua esistenza, l’interesse del bambino è incentrato
sulla zona che circonda la propria bocca e su quella che si trova
all’interno di questa. Fino al terzo mese, il suo corpo s esaurisce per lui a
questa regione, oltre che alle informazioni che gli giungono dagli organi
sensoriali interni e da quelli cutanei. Senza che queste sensazioni siano
ancora, beninteso, elaborate mentalmente, senza cioè che il bambino si
dica di sentirsi male, questi avverte il dolore all’interno del proprio corpo
(in occasione di coliche, ad esempio), stato che si oppone a quello
abituale di benessere. Egli è anche molto sensibile al contatto fisico.
Piange se ha fame o se ha male alla pancia, ma anche se ha bisogno di
essere preso, cullato o tenuto in braccio.
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. Dell'Antonio A., Bambini che vivono in ospedale, Borla editore, Milano, 1982
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Inoltre l’udito, precocemente sviluppato nel bambino molto piccolo
costituisce un grande apporto nel momento in cui egli coglie dei punti di
riferimento nel mondo circostante. Si calma subito se sente la voce della
madre (a due settimane circa), localizza il rumore dei passi di coloro che
si occupano di lui, li segue (verso i tre mesi), è sensibile alla musica
(verso i tre-quattro mesi). Ciononostante, è bene sottolinearlo, le varie
sensazioni, interne, cutanee, boccali, gustative, olfattive, uditive, visive,
rimangono per il bambino piccolo delle sensazioni sparse, non avendo
ancora alcun riferimento con l’essere individuale e individualizzato che
sarebbe “lui”.
E’ verso i tre mesi che comincia a essere instaurata la prima relazione
tra due parti del corpo: gli occhi e la mano. Il bambino scorge per caso la
propria mano che gli si pone davanti. Dopo che questo caso si è
riprodotto parecchie volte, tenta di provocarlo lui stesso e, una volta
scoperto che può osservare la propria mano a volontà, trascorre lunghi
periodi (fino verso i sei mesi) a guardarla ruotare e muoversi davanti ai
suoi occhi, senza rendersi tuttavia veramente conto di essere lui l’artefice
di tali movimenti.
Verso i cinque-sei mesi, il bambino comincia a interessarsi anche dei
suoi arti inferiori. Esplora le proprie mani, non più solo con lo sguardo,
ma facendole cercare l’una con l’altra. Cerca anche di afferrare il proprio
piede per infilarselo in bocca. Da questo momento, non è più solo
attraverso il contatto fortuito e la vista che il bambino diviene
consapevole delle varie parti del proprio corpo, ma anche attraverso la
mano, la bocca. Comincia così a verificarsi una sorta di globalizzazione
delle acquisizioni concernenti le differenti parti del corpo, e questo
permette, verso i sei-sette mesi, un abbozzo di individualizzazione, cioè
di differenziazione tra il mondo esterno e il proprio corpo: “Ciò che si
muove fa parte di me; ciò che non si muove non fa parte di me!”.
Verso gli otto-nove mesi infine, il bambino può distinguere la propria
mano dagli oggetti che afferra. E’ così per esempio che comincia a
lanciare fuori del letto o fuori della tavola gli oggetti che vi si trovano e
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che afferrato, al solo scopo, sembra, di fare ripetutamente questa
esperienza della separazione tra gli oggetti e lui, potendo questi ultimi
essere alternativamente presenti e assenti. In tale fase il bambino ha
bisogno di riscoprire incessantemente, per assicurarsene, questo fatto per
lui capitale: l’oggetto che stringe può staccarsi dalla sua mano e
ritrovarvi (a condizione che qualcuno lo raccolga e lo restituisca).
Il corpo diventa separato dall’ambiente
Poco a poco, gli oggetti e gli esseri acquistano la loro individualità e
anche la loro permanenza, nella misura in cui il fatto che essi siano fuori
della vista del bambino non vuole dire che non esistono più, ma che
esistono altrove. Allo stesso modo, il bambino non percepisce più il
proprio corpo essenzialmente come il motore di ogni attività esterna, ma
come un oggetto tra gli altri. E’ verso i quindici mesi che il bambino
sembra divenire consapevole di essere indipendente dagli oggetti esterni.
A tale età, inizia anche ad avere la sensazione dell’unitarietà del proprio
corpo quale contenitore e contenuto di organi. In effetti, egli diviene
consapevole di ciò che fuoriesce da lui, gli escrementi, che all’inizio
considera parte di sé. In seguito, mette in relazione ciò che fuoriesce da
lui attraverso l’orifizio anale e ciò che vi entra attraverso la bocca: il
cibo. Il suo corpo può allora cominciare ad acquistare i suoi limiti e la
sua unità. Ma ciò si realizza veramente solo molto più tardi, dato che la
nozione di eliminare dei rifiuti del cibo non apparirà che verso gli undici
anni. Fino a tal momento, sembra che i bambini pensino che il cibo è
conservato all’interno del corpo sotto forme diverse e invisibili).xxxxx
E’ ancora intorno ai quindici mesi che il bambino impara a
camminare. Questa nuova posizione in rapporto al mondo comporta
importanti progressi sul piano della sua autonomia fisica e della sua
autonomia fisica e della sua relazione con gli altri. Diviene anche sempre
più capace nel mangiare, nel vestirsi, nel lavarsi, nel disegnare, tagliare,
controllare gli sfinteri e tenersi pulito, dirigersi da solo, correre, nuotare,
ecc.
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