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INTRODUZIONE
Quella che andrete a leggere, è la storia di una passione nata grazie ad un percorso di
studi che si è scelto di intraprendere in un’età che può essere definita adulta. Proprio
questo non essere più giovane, mi ha permesso di avere una maggiore consapevolezza
verso gli studi affrontati; in modo particolare è stata la semiotica, anzi, ad essere più
precisi la sociosemiotica, ha catturare la mia attenzione, affermandosi come una
disciplina che si occupa di comprendere come diamo senso a tutto ciò che ci circonda e
di cui facciamo esperienza: le persone, gli oggetti, i pensieri, le parole, i testi. Stabilisce
per qualunque cosa o per qualunque oggetto un significato socialmente condiviso. E’
stata proprio questa nuova prospettiva di significazione del mondo, che mi ha
entusiasmata e mi ha permesso di andare oltre ciò, che per me, fino a quel momento era
stato il confine delle cose. Ho iniziato a leggere le pubblicità, gli articoli dei giornali, ad
ascoltare la radio, a vedere un programma in tv o una serie televisiva con occhi diversi.
Fino a quando è arrivato il mio primo studio sull’analisi di Shrek, il film d’animazione
delle Dreamworks che nel 2001 sbancò i botteghini di gran parte dei cinema occidentali
raccontando le vicende di un orco verde e della sua amata orchessa che, invece di vivere
nella bellezza e nelle regole del regno in cui tutti auspicano di abitare, decidono di
stabilirsi in una palude puzzolente e ben lontana dai cliqué comunemente condivisi. Il
modello culturale che fino a quel momento conoscevo, che tutti conoscevano, era stato
ribaltato: l’era della favola Disneyana sulla bella principessa bionda ed il suo principe
azzurro, era finita. Sebbene completamente spiazzata ma anche divertita ed incuriosita
da quanto appreso, ho deciso di non fermarmi lì, alla fruizione di quella sola pellicola
ma di andare oltre, molto oltre, fino a prendere in esame altri cartoni della stessa casa di
produzione ed ancora, altri, appartenenti alla concorrente Disney-Pixar. Vedere cosa li
accomunasse o cosa li rendesse differenti sia da un punto di vista delle strutture
narrative che da un punto di vista più pragmatico e, a ben guardare sociale, è ciò che più
di tutti mi ha interessata sin dall’inizio.
Cosa si aspettavano di vedere tutte quelle famiglie che sedevano comodamente sulle
poltrone di un cinema multisala con coca-cola e pop-corn alla mano? Ed ancora, la
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fruizione di queste pellicole cinematografie, era ancora esclusivamente per un pubblico
di bambini che entravano mano nella mano della mamma e del papà? O anche questi
ultimi, finalmente, sedevano al cinema con la consapevolezza di non essere più solo
accompagnatori ma, fruitori di una storia cinematografica fatta si di luci, colori e grafica
in 3d ma anche, e soprattutto, di un significato profondo che potesse andare oltre la
fantasia, legandosi piuttosto alla realtà del quotidiano? E quale era questa realtà, questo
modello culturale veicolato dalla Disney-Pixar? E dalla Dreamworks? Ma, andando
ancora più in profondità, questi modelli culturali prettamente statunitensi, visto la
collocazione geografica delle due case di produzione, erano condivisi anche al di là
dell’oceano? Noi europei, seduti sulle poltrone dei nostri multisala, davamo lo stesso
significato che davano gli americani ai frame che ci scorrevano davanti?
Tutte queste sono state le domande che mi sono posta all’inizio di quello che potremmo
chiamare, uno storytelling sui film d’animazione e, nello specifico, quelli della Disney-
Pixar e della Dreamworks che vanno dal 2001 al 2015. Non sono state però visionate
tutte le produzioni realizzate nell’arco di quegli anni, piuttosto quelle che per le
rispettive case d’animazione sono risultate essere le più famose e conseguentemente
vincitrici d’incassi: nove film per la Disney-Pixar e nove per la Dreamworks.
Ovviamente per dare una risposta a tutte le domande che mi ero posta, non bastava
semplicemente guardare i film con un occhio sociosemiotico, era piuttosto necessario
costruire un modello d’analisi che fosse costituito da strumenti appartenenti alla
disciplina della sociosemiotica (che come abbiamo già detto all’inizio di questa
introduzione, è la materia di studio con la quale si è deciso di approcciare a questa
ricerca ed affonda le sue radici nella semiotica sassuriana, sviluppando al suo interno un
modello più completo ed esaustivo di analisi), tale da permetterci di estrapolare il
significato più profondo dei film che si sarebbero andati a vedere. E’ stato pertanto
necessario realizzare un intero capitolo in cui descrivere questo modello d’analisi che si
era deciso di costruire ma senza tralasciare ovviamente un primo paragrafo dello stesso,
in cui si andava a raccontare cosa fosse la nuova scienza del sociale, definita appunto
sociosemiotica. E’ nato così il capitolo due di questo lavoro.
Ma non era possibile descrivere il significato profondo dei diciannove film
d’animazione tanto della Disney-Pixar che della Dreamworks, senza prima sapere cosa
fosse davvero il cinema d’animazione, quali fossero le sue radici storiche, il suo
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sviluppo e le tecniche che in esso venivano utilizzate ed ancora, analizzare quale fosse
l’utenza di questo tipo di cinema: adulti con bambini oppure adulti e bambini? Era
necessario un capitolo per questo oggetto della ricerca: il capitolo uno.
Si è arrivati conseguentemente, alla realizzazione del capitolo tre, avvenuta però dopo
circa un mese da quella dei primi due capitoli, in quanto la visione di tutti e diciannove i
film richiedeva attenzione e soprattutto non una singola fruizione, bensì, una doppia
visione (alcune pellicole sono state viste anche tre volte) e con tanto di carta e penna
alla mano. Il modello d’analisi che avevamo costruito e descritto nel capitolo due, era
ora necessario durante tutta la visione filmica. Per ogni pellicola è stata realizzata una
scheda tecnica che rispondeva ad ognuno degli elementi del modello d’analisi costruito
e che è stata necessaria, per non dire essenziale, ai fini di una prima bozza di storytelling
filmico. L’analisi definitiva che ne è venuta fuori è stata sorprendente: il modello
culturale portato avanti dalla Disney-Pixar e dalla Dreamworks ha ulteriormente aperto
una finestra sul mondo in cui vivevo, in cui a tutt’oggi vivo. Ma ciò che mia ha
ulteriormente sorpresa ed anche gratificata, è stato realizzare che proprio attraverso la
costruzione del modello d’analisi e con un uso capillare dello stesso in ogni pellicola,
avevo scoperto una variante di un modello d’analisi già esistente. Era necessario dargli
un nome e così ho fatto.
Il capitolo tre era terminato, seppur avrei continuato ancora ed ancora a scriverlo, visto
che ogni film portava con se un’infinità di contenuti e di collegamenti con gli altri e di
conseguenza con la cultura veicolata dagli stessi, che altro non era poi che la nostra, ma
come ben si sa, un lavoro tesistico risulta buono anche perché ha la capacità di rientrare
in un certo numero di battute e considerando che mi dovevo ancora dedicare alle
conclusioni, era giusto terminarlo.
Si giunge pertanto alle conclusioni, personalissime e che possono anche non essere
condivise ma che sicuramente, in parte, per quella parte più tecnica della socio
semiotica, sono veritiere, in quanto sono il frutto di un’analisi che già precedentemente
abbiamo definito essere capillare, attraverso l’utilizzo degli strumenti semioticamente
riconosciuti a livello della comunità scientifica. Proprio in riferimento alla comunità
appena menzionata, ci tengo a sottolineare come gran parte di questo lavoro, sia stato
possibile grazie alle riflessione e agli studi di molti semioti del nostro tempo ma di
studiosi in generale, che hanno operato su tutto il mondo della narrazione, a partire dal
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mito, per giungere fino ai film d’animazione d’oggi, permettendoci e, nello specifico
permettendomi, di realizzare questo storytelling che mi auguro possa essere per voi
tutti, una piacevole ed interessante lettura.
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CAPITOLO 1: IL CINEMA D’ANIMAZIONE
Scrive Gianni Rondolino: “Il termine animazione, cioè l’operazione di animare
qualcosa, significa innanzi tutto dare l’anima, diffondere il principio della vita, produrre
il movimento: è un termine che ha qualcosa di divino , che supera i confini della tecnica.
Sicché, se scrivere il movimento, cioè cinematografare, significa dare vita a qualcosa di
inanimato, allora tutto il cinema è ed è sempre stato cinema d’animazione”.
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Il cinema d’animazione, risultante delle diverse forme in cui si articola, è un operazione
tecnica che va al di là sia della riproduzione meccanica della realtà fenomenica, sia dall’
uso della macchina da presa. Nonostante il pubblico ad un primo approccio abbia la
percezione di fruire uno spettacolo cinematografico come tutti gli altri, ad uno sguardo
più attento risulterà invece chiara la peculiarità che lo rendono un cinema tout court,
realizzato e concepito in modi e forme autonome e contraddistinte. Si è osservato ad
esempio, come un film realizzato con la tecnica del cinema dal vero ed uno con la
tecnica dell’animazione possano risultare persino in contrasto tra loro. Il primo si rifà
alle fonti del teatro e della letteratura mentre il secondo segue le strade percorse dal
fumetto, dalla letteratura per l’infanzia, dalla pittura e dalle arti figurative in genere.
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Gli
stessi operatori si trovano a confrontarsi con approcci lavorativi completamente diversi;
se il regista cinematografico è sempre condizionato dalla realtà esterna, l’autore del film
d’animazione parte da un foglio bianco come ben scrive Rondolino
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e crea la sua opera
in ogni singola parte. Se lo si osserva nelle sue più profonde caratteristiche estetiche e
linguistiche, il cinema di animazione si presenta come un mezzo espressivo autonomo
rispetto al cinema dal vero, non a caso infatti esso è stato definito “la settima arte bis”
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Si evince che la settima arte ci cui si sta parlando si realizza attraverso diverse tecniche
che andremo ora ad elencare e descrivere brevemente. Il disegno animato che si ottiene
disegnando una alla volta le singole immagini o disegni che dir si voglia, che vengono
1
G. Rondolino,Storia del cinema d’animazione, Torino, Utet, 2003, prefazione
2
G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Torino, Utet, 2003, pp. 4-9
3
Ivi, p.15
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Definizione coniata da Ricciotto Canudo nel 1921 nella sua pubblicazione “La nascita della settima
arte”,1911