6
L’idea che non vi sia una coincidenza tra il concetto di “attività imprenditoriale” e quello di
“massimizzazione del profitto”, non è di certo un’idea nuova, in quanto essa costituisce il fulcro di
quelle formulazioni teoriche, articolate e multidisciplinari, che, già a partire dalla fine degli anni
settanta, hanno messo in discussione la lettura riduttiva dell’impresa che ancora caratterizza la
teoria tradizionale o neoclassica (Friedman, 1962). In altre parole, a quest’ultima nel corso degli
anni si sono affiancate nuove concezioni che vedono l’impresa come un’organizzazione complessa
chiamata a “rendere conto” a una pluralità di soggetti, con obiettivi non riassumibili e sintetizzabili
nella mera massimizzazione del profitto (Freeman, 1984). Molti passi in avanti sono, dunque, stati
compiuti negli anni, nel tentativo di chiarire il ruolo e lo scopo dell’impresa all’interno del sistema
economico e sociale, fino ad arrivare ad oggi, dove è possibile ammettere che nel sistema
economico, accanto alle forme “tradizionali” di impresa, esistono organizzazioni in grado di operare
in maniera imprenditoriale con finalità differenti dalla massimizzazione del profitto, consistenti nel
raggiungimento di una mission espressione dell’ “interesse generale”.
L’introduzione della legge sull’impresa sociale ha, per esempio, operato in Italia il
riconoscimento dell’attività imprenditoriale orientata al raggiungimento di finalità di utilità sociale
diverse dal profitto che nel corso degli ultimi quindici anni è stata svolta – nell’ambito dei soggetti
del Terzo Settore - dalle cooperative sociali operanti nel settore della fornitura dei servizi di welfare
e nell’ambito dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. In un primo momento, esse hanno
agito anticipando una serie di bisogni sociali che rimanevano insoddisfatti rispetto alle modalità in
cui l’intervento sociale ad opera dello Stato era organizzato. In un secondo momento, esse hanno
integrato i servizi sociali offerti dalle agenzie di welfare organizzato, migliorandoli sotto il profilo
dell’”efficienza”, ma soprattutto, tutte le volte che, in attuazione del principio di sussidiarietà
orizzontale, veniva loro riconosciuta una qualche autonomia, in termini di efficacia degli interventi,
apportando miglioramenti dal punto di vista dell’”efficacia”. Le cooperative sociali si sono
dimostrate in grado di offrire beni ad alto contenuto relazionale favorendo la partecipazione e il
coinvolgimento dei destinatari del servizio, riuscendo in questo modo a realizzare interventi di
qualità superiore rispetto a quelli erogati dallo Stato, accusati di essere piuttosto scadenti e poco
vicini agli effettivi bisogni della persona.
E’ chiaro, dunque, che l’introduzione della qualifica giuridica dell’impresa sociale
rappresenta per la nostra società un grande arricchimento: considerare infatti la legittimità di un
agire economico mosso da motivazioni diverse rispetto al self interest, restituisce una visione più
realistica della complessità delle motivazioni umane e dei comportamenti economici cui esse
sottendono, complessità che tutti abbiamo modo di osservare a vari livelli e in vari gradi di
intensità, come consumatori, come lavoratori, e come imprenditori. Si pensi, ad esempio, alla
7
crescente rilevanza e visibilità che, nei rispettivi ambiti, vengono assumendo fenomeni come il
consumo critico, la finanza etica, l’attenzione alle motivazioni in ambito lavorativo, il
coinvolgimento degli stakeholder e le pratiche di responsabilità sociale delle imprese.
Questo genere di fenomeni sono sintomo del c.d. avvento della post-modernità, per cui in
molte delle società ad economia capitalistica avanzata si assiste ad un vero e proprio mutamento
qualitativo nelle dinamiche di produzione del valore del sistema economico, sia dal lato della
domanda che da quello dell’offerta: lo “sviluppo economico” conosciuto in molte delle economie
occidentali a partire dal secondo dopoguerra ha portato, attraverso una espansione delle libertà reali
dell’individuo in termini di funzionamenti e capabilities, una modifica radicale delle determinanti
del benessere individuale (Inglehart, 2000).
In una fase post-moderna, quale può essere definita quella in cui viviamo, la rilevanza dei
servizi alla persona e dei servizi sociali – ambito di azione privilegiata delle organizzazioni non-
profit e delle imprese sociali - sul livello di “qualità della vita” delle persone si comprende ancor di
più: molto di rado la nuova povertà è una condizione che deriva dalla semplice mancanza di mezzi
economici e beni strumentali, molto più frequentemente, invece, si tratta di situazioni che sono il
risultato di percorsi ben più profondi legati alla marginalità sociale. Ecco che la problematica
identitaria pone al centro del dibattito la produzione di “relazioni sociali” capaci di generare fiducia
reciproca e di incidere sulla qualità della vita del singolo individuo e dell’intera collettività: le
imprese sociali giocano un ruolo cruciale in questa direzione, dal momento che la loro specificità,
(assodato che il vincolo di non redistribuzione degli utili non può essere posto alla base dell’identità
delle imprese sociali) secondo la prospettiva “relazionale” della scuola italiana a cui appartengono
Bruni, Zamagni, Becchetti e Gui, consiste proprio nella capacità di offrire beni relazionali.
Tipologia di beni che non sono in grado di fornire, se non marginalmente, né le organizzazioni
operanti nella sfera del mercato (e informate al principio dello scambio di equivalenti) né le
organizzazioni pubbliche-statali, che pongono il principio di redistribuzione come principio
regolativo delle proprie azioni.
Alimentando la produzione di beni relazionali, le imprese sociali innescano dei circoli
virtuosi: aumentano le occasioni di partecipazione sociale di cui le persone possono fruire,
aumentando il benessere individuale, e incidono, a livello di comunità, sull’aumento del livello di
capitale sociale, che a sua volta influenza positivamente il godimento degli stessi beni relazionali,
prodotti e contestualmente consumati.
In questo senso Zamagni (2005) vede nelle imprese sociali una condizione necessaria (pur
non sufficiente) per consentire al mercato di svolgere appieno il suo ruolo di “regolatore
dell’economia”, ciò per due ordini di ragioni: le prime riferibili alla struttura motivazionale degli
8
agenti economici (c.d. ragioni di natura soggettiva), le altre (c.d. di natura oggettiva), legate alla
natura di tali organizzazioni. In relazione alle prime, l’impresa sociale permette ai soggetti dotati di
motivazioni intrinseche di poter esercitare attività economica in maniera imprenditoriale
assegnandole fini diversi dalla massimizzazione del profitto, mentre in relazione al secondo ordine
di ragioni, tali soggetti possono scegliere una forma di impresa in cui il vincolo di non distribuzione
degli utili di esercizio rappresenta – come sottolinea Zamagni (2005) - una sorta di pre-committment
per l’imprenditore sociale, il quale si impegna a non sfruttare in modo opportunistico i vantaggi che
gli derivano tanto dalle asimmetrie informative quanto dall’incompletezza contrattuale a danno di
consumatori e di lavoratori.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la valenza culturale dell’introduzione della
qualifica giuridica dell’impresa sociale consiste nell’aver di fatto operato un riconoscimento
dell’esistenza, in ambito economico, di motivazioni all’agire economico diverse dal self interest e
non ad esso riconducibili, e una legittimazione di tali comportamenti a livello imprenditoriale, per
quanto come alcune teorie economiche abbiano affermato la non necessaria coincidenza della
finalità di lucro con il concetto di imprenditorialità.
La presenza di una forma di agire imprenditoriale che si pone finalità di utilità sociale
arricchisce, senza dubbio, il nostro sistema economico, e rappresenta il primo passo visibile verso il
riconoscimento dell’esistenza di una pluralità dei tratti comportamentali degli agenti economici cui
corrisponde una complessità motivazionale che non può essere colta dalla prospettiva degli approcci
tradizionali, che considerando tutti i comportamenti riconducibili ad un’unica motivazione
sottostante, operano una lettura riduttiva del comportamento umano e, in generale, dei fenomeni
sociali ed economici.
Un allargamento di prospettiva, nell’ambito economico, risulta oggigiorno indispensabile,
per poter studiare in maniera “ragionevole” il comportamento umano. Il principio dello scambio di
equivalenti non può più, infatti, essere considerato unico e dominante nella lettura dei
comportamenti degli agenti economici.
Una visione più ricca dell’azione economica che include la valenza di creazione e
trasmissione dei valori, la creazione e riproduzione della cultura di gruppo è rappresentata proprio
dalla prospettiva relazionale della scuola italiana. Essa altro non è che una prospettiva che integra
quella tradizionale dell’Homo oeconomicus, in quanto in grado di tenere conto sia della molteplicità
delle “ragioni” che spingono gli agenti a partecipare al gioco economico che della molteplicità dei
“fini” che essi assegnano alle loro azioni.
9
Struttura del lavoro
La tesi si struttura in quattro capitoli
1
.
Nel primo capitolo della tesi si propone, attraverso l’esame di due diverse prospettive di
analisi, una rassegna del dibattito sul concetto di responsabilità sociale di impresa ricollegando
questo dibattito all’emergere di una tesi sulla natura dell’impresa differente da quella tradizionale.
Punto di partenza è il seguente interrogativo: Cosa caratterizza il fare impresa? Il fine della
massimizzazione del profitto oppure la capacità di generare valore aggiunto a vantaggio di tutti i
portatori di interesse? Sulla base di tali quesiti si chiarisce, quindi, come, mentre secondo le teorie
che rientrano nella “prospettiva neoclassica o utilitarista” la finalità sociale propria dell’impresa è il
perseguimento del profitto, nelle teorie che rientrano nella “prospettiva relazionale” la finalità
sociale propria dell’impresa è l’equilibrio e il contemperamento dei molteplici valori e interessi che
questa organizzazione produttiva mette in campo: da una parte gli interessi dell’impresa stessa
come istituzione autonoma; dall’altra, le legittime aspettative dei portatori di interesse. Il capitolo,
come gran parte della tesi, senza trascurare i contributi della letteratura internazionale (Clark,
Bowen, Friedman, Davis, Klonosky, Frederick, McGure, Freeman, Freeman e Evan, Donaldson e
Dunfee e Carroll) dedica particolare attenzione alla scuola italiana (Bruni, Zamagni, Gui, Borzaga,
Becchetti, Antoci, Sacco e Vanin, in particolare) il cui contributo è al centro della discussione sui
temi del ruolo economico delle iniziative “sociali” e “civili” in Europa e nel mondo. In particolare,
obiettivo di questo capitolo è analizzare l’evoluzione del concetto di responsabilità sociale alla luce
dell’emergere di una diversa e nuova prospettiva sulla natura dell’impresa.
Nel secondo capitolo, si approfondisce il tema dell’impresa sociale, “nuova” tipologia di
impresa con peculiarità assai rilevanti per la teoria economica. L’impresa sociale è, infatti, una
realtà del settore non profit che si caratterizza per diversi aspetti: in primis “natura imprenditoriale”
e “perseguimento esclusivo di finalità sociali diverse dalla massimizzazione del profitto”, ma anche
per trasparenza e correttezza della gestione sia economica che sociale, garanzia di un adeguato
livello di partecipazione democratica degli stakeholder, capacità di migliorare la qualità della vita
dei cittadini e delle comunità locali, etc. In altri termini, l’impresa sociale segue una strategia per la
quale la destinazione della ricchezza economica prodotta è nella direzione della sopravvivenza e
1
I temi trattati in questa tesi sono stati oggetto di un dibattito intenso e vivace che ha generato anche “parole” e
concetti nuovi che hanno alimentato confronti e discussioni. Ecco perché si è scelto di dare spesso spazio alle
affermazioni autentiche degli stessi protagonisti di questo interessante “filone di letteratura”.
10
dello sviluppo dell’organizzazione nel suo “insieme”, piuttosto che in quella della soddisfazione di
obiettivi personali di tipo egoistico. In tal modo, essa assume il suo significato più corretto di
tensione verso un obiettivo di sviluppo dell’impresa, nell’interesse di tutti gli stakeholder, attraverso
la crescita e cioè la creazione di valore. Più nel dettaglio, in questo capitolo si cerca di rispondere,
partendo dai contributi seminali di Weisbrod e Hansmann, a due interrogativi di fondo. Che cosa è
l’impresa sociale? Come si giustifica la sua esistenza nelle economie di mercato? Obiettivo di
questo capitolo è, quindi, anche quello di mostrare come questa realtà non sia inquadrabile
nell’approccio tradizionale, all’interno, cioè, di una descrizione dell’economico nella quale gli
agenti si muovono sempre e solo sulla base del self-interest. Ne deriva la necessità di allargare la
prospettiva di indagine in modo da integrare l’economico ed il sociale e da dare fondamento alla
possibilità di (e quindi, spiegare) esistenza e (il) funzionamento efficiente di una istituzione
imprenditoriale che abbia un obiettivo diverso dalla massimizzazione del profitto. In quest’ottica,
essere “impresa” non vuol dire generare profitti da distribuire agli azionisti, ma significa
organizzare fattori produttivi per la realizzazione di beni e servizi nel rispetto degli obiettivi
prefissati. Ciò che caratterizza il fare impresa è, dunque, la capacità di generare valore aggiunto a
vantaggio di tutti e non il fine perseguito da coloro che pongono in essere un’attività economica.
Nel terzo capitolo, si indaga sulla rendicontazione sociale (Matacena, Rusconi, Superti
Furga, Vermiglio e Frederick) strumento ampiamente utilizzato dalle imprese sociali e
profondamente connaturato alle loro caratteristiche. Tra le pratiche di responsabilità sociale ha,
infatti, una importante rilevanza - storica, metodologica e normativa - il bilancio sociale. La
redazione di tale documento si presenta come costruzione partecipata di un sistema di riferimenti
che permette la gestione e la comunicazione, rispetto agli stakeholder individuati come rilevanti,
degli effetti economici che non possono essere espressi nel bilancio ordinario. Obiettivo di questo
capitolo è definire ed analizzare il bilancio sociale, strumento principe che connota non solo un
agire socialmente responsabile ma soprattutto l’adesione alla prospettiva relazionale. In particolare,
si esamina il bilancio sociale dapprima da un punto di vista generale e, poi, più nello specifico, sulla
base del decreto legislativo 155/2006, in cui si impone all’impresa sociale di redigere il documento
in oggetto. Infine, a partire da casi-studio, dall’analisi cioè di bilanci sociali redatti da imprese
sociali campane, si porrà il focus sull’oggetto della rendicontazione sociale limitatamente però alle
“risorse umane”, essendo i “lavoratori”, in virtù di quanto statuito nel DLgs 155/2006, gli
interlocutori privilegiati dell’impresa sociale (responsabilità sociale rispetto alle risorse umane).
Nel quarto capitolo la prospettiva di indagine si allarga dalla comprensione della natura del
fondamento teorico dell’impresa sociale e della responsabilità sociale, alla riflessione su come un
11
diverso approccio a queste realtà apra possibilità nuove di declinare il tema della felicità, tornato di
recente alla ribalta degli studi economici (Cantril, Easterlin, Frank, Dixon, Frey, Stutzer,
Kahneman, e tra gli italiani, Becchetti, Bruni, Porta e Stanca). Anello di congiunzione (fil rouge) tra
i diversi temi è la categoria dei beni relazionali: beni invisibili che le persone si scambiano
intrattenendo rapporti e che incidono sul loro benessere. In particolare, usando i dati dell’Indagine
sulle Cooperative Sociali Italiane del 2007, si procede a verificare, con riferimento al caso più
evidente di impresa sociale oggi esistente in Italia (le cooperative sociali), proposizioni da
ricollegare alla precedente ricostruzione teorica. In altri termini, obiettivo principale di questo
capitolo è analizzare il “ruolo sociale” dell’impresa sociale nell’aumentare la soddisfazione per la
vita relativamente però ad una sola categoria di stakeholder: i lavoratori. Più nello specifico,
l’analisi econometrica si concentrerà non solo sul livello di benessere soggettivo dei lavoratori attivi
all’interno di imprese sociali italiane, ma, in particolar modo, su quelli che svolgono o che hanno
svolto attività di volontariato, in quanto, come dimostrato da numerose indagini empiriche
(Becchetti; Meier e Stutzer), la partecipazione sociale che, in un certo senso, può essa stessa essere
assimilata ad un bene relazionale, proprio perché implica interazione a vari livelli, svolge un ruolo
chiave nel processo di creazione dei beni relazionali e, quindi, di felicità. In altre parole,
considerando i risultati di alcune ricerche empiriche secondo cui la scarsa produzione/consumo di
beni relazionali rappresenta una delle principali cause della diminuzione della felicità nelle
democrazie di mercato (Lane; Antoci, Sacco e Vanin), obiettivo di questo capitolo conclusivo è
indagare sul nesso “impresa sociale, beni relazionali e felicità”.
12
1.
Il dibattito sulla “responsabilità sociale” alla luce delle teorie
sulla natura dell’impresa
Introduzione
“Non ho mai visto fare qualcosa di buono da chi pretendeva di commerciare per il bene
comune
2
” (Smith, 1776, pag. 456).
Questo è quanto ha affermato, nella seconda metà del Settecento, Adam Smith. In altre
parole, secondo il padre fondatore della moderna Economa Politica qualunque azione che si
propone come scopo “diretto” quello di promuovere il bene comune produrrà effetti perversi per
l’impresa e per la società. All’opposto, chiunque agisce in vista del proprio interesse esclusivo, è
guidato dalla nota mano invisibile del mercato a conseguire uno scopo che non era nelle sue
intenzioni originarie, ovvero il benessere di tutta la società.
Più nello specifico, nell’ottica smithiana, l’impresa non è mossa dalla ricerca del bene
comune, bensì dal solo self-interest
3
. Il mercato, però, quando funziona, è proprio quell’istituzione
che fa sì che questa impresa, senza volerlo e spesso senza esserne consapevole, contribuisca
indirettamente al “bene di tutti e di ciascuno”, creando cioè posti di lavoro, prodotti di qualità,
innovazione tecnologica, ricchezza, e altro ancora.
Dai tempi di Adam Smith, il tema dello scopo e del ruolo dell’impresa all’interno del
sistema economico e sociale è oggetto di costante dibattito. Oggi, però, a fronte dell’interazione tra
“sviluppo economico globale” e “sfide sociali globali” che ha portato a sensibili mutamenti nelle
aspettative della società circa il ruolo e le responsabilità dell’impresa nella società, è indispensabile
giungere ad una ridefinizione
4
dello scopo dell’impresa, con particolare riferimento all’esame dei
mezzi attraverso i quali i benefici derivanti dall’attività imprenditoriale dovrebbero essere generati e
dei criteri da impiegare per la loro distribuzione.
2
Per un approfondimento di questo concetto, complesso e poliedrico, cfr. Shcherbinina (2004).
3
Cfr., Verde (2007).
4
A questo tema è dedicato il volume di Post, Preston e Sach (2002).
13
Obiettivo principale di questo primo capitolo è, pertanto, l’evoluzione che il concetto di
“mission”, scopo che guida l’agire d’impresa, ha subito nel tempo, in quanto elemento-chiave al fini
dell’individuazione della “responsabilità” o, come si vedrà più avanti, delle “responsabilità”
dell’impresa.
Le domande fondamentali che ci si pone sono, pertanto, quelle concernenti il ruolo
dell’impresa nella società: che cosa è l’impresa, e nei confronti di chi e di che cosa essa e i suoi
manager sono responsabili?
5
E ancora. Da quali teorie deriva l'idea che l'impresa abbia una serie di
responsabilità nei confronti di uno o più portatori di interesse? Quali incentivi e motivazioni
spingono gli agenti economici a dare attuazione alle buone pratiche
6
? Si riuscirà a coniugare
un’“autentica” responsabilità sociale con il conseguimento del massimo profitto, imperativo
categorico della nostra miope economia mai, però, sostituito con altri imperativi altrettanto semplici
e chiari? Perché ad un tratto vi è la riscoperta – per usare una metafora - delle “fabbriche che
producono offrendo posti di lavoro dignitosi” e, all’opposto, sono sotto accusa quelle organizzate
nelle “baracche in Cina” che per decenni hanno soddisfatto la domanda mondiale?
E’ a partire proprio da questi quesiti che si svilupperà il tema della responsabilità sociale di
impresa
7
(RSI o CSR, acronimo anglosassone che sta per Corporate Social Responsibility).
L’attributo “sociale” che si accompagna al concetto di responsabilità sottende a due diverse
visioni. Secondo una prima visione, l’attività d’impresa produce delle evidenti “esternalità”
esplicanti effetti su beni comuni, sia materiali che non, rispetto a cui ogni essere vivente sulla terra
può rivendicare diritti o difendere interessi. Una seconda visione rimanda, invece, il concetto di
sociale all’idea della redistribuzione della ricchezza prodotta ed alla possibilità di un ruolo
sussidiario rispetto a compiti assegnati, generalmente, a soggetti pubblici ed istituzionali
8
.
In questo capitolo, per dare risposte alle domande summenzionate, si discuteranno dapprima
le teorie riconducibili al noto paradigma “utilitarista”, secondo cui l’impresa ha una “sola”
responsabilità sociale: fare profitto
9
, per cui la possibilità di trovare dei benefici di natura
economica è l’unica giustificazione ai comportamenti socialmente responsabili. In quest’ottica,
come si avrà modo di vedere più avanti, la responsabilità sociale ha natura strettamente
5
Cfr., D’Orazio (2004).
6
Nella terminologia anglosassone l’espressione “best practice” indica tutto quelle “azioni”, o meglio quei
“comportamenti” posti in essere dalle imprese, nel rispetto di valori etici e morali. In altri termini, per “buone pratiche”
si intende tutto ciò che rientra in un agire socialmente responsabile. Sul punto si rinvia al terzo capitolo.
7
Per una panoramica delle diverse prospettive di definizione ed analisi del concetto di responsabilità sociale
presenti nel panorama nazionale, cfr. Salani (2003); D’Orazio (2003); Rusconi e Dorigatti (2004); Sacconi (2005); Beda
e Bodo (2004); D’Orazio (2003); Salani (2004); Becchetti (2005).
8
Le due possibili accezioni ascrivibili all’attributo “sociale” sono state messe in evidenza da Claudio Mordà,
nel contributo da lui dato al dibattito sulla responsabilità sociale, avviato da LaVoce (marzo 2005).
9
Quest’idea è stata espressa, in modo esplicito, in un articolo pubblicato sul New York Times Magazine, nel
1970, intitolato “The social responsibility of business is to increase its profits” (Friedman, 1970).
14
“strumentale”. Secondo questa prospettiva utilitarista, derivata dall’assioma dell’homo
oeconomicus, l’impresa è un’istituzione “economica", il cui compito è quello di creare e distribuire
ricchezza
10
.
Si esamineranno, poi, le teorie riconducibili al cosiddetto paradigma relazionale, secondo
cui l’impresa ha “molteplici” responsabilità: economiche, legali, etiche e discrezionali. Di
conseguenza, compito di quest’ultima non può essere la sola massimizzazione del profitto, cioè la
differenza tra i ricavi e i costi, bensì soddisfare anche le esigenze e le aspettative dei diversi
portatori di interesse in ragione di doveri morali e/o di principi etici. In questa prospettiva di analisi,
la responsabilità sociale, diversamente da quanto sostiene il paradigma utilitarista e come si avrà
modo di argomentare, ha natura “non strumentale”. Inoltre, l’impresa - in virtù del ruolo sociale che
gioca all’interno della collettività - non può essere intesa solamente come un’istituzione economica,
ma necessariamente anche come un’istituzione “sociale”. A questo proposito, appare utile riportare
la definizione elaborata da Bertini, secondo il quale l’impresa può essere definita come
“(…) un’istituzione sociale in quanto creata dagli uomini per il raggiungimento di finalità
umane nel contesto della collettività organizzata” (Bertini, 1990; pag. 34).
All’origine del passaggio da una a più responsabilità sociali delle imprese vi è la
consapevolezza di un cambiamento avvenuto nei termini del contratto tra “società” e “impresa”,
cambiamento che riflette un mutamento profondo nelle aspettative della società nei confronti delle
imprese. Il “vecchio contratto” tra società e impresa era, infatti, basato sull’idea che lo sviluppo
economico fosse la fonte del progresso economico e sociale, e che motore di tale sviluppo fosse la
ricerca del profitto da parte di imprese private in concorrenza tra loro: l’impresa nel produrre beni e
servizi in vista del profitto per gli azionisti/proprietari dava il suo massimo contributo al benessere
della società. All’opposto, il “nuovo contratto” tra società e impresa, presupponendo l’idea che la
ricerca dello sviluppo economico, mosso dall’obiettivo di raggiungere il massimo profitto, non porti
necessariamente al progresso sociale ma, anzi, possa condurre all’inquinamento ambientale, a lavori
pericolosi per la salute dei dipendenti etc., che impongono costi sulla società, richiede la riduzione
di tali costi facendo accettare all’impresa il principio che essa ha l’obbligo di operare in vista del
miglioramento socio-economico.
Questa idea fu ben espressa dal Committee for Economic Development già nel 1971:
“Oggi è chiaro che i termini del contratto tra società e imprese sono, di fatto, mutati in
modo sostanziale e importante. All’impresa è richiesto di assumere responsabilità verso la società
10
Cfr., Smith (1776).