III
• Per quanto riguarda le citazioni delle note, ho utilizzato il sistema
abbreviato americano. Tutti i dati editoriali sono riportati nella
bibliografia generale.
IV
INTRODUZIONE
Per completare il mio percorso universitario, ho deciso di svolgere una
tesi di traduzione, in modo da ampliare e perfezionare la conoscenza
della lingua inglese e anche i miei studi di etnologia, per cui ho scelto
un testo che appartenesse a tale disciplina.
Il testo che mi è stato assegnato non è né di narrativa, né rientra nelle
pubblicazioni divulgative che hanno come soggetto gli zombi.
“Passage of Darkness” è considerato, infatti, un testo spec
ifico che usa l’indagine scientifica per giungere a verità dimostrabili.
Il canadese Wade Davis, con una solida preparazione in etnobotanica
ottenuta presso l’Università degli Studi di Harvard, dopo numerosi
viaggi di studio e di ricerca in Columbia britannica, Bolivia, Brasile,
Perù, Ecuador amazzonico e Ande peruviane, si trasferisce ad Haiti,
quando Nathan Kline, un eminente psicofarmacologo, chiede la
collaborazione di alcuni scienziati americani per studiare a fondo
l’apporto di piante ed animali tossici nella preparazione del cosiddetto
“veleno dello zombi”.
Alcuni casi riscontrati di recente ad Haiti, avevano infatti indotto
studiosi come Douyon e Kline a considerare possibile l’esistenza di un
veleno in grado di provocare “una morte apparente” e di un antidoto
capace di riportare la vittima ad uno stato di semi coscienza.
Douyon e Kline volevano dare un fondamento scientifico al fenomeno
degli zombi, di cui tanto si era scritto e parlato, dato che nessuno
V
prima di loro aveva intrapreso uno studio sistematico e approfondito
effettuato sul campo.
Davis accettò con entusiasmo l’incarico conferitogli da Kline e per
ben due anni rimase ad Haiti, affrontando il problema del veleno degli
zombi da un punto di vista etnobiologico, zoologico, chimico,
antropologico, medico.
Per comprendere e valutare meglio i risultati delle sue ricerche, Davis
ha voluto anche “immergersi” nella realtà haitiana, studiandone a
fondo gli aspetti sociali, storici, religiosi e magici.
Infatti, nella vita del contadino haitiano, la religione ha un ruolo
primario, perché non è solo il culto degli dei ma anche un legame con
gli spiriti ancestrali e occasione di socializzazione.
Sebbene la religione di Stato sia il Cattolicesimo, la Costituzione
haitiana del 29 marzo 1987, riconosce al Vodu la legittimità e una
funzione vitale nel mantenimento del patrimonio nazionale.
Il Vodu è una somma di credenze e di riti di origine africana che,
strettamente mescolati a pratiche cattoliche, costituiscono la religione
della maggioranza della popolazione rurale e del proletariato urbano
della Repubblica Nera di Haiti.
La sua storia ha inizio con l’arrivo dei primi contingenti di schiavi a
San Domingo nella seconda metà del secolo XVII: Senegalesi, Wolof,
Fulbé, Bambara, Quiamba, Arada, Min, Caplu, Fon, Mahi, Nago,
Mayombe, Mondongo, Angolesi, ecc, popolazioni diverse tra loro ma
VI
accomunate da religioni animiste e organizzazioni sociali non
dissimili.
Nelle società africane la religione è intimamente legata alla vita
quotidiana, ne scandisce i ritmi e ne determina i momenti più
importanti quali, per esempio, il passaggio dall’adolescenza alla
maturità. A contatto con la nuova dura realtà del mondo occidentale,
in cui entravano come schiavi alla mercé di padroni sovente brutali,
questi individui, strappati alle loro terre e alle loro famiglie, trovarono
nel culto degli dei e degli spiriti, così come nella magia, un rifugio e
una forma di resistenza all’oppressione.
Il Vodu è caratterizzato dal culto di divinità, chiamate loa, e di spiriti
ancestrali. Queste divinità sono i mediatori tra il Creatore (Bon Dieu)
e gli uomini ed è tramite la possessione che si manifestano rivelando
le loro necessità e i loro desideri.
Il credente, posseduto da una particolare divinità, ne assume le
caratteristiche e i modi. Ne diventa il ricettacolo, offrendo loro la
possibilità di esprimersi e di continuare a vivere; i loa comunicano
con i fedeli manifestandosi anche in sogno sotto forma umana.
I loa sono l’anima del cosmo, ma essi non crearono il cosmo, che fu
opera della divinità creatrice iniziale. Ai loa sono consacrati uno o due
giorni della settimana (per esempio: martedì e giovedì a Erzulie), è
attribuito un particolare colore (bianco per Agué e Damballah, il rosso
per Ogu), una propria batteria di tamburi e una propria danza.
In cambio del “servizio” (culto) e dei sacrifici offerti, i loa assicurano
protezione e fortuna contro la malasorte.
VII
Il rapporto che si instaura tra il loa e l’uomo di cui si è impadronito
viene paragonato a quello che unisce il cavaliere e la cavalcatura; da
ciò deriva l’espressione “il loa monta il suo cavallo”.
Ogni trance ha un lato “teatrale” che si manifesta nella cura dei
travestimenti e le camere del santuario fungono da quinte dove i
posseduti trovano gli accessori necessari per rappresentare meglio le
caratteristiche del Dio.
Le possessioni collettive si scatenano ogni volta che durante lo
svolgimento della cerimonia, l’eccitazione dei partecipanti è stimolata
da effetti spettacolari: per esempio quando gli zin (barattoli sacri), unti
d’olio prendono improvvisamente fuoco, o quando esplodono piccole
cariche di polvere all’arrivo di un dio.
Molti autorevoli studiosi, come per esempio Métraux, Dunham,
spiegano queste possessioni come mezzo per sfuggire ai problemi
legati alla quotidianità, per altri ancora, la possessione ha un valore
“catartico”.
La trance” corrisponde a un meccanismo di fuga davanti alla
sofferenza o semplicemente alla fatica, offrendo così un mezzo
d’evasione dalle situazioni spiacevoli. Il posseduto può esprimere
liberamente pensieri che nella vita quotidiana esiterebbe a formulare a
piena voce.
La trance è caratterizzata da danze frenetiche che si svolgono al ritmo
incessante del tamburo. Questo strumento musicale non è solamente
un oggetto sacro ma diventa forma tangibile di una divinità. La
fabbricazione del tamburo è accompagnata da riti e precauzioni che ne
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indicano la sacralità e contribuiscono a investirlo di un carattere
magico.
La danza è così strettamente legata al culto dei loa che si può
classificare il Vodu tra “ le religioni danzate”.
I fedeli si mettono volontariamente sotto l’autorità di un sacerdote
(houngan) o sacerdotessa (mambo) di cui frequentano i templi
(hounfour). Gli houngan e le mambo hanno funzioni che oltrepassano
di gran lunga la sfera religiosa. Rappresentano un’influente guida
politica e molto spesso la loro intelligenza, il carisma e la buona
reputazione ne fanno i consiglieri abituali della comunità.
L’iniziazione vodu (kanzo) impone a coloro che vi si sottopongono
sacrifici economici spesso molto pesanti, l’abbandono delle loro
occupazioni abituali, grandi sforzi di memoria, l’accettazione paziente
di una disciplina severa e di rigorosi obblighi morali. Essa rappresenta
anche una sicura garanzia contro gli assalti del destino, contro la
sfortuna e contro le malattie. Dal kanzo si esce purificati e fortificati e
questo aspetto é tanto importante da rappresentare per molti malati la
speranza suprema.
L’iniziazione non è considerata come una prova di coraggio, ma,
come sottolinea Métraux nella sua celebre opera “Il Vodu haitiano”, è
una dimostrazione di forza morale.
Il Vodu, inoltre, non è una religione materialista come ritengono molti
occidentali. E’, infatti, una religione ricca di spiritualità, che crede che
l’uomo nasca per volontà di Dio e la sua vera vita non sia quella del
corpo, bensì quella dell’anima. I voduisti ritengono che l’anima sia
formata da diverse componenti, di cui le più importanti sono il Gros
IX
bon ange e il Ti bon ange. Il Ti bon ange è il responsabile del
carattere, della volontà, dell’individualità di una persona; il Gros bon
ange, invece, è l’altro aspetto dell’anima, quello che è condiviso da
tutti gli esseri sensibili e che controlla il corpo.
Ed è proprio per l’importanza che si dà al Ti bon ange che la paura
estrema degli Haitiani è quella di essere trasformati in zombi.
Si tratta di persone a cui, a loro insaputa, viene fatto assumere “il
veleno dello zombi” di cui Davis, nel testo che ho appunto tradotto,
spiega chiaramente la composizione e gli effetti.
La zombificazione è considerata l’estrema sanzione sociale a cui una
persona può essere sottoposta.
Infatti, come spiega Davis in “Passage of Darkness” (riportando
l’esempio di Narcisse e Francina), le persone che vengono trasformate
in zombi sono generalmente colpevoli di aver tenuto un
comportamento antisociale o di aver trasgredito le regole della società
segreta.
X
Problemi concernenti la traduzione
In “Passage of Darkness” viene esaminato il fenomeno della
zombificazione nel contesto della società voduista haitiana. L’opera
dell’etnobotanico canadese Wade Davis si distingue per l’approccio
nuovo ed ampio, basato sulla ricerca scientifica, sull’analisi emica
(vedi oltre) e sull’indagine sociologica.
La consultazione di una vasta letteratura medica, il lavoro sul campo
(e quindi l’acquisizione diretta delle informazioni), gli esami di
laboratorio, permettono a Davis non solo di stabilire e di provare
l’esistenza di veleni in grado di indurre una morte apparente, ma
anche di dimostrare l’efficacia di antidoti che ripristino le funzioni
vitali e arrestino il processo degenerativo indotto da questi stessi
veleni. Questo importante risultato, che di per sé giustifica pienamente
l’attuazione (nel 1982) del Progetto Zombi, costituisce il punto di
partenza per lo studio della zombificazione nei suoi molteplici aspetti
magici, religiosi e sociali. Ed è l’analisi emica dei principi e delle
credenze della religione voduista, insieme con un accurato studio della
situazione storica, politica e sociale, a fornire la chiave per
l’interpretazione sociologia della zombificazione. Luigi dall’essere un
atto criminoso casuale e individuale, la zombificazione, secondo
Davis, è l’estrema sanzione imposta a chi viola gravemente il codice
di comportamento morale e sociale e ad infliggerla sono le società
segrete, strumento di coesione e di azione politica sin dall’epoca
XI
coloniale, oggi custoditi attente del rispetto dell’ordine e delle
tradizioni.
Si comprenderà, quindi, come un’opera che affronta un argomento
così complesso con il supporto di numerose discipline, quali la
medicina, la farmacologia, l’etnologia – per non citarne che alcune –
comporti l’uso di un linguaggio quanto mai vario e, all’interno delle
singole discipline, specifico. A tutto ciò si aggiungono racconti tratti
dal folklore locale, testimonianze dirette e indirette su episodi di
avvelenamenti e di malefici, relazioni sui procedimenti usati dai
fattucchieri per il veleno degli zombi, disquisizioni sui principi
religiosi del Vodu, confronti tra l’immagine pubblica delle società
segrete e le loro reali (o presunte tali) attività e altro ancora.
La traduzione ha, quindi, presentato notevoli difficoltà, prima fra tutte
la necessità di trovare uno stile chiaro e scorrevole e nel contempo
“accademico” per riprodurre il più fedelmente possibile quello
dell’autore, il quale passa agevolmente dalla narrazione alla
descrizione, dal commento alla formulazione di nuove ipotesi,
dell’esperienza personale alla citazione di vari autori, dalla trattazione
scientifica alla dissertazione “de divinis”.
La seconda difficoltà è stata la scelta di termini adatti ad esprimere
una realtà tanto diversa da quella occidentale quale è quella haitiana,
sia nei suoi aspetti magico-religiosi, sia nei suoi aspetti quotidiani.
Proprio per esprimere meglio la peculiarità e la vitalità, le parole
creole e vernacolari sono state inserite nel testo dall’autore per rendere
il linguaggio più immediato e coinvolgente. Lo stesso dicesi per le
parole francesi, siano esse evidenziate o no dal corsivo.
XII
L’espressione “en route” pur essendo oramai nell’uso della lingua
inglese, non è stata tradotta. Wade Davis la usa due volte, la prima, a
proposito dei soldati di Napoleone diretti in Canada per ripristinarvi la
supremazia francese; la seconda volta in riferimento alle navi negriere
in rotta verso gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il termine ”bokor” che Davis usa alternandolo a
“sorcerer”e che in molti testi relativi al Vodu viene tradotto con
stregone, si è preferito lasciarlo in originale, essendo di origine
africana (Fon), come si è fatto per altri termini quali houngan,
honfour, hounsi ecc…
Si è poi tradotto “sorcerer” con “fattucchiere”, in quanto riferito a
colui che prepara le pozioni magiche, i veleni e gli antidoti.
Per “extended family”, alla più comune locuzione di famiglia allargata
si è preferito “famiglia estesa” perché corrispondente al termine
scientifico, italiano usato in etnologia. “Famiglia allargata” viene
usato in sociologia, ma anche nel linguaggio dei media, per indicare le
famiglie formate dai divorziati che risposandosi, inseriscono i loro
figli nel nuovo nucleo famigliare. Nel contesto etnologico, invece, la
famiglia è definita “estesa” perché si sviluppa intorno al capofamiglia,
il patriarca o chef lakou, includendo i figli maschi che dopo il
matrimonio continuano a vivere accanto al padre. Avviene così che la
“extended family” comprenda non solo più generazioni (genitori, figli,
nipoti e pronipoti) ma anche rapporti di parentela indiretta (zii e
nipoti, cugini di vario grado, cognati). Davis fa anche una distinzione
tra la “extended family” cioè quella che include più nuclei familiari e
XIII
la “nuclear family” cioè la famiglia nucleare composta da soli coniugi
con i figli nati dal loro matrimonio.
Ad Haiti ogni famiglia nucleare ha la propria abitazione, una capanna
o una piccola casa in muratura con il tetto di paglia (o di lamiera, se le
condizioni economiche lo permettono). Generalmente un cortile
comune unisce varie abitazioni di parenti, le quali condividono anche
il tempio degli spiriti ancestrali e l’arbre mapou, l’albero sacro.
Questo insieme di case e di nuclei familiari con il tempio e la terra che
costituisce il lakou, viene definito da Davis, un “living compound” a
specificare la stretta unione di uomini, abitazioni, terra, in un tutto
unico, tenuto insieme non solo dai vincoli di sangue o dal possesso
della terra, ma anche dal rispetto e dalla memoria di antenati comuni.
Non avendo trovato un termine italiano che condensasse tutto questo
in una sola parola, si è preferito conservare il termine inglese –
compound che bene esprime questa complessità e nel contempo dà il
senso di una realtà estranea alla nostra.
Lo stesso problema si è presentato con l’espressione “giving up-given
up” usata in psicologia per definire uno stato di rinuncia che si verifica
dopo la perdita di una persona cara. La persona sopravvissuta,
abbandona ogni desiderio di vita, non reagisce alle circostanze e cade
in uno stato di profonda prostrazione e depressione e di conseguenza
si ammala o muore.
Il participio presente “giving up” significa rinunciante e il participio
passato “given up” significa rinunciato, nel senso di spacciato. La
combinazione di queste due forme verbali esprime concisamente ma
XIV
in modo perfetto lo stato d’animo di questo complesso, i cui effetti
sono sempre pericolosi e talvolta letali.
Ho, perciò, lasciato l’espressione in inglese, tanto più che nelle
discipline medico-scientifiche si fa sovente ricorso a termini inglesi.
Per quanto riguarda la vasta trattazione delle piante e delle varietà di
pesci e di rospi velenosi, si sono tradotti solo i termini inglesi,
lasciando invariati i termini creoli o vernacoli. Del resto sia le piante
che i pesci e gli altri animali usati come ingredienti del “veleno dello
zombi” o come antidoto sono accompagnati dal nome in latino con cui
sono classificati. Fanno eccezione alcune piante non ancora
identificate o classificate, il cui nome compare in creolo o in
vernacolo:
Kinoliola
Gomma di bassorin
Avé bayahond
1
INTRODUZIONE
Il Progetto Zombi ebbe inizio nella primavera del 1982, quando il
Botanical Museum di Harvard fu contattato dal compianto Nathan
Kline, un eminente psicofarmacologo, direttore del Rockland State
Research Institute di New York. Kline aveva lavorato ad Haiti per
oltre trent'anni, aveva conosciuto François Duvalier ed era stato un
elemento decisivo nella fondazione del primo ed unico centro
psichiatrico moderno del paese, il Centre de Psychiatrie et Neurologie
Mars-Kline
1
. Il primo direttore del centro era stato Lamarque Douyon,
uno psichiatra haitiano che si era specializzato all'Università Mc Gill,
dove il suo lavoro aveva richiamato l'attenzione di Lehmann, un altro
psicofarmacologo e stretto collaboratore di Nathan Kline. Da quando,
nel 1961, aveva assunto l'incarico di direttore dell'istituto Psichiatrico,
Douyon, con Kline e Lehmann, aveva sistematicamente analizzato
tutti i resoconti popolari sulle apparizioni degli zombi, i tanto temuti
"morti viventi" del folclore Vodu
2
. Nel 1980 i loro sforzi furono
ricompensati dalla scoperta dello straordinario caso di Clairvius
Narcisse.
Quello che rese tale caso fondamentale fu che Narcisse era stato
dichiarato morto nel 1962 all'ospedale Albert Schweitzer di Haiti, una
istituzione filantropica americana che conserva nei suoi archivi
documentazioni accurate e precise. Perciò, oltre al certificato di morte,
Douyon fu in grado di ottenere la cartella clinica che riassumeva il
decorso del caso e i particolari sintomi presentati dal paziente al
momento del decesso. In base a questa documentazione Narcisse era
stato dichiarato morto il 2 maggio 1962 da due medici curanti,
entrambi laureati in America, uno dei quali era di nazionalità
americana. Al momento della morte e al funerale, che era avvenuto
otto ore dopo, erano presenti i membri della sua famiglia. Però, nel
1980, un uomo che affermava di essere Narcisse era tornato al
villaggio e si era presentato alla sorella di lui col soprannome che essa
gli aveva dato da ragazzo. Affermò di essere stato trasformato in
zombi dal fratello diciotto anni prima, a seguito di un litigio per la
cessione di un terreno.
Il caso fu studiato a lungo da Kline e da Douyon. Douyon, con l'aiuto
2
della famiglia di Narcisse, preparò una serie di domande che
riguardavano alcuni avvenimenti particolari del passato famigliare.
Narcisse rispose correttamente a tutto. A seguito dei risultati del
questionario, delle testimonianze degli abitanti del villaggio, dei
membri della famiglia e dei medici, oltre che della perizia legale
effettuata da Scotland Yard sulle impronte digitali presenti sul
certificato di morte; e considerando inoltre che non vi erano motivi
sociali od economici per perpetrare un inganno, Douyon e Kline
conclusero che le affermazioni di Narcisse erano vere. In altre parole,
essi ipotizzarono che Narcisse fosse stato dichiarato morto per errore,
che fosse stato sepolto vivo e che, essendo rimasto vivo nella bara per
un po' di tempo, fosse stato prelevato dalla tomba presumibilmente
dalla stessa persona che aveva organizzato tutta la faccenda.
Se il caso di Narcisse era vero, ci dovevano però essere spiegazioni
razionali, e quindi l'attenzione dell'équipe medica si concentrò sulla
possibile esistenza di una tossina locale
3
che da tempo si diceva
venisse usata nel processo di zombificazione. Da un punto di vista
teorico, era certamente possibile l'esistenza di un preparato
tradizionale che, se somministrato nella giusta dose, avrebbe potuto
causare l'abbassamento del metabolismo ad un tale livello da far
considerare la persona morta. Infatti, dopo aver assunto la tossina, la
vittima sarebbe rimasta in vita e avrebbe potuto essere riportata ad uno
stato di normalità da un antidoto somministrato nel giusto dosaggio ed
entro un tempo prestabilito. L'efficacia medica di tale droga,
soprattutto nel campo dell'anestesia, avrebbe potuto essere molto
importante, ma nessuno ne aveva ancora ottenuto la formula esatta.
Douyon ne aveva spedito un campione al laboratorio di Kline a New
York, ma questo si era rivelato chimicamente inerte. Inoltre Douyon
non aveva potuto assistere alla preparazione del composto e non aveva
neppure avuto la possibilità di raccogliere campioni dei vari
componenti puri. Nella sua relazione spiegò soltanto che nella
tradizione locale esisteva un veleno in polvere con relativo antidoto,
che il veleno veniva posto sul terreno a forma di croce e che bastava
che la potenziale vittima vi camminasse sopra per subirne l'effetto.
Anche Nathan Kline, nonostante i numerosi contatti ad alto livello e la
sua trentennale esperienza ad Haiti, non riuscì a identificare la
misteriosa tossina.