Capitolo I
L’interpretazione musicale
1.1. L’esigenza interpretativa
Beate le arti che non hanno bisogno d’interpreti
1
(Arrigo Boito)
Quali arti non hanno bisogno d’interpreti? È questa la prima osservazione
che emerge dall’affermazione di Arrigo Boito. In realtà, tutte le arti per
essere vive devono essere interpretate. Chiunque si ponga davanti un’opera
d’arte e la guardi, la legga, l’ascolti e la fruisca con intelligenza e gusto, è di
fatto un interprete.
2
Ma per quanto riguarda la musica affinché l’interprete‐
spettatore possa trovarsi di fronte l’opera d’arte occorre la mediazione di
un interprete‐esecutore. Da qui la preoccupazione di Boito di doversi
affidare a una terza persona per l’espressione della sua creazione,
sentimento condiviso pure da Lully che, dopo aver inviato una partitura a un
direttore di un teatro, disse: «fine delle gioie, inizio dei guai».
3
Il compositore è consapevole che la realizzazione scritta della sua idea
musicale non è, né potrà mai essere, totale; come scrisse Liszt, non si riesce
1
Andrea Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, Torino, Utet, 1951, p. 23.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 9.
a fixer sur le papier ce qui fait la beauté de l’exécution.
4
Il compositore di
musica deve servirsi di modi mediati e indiretti: di simboli, di convenzioni, di
indicazioni e didascalie che costituiscono soltanto un equivalente grafico
tradizionale della musica che suona in lui. La partitura del Tristano, per
quanto accurata e densa di segni grafici, non può mai essere nel suo aspetto
tangibile la musica di Wagner, come invece il quadro della Gioconda è tutto
il momento pittorico di Leonardo.
5
L’opera musicale non è come le altre
opere d’arte: il suo aspetto esteriore e visibile non è che un simbolo del suo
essere interiore e invisibile, e, come una Bella addormentata nel bosco che il
suo principe dovrà risvegliare, essa attende che l’interprete la svegli dal
sonno della partitura.
6
L’opera musicale non può vivere di una vita
indipendente perché il suo esistere dipende dal segno e non può
sopravvivere senza esso; tuttavia la sola traduzione del segno non
garantisce la restituzione dell’opera.
7
Se un pianista esegue una sonata di
Beethoven con una precisione meccanica da riprodurre esattamente il
grafico di quella sonata e riesce a darci in suoni una perfetta fotografia di
ciò che la pagina stampata è in segni, non possiamo dire che quella è una
interpretazione poiché una macchina avrebbe potuto giungere allo stesso
risultato, anzi a un risultato migliore quanto a riproduzione meccanica. Non
vibrando nell’esecuzione l’anima di un artista, quell’esecutore non ci ha
dato la sonata di Beethoven: lo spirito del grande musicista era del tutto
4
Gisèle Brelet, L’interpretation créatrice: essai sur l’exécution musicale, Paris, Presses universitaires de France,
1951, p. 4.
5
Cfr. Giorgio Graziosi, L’interpretazione musicale, Torino, G. Einaudi, 1967, p. 17.
6
Brelet, L’interpretation créatrice: essai sur l’exécution musicale cit., p. 2.
7
In realtà nemmeno la conservazione dei segni su un supporto cartaceo garantisce la possibilità di recupero del
suono poiché è sempre necessaria la trasmissione della prassi di decodifica del testo musicale. L’introduzione
della scrittura musicale non comporta l’abbandono di quei sistemi di trasmissione orale necessari per
conservare l’indispensabile bagaglio di conoscenze mirato a decodificarla. Una trasformazione nel tempo della
prassi musicale può rendere infatti indecifrabile quanto realizzato in passato, e questo anche se fissato
mediante la scrittura. Cfr. Nicola Scaldaferri, Perché scrivere musiche non scritte? Tracce per un’antropologia
della scrittura musicale, in Enciclopedia della musica, Torino, Einaudi, volume V, 2005, p. 507‐511.
assente e nessuna emozione possono suscitare in noi tutte quelle note,
quegli accordi, quei ritmi svuotati di contenuto artistico.
8
L’esecuzione
musicale, come afferma Hegel, esige un’attività artistica e non
semplicemente meccanica come avviene per l’architettura. Lo studioso
grazie alla rievocazione dell’ambiente storico, a un attento studio filologico
e alle indicazioni del creatore stesso potrà scoprire l’essenza dell’opera:
[…] è tanto inesatto negare al testo la possibilità di favorire la precisione, quanto
asserire che in esso tutto è detto. Da una parte il testo può resistere alla penetrazione
dell’interprete; dall’altra la competenza, l’entusiasmo, la tenacia, agiscono e vincono, per
quanto la mente umana può essere vittoriosa dei misteri dello spirito creatore.
9
L’esigenza di interpretare la musica non si presenta soltanto quando il
compositore e l’esecutore sono due persone distinte, poiché se così fosse
ne deriverebbe che le migliori esecuzioni siano quelle in cui le figure
dell’autore e dell’esecutore coincidono.
10
Come testimonia Boulez spesso
non è così:
8
In Il problema dell’interpretazione nelle pagine della Rassegna musicale: 1930‐1961, a cura di Massimo Mila,
Torino, Einaudi, 1972, pp. 4‐5.
9
Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, cit., p. 10.
10
Basti da esempio la triste aneddotica sulla direzione di Beethoven delle proprie opere. Come afferma Andrea
Della Corte «neanche nei migliori anni Beethoven sembrò particolarmente dotato delle qualità tecniche
necessarie ad un direttore d’orchestra»; pare infatti che, esclusi i problemi dovuti alla sordità, le difficoltà di
Beethoven derivassero da occasionali distrazioni (alla prima della Quinta e Sesta sinfonia dimenticò di aver
concordato con i suonatori di sopprimere alcuni ritornelli) e soprattutto da una tecnica comunicativa non molto
efficace «nel diminuendo pianissimo s’abbassava fino a scomparire quasi sotto il leggio; nel forte batteva i piedi,
s’elevava giganteggiando, agitava le braccia come nel moto delle onde. Pochissimo esigente, trascurava le
prove, sperando nella riuscita dell’esecuzione». Ivi, pp. 93‐94.
A dire il vero, riconosco in me una specie di schizofrenia tra il compositore e l’interprete:
io interpreto me stesso in un certo modo, ma in futuro altri interpreti si troveranno
probabilmente più a loro agio di me con le mie stesse opere.
11
L’interpretazione pertanto non è riducibile alla sola comprensione di un
pensiero altrui poiché ci si può ritrovare a interpretare se stessi. Questo
avviene perché nella composizione si distinguono due momenti: l’atto
dell’invenzione e l’atto della scrittura. L’atto dell’invenzione resta relegato
in un vissuto irrecuperabile di cui ci resta soltanto un testo scritto, quindi
risulta difficile stabilire quanto della primitiva intenzione si è tradotto in
scrittura e quanto no.
12
La partitura non è né fedele né infedele alla realtà
musicale in quanto non è la copia della musica ma è un altro tipo di realtà,
perfetta o imperfetta che sia, facile o difficile che sia a interpretarla, è
l’unico mezzo a disposizione dell’esecutore per ristabilire l’opera musicale
nella sua fuggevole realtà. Per quanto il compositore possa arricchire la
scrittura di indicazioni di ogni tipo, di precisazioni espressive, ritmiche,
timbriche, dinamiche etc., esse non saranno mai nulla più che vaghi
suggerimenti o indicazioni per ricostruire una realtà del tutto diversa
rispetto ai simboli grafici della pagina scritta. L’incompletezza della partitura
fa parte dunque della stessa condizione di esistenza della musica e della sua
esigenza di essere interpretata, cioè riportata in vita ad ogni sua nuova
esecuzione.
13
11
Pierre Boulez, Testo, compositore, direttore d’orchestra, in Enciclopedia della musica, Vol. II. Il sapere
musicale, a cura di Jean‐Jacques Nattiez, Torino, Einaudi, 2002, p. 1116.
12
Carlo Sini, Interpretazione musicale e pratica di pensiero, in Musica e interpretazione. Soggettività e
conoscenza nell’esecuzione musicale, a cura di Luigi Attademo, Torino, Trauben, 2002, p. 13.
13
Enrico Fubini, Sufficienza e insufficienza della notazione musicale: all’origine del problema interpretativo, in
Musica e interpretazione. Soggettività e conoscenza nell’esecuzione musicale, cit., pp. 29‐30.
1.2. Problematiche
In una biografia di Beethoven di inizio secolo si legge che alla sonata
Waldstein fu dato il soprannome di Horror; probabilmente a causa delle
figurazioni violente e agitate e delle sue modulazioni iniziali , che fanno
venire i brividi. Ma i brividi di questo autore poggiano su un malinteso: in
Francia, la sonata Waldstein era stata battezzata l’Aurore.
14
Questo esempio
fornitoci da Brendel ci introduce su un piano generale alle problematiche
dell’interpretazione: i brividi trasmessici da Beethoven possono generare in
noi le immagini rassicuranti di un’aurora o possono turbarci e risvegliare le
nostre inquietudini. In realtà la questione rimanda a un più ampio dibattito
filosofico secondo cui «non vi è realtà che non sia interpretata, non ci sono
cose in sé extra‐interpretationem, l’oggettività delle cose o dei fatti
cosiddetti naturali è a sua volta frutto di interpretazioni».
15
Pertanto la
questione ci conduce a una riflessione più generale, proponendoci una
problematica che coinvolge sicuramente l’esperienza dell’interprete‐
spettatore in una sala musicale ma può anche riguardare l’esperienza di un
qualunque soggetto di fronte a una qualsiasi realtà. Una problematica
specifica dell’interpretazione musicale è invece quella che riguarda
l’esecuzione, un atto indispensabile all’esistenza della musica stessa. Spesso
i termini “eseguire” e “interpretare” sono usati come sinonimi; difficile
stabilire quale sia il più appropriato in quanto il primo rimanda alla
necessaria traduzione in musica dei segni, il secondo all’attività di cogliere il
pensiero altrui o comunque di svelare il “segreto” che sta dietro i segni
grafici di una partitura (operazione che, come abbiamo visto, investe la
soggettività e produce un risultato che è sempre personale). Si tratta
14
Alfred Brendel, Paradosso dell’interprete. Pensieri e riflessioni sulla musica, Firenze, Passigli, 1997, p. 22.
15
Sini, Interpretazione musicale e pratica di pensiero, cit., p. 9.
dunque di indagare la relazione che si istituisce fra l’opera d’arte musicale e
colui che la sonorizza.
16
C’è chi come Pugliatti vede nell’esecuzione
l’espressione di una creativa attività spirituale, pensiero condiviso pure da
Gatti che afferma:
Quello che ci è pervenuto di una sonata di Beethoven non è la realtà artistica da lui
creata, ma una virtualità, e non esiste perciò all’infuori dell’esecuzione, unica artistica
concretezza. La sola realtà è nella riproduzione dell’interprete. Si tratta dunque di una
vera e propria ricreazione dell’opera d’arte.
17
Agli antipodi di questa concezione troviamo l’altrettanto estrema visione di
Parente secondo cui l’interpretazione è un fatto puramente tecnico, da cui
ne consegue che «al libero impulso del creatore si sostituisce nell’interprete
un problema di paziente e scrupolosa ricostruzione».
18
L’attività
dell’interprete‐esecutore è quindi un atto di personale ricreazione o di
ricostruzione univoca? Si delineano pertanto due profili: quello
dell’interprete romantico, che imprime alla musica un carattere di
personalità, e quello dell’interprete classico che svolge l’attività ricreativa
«in un ambito strettamente aderente alla lettera del dettato musicale».
19
Le
due opposte concezioni dell’esecutore come passivo e impersonale
traduttore di segni e suoni, e dell’interprete come ricreatore o creatore
addirittura di una nuova musica a ogni nuova esecuzione, trova le sue
premesse nella musica romantica: l’esecutore da una parte si accorge che la
perfetta partitura che gli consegna il compositore è pur sempre
interpretabile in modi diversi, mentre il pubblico crea i divi e spesso si reca
16
Cfr. Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, cit., p.3.
17
Cit. in Graziosi, L’interpretazione musicale, cit., p. 48.
18
Ivi, p. 49.
19
Ivi, p. 89.
ad ascoltare non questo o quel compositore , ma questo o quel grande e
famoso interprete. In effetti la musica romantica, il sinfonismo
dell’Ottocento, il pubblico della sala da concerto, la figura del grande
interprete, solista o direttore d’orchestra, hanno creato le premesse per una
situazione totalmente nuova per l’interprete anche dal punto di vista
psicologico. Se il musicista dell’epoca barocca sapeva bene a chi indirizzava
la sua musica e chi, come e quando l’avrebbe eseguita, il musicista
romantico presume di rivolgersi a tutta l’umanità e di trasmettere ai posteri
un messaggio immortale. Perciò il compositore tende a non lasciare nulla,
nei limiti del possibile, all’arbitrio dell’interprete e cura nei minimi
particolari la propria partitura, la quale rappresenta l’unico strumento per
garantire la sopravvivenza nel futuro della propria creazione.
20
Il virtuoso
che senza alcuno scrupolo piega la musica del passato al proprio modo di
suonare o di comporre appartiene proprio all’epoca romantica, in cui non si
conosceva ancora uno stile d’interpretazione storicamente orientato e si
suonava tutto così come lo si sentiva senza farsi turbare da scrupoli storici.
Le ripercussioni sulla fine dell’epoca tardo‐romantica coinvolsero una o due
generazioni d’interpreti. La perduta fiducia in se stessi lasciò spazio alla fede
cieca nella lettera.
21
Il dogma secondo cui qualsiasi capriccio del
compositore, anche il più irragionevole, merita rispetto, negava
all’interprete la possibilità di pensare. Nessun errore d’incisione
nell’edizione originale, nessuna macchia d’inchiostro nell’autografo furono
abbastanza assurdi da non poter essere difesi come frutto di un’audacia
geniale. Simultaneamente, il disco assumeva importanza; questo comportò
la cristallizzazione di un’esecuzione ideale e definitiva, spogliata da tutti i
suoi aspetti casuali. L’infallibilità meccanica della macchina si impose come
20
Fubini, Sufficienza e insufficienza della notazione musicale: all’origine del problema interpretativo, cit., p. 35.
21
Brendel, Paradosso dell’interprete. Pensieri e riflessioni sulla musica, cit., p. 28.
un modello, la ricerca della perfezione divenne ossessione.
22
A partire da
questo quadro così controverso occorre definire il mestiere dell’interprete .
Egli, grazie a un accurato studio della partitura, deve cercare di cogliere le
intenzioni del compositore e dare a ogni opera il massimo effetto.
Comprendere le intenzioni del compositore significa trasmetterle secondo la
comprensione che se ne ha. Occorre considerare che:
La musica non può parlare da sola. È assolutamente ridicolo credere che un interprete
possa accantonare i suoi sentimenti personali e aspettare che quelli del compositore gli
cadano dal cielo.
23
Questo atteggiamento è tanto lontano da una sterile fedeltà quanto dall’uso
di correggere e ricreare le composizioni. Bisogna riconoscere che «le forme
di autenticità sono fondamentalmente plurime» e che esse possono essere
riattivate dalla sincerità dell’interprete.
24
Da queste riflessioni emerge che la
professione dell’interprete è ricca di paradossi con i quali egli deve imparare
a vivere. Allo stesso tempo egli deve dimenticare se stesso e controllare se
stesso; deve seguire la volontà del compositore alla lettera, e interpretare la
musica seguendo la sua intuizione.
25
Sembra dunque impossibile scindere
l’aspetto interpretativo da quello tecnico, o meglio, per usare la distinzione
di Graziosi, la “tecnica delle mani” dalla “tecnica dello spirito”. Chiarito
questo punto, emerge un altro quesito: se in una esecuzione musicale
occorre una commistione di arte e tecnica, il valore di ogni opera musicale
eseguita quanto dipende dalla intuizione interpretativa e quanto dalle
22
Brendel, Paradosso dell’interprete. Pensieri e riflessioni sulla musica, cit., p. 28.
23
Ivi, p. 8
24
Jean‐Jacques Nattiez, Interpretazione e autenticità, in Enciclopedia della musica, vol. II, Il sapere musicale, a
cura di Jean‐Jacques Nattiez, Torino, Einaudi, 2002, p. 1076.
25
Brendel, Paradosso dell’interprete. Pensieri e riflessioni sulla musica, cit., p.8.
capacità tecniche di suonare uno strumento? Non c’è una risposta precisa a
questa domanda, ma è comunque possibile individuare un rapporto di
compensazione tra “tecnica delle mani” e “tecnica dello spirito”, dove non
arriva l’una cerca di rimediare l’altra.
26
L’attività interpretativa pertanto, per
quanto può essere affinata, deve fare i conti con le doti di natura; questo
delicato equilibrio varia però a seconda degli esecutori. Se un cantante è
totalmente dipendente dalle doti naturali e lo strumentista lo è un po’
meno, discorso a parte riguarda il direttore d’orchestra, il quale
guida le esecuzioni attraverso mezzi prevalentemente spirituali […] mai schiavo delle
proprie possibilità fisico‐somatiche. Egli è l’interprete puro, il più vicino alla superiore
civiltà dell’artista creatore.
27
Tra tutte le figure di interpreti musicali quella del direttore d’orchestra
assume un carattere singolare poiché egli non esegue direttamente ma
dirige altri esecutori ai quali, in questo caso, è negata la facoltà di
interpretare poiché essa è affidata esclusivamente al direttore:
Se ciascun suonatore fosse un interprete e realizzasse la propria interpretazione, ne
risulterebbe non un concerto ma un polemico, tumultuoso conflitto di interpretazioni e il
direttore non avrebbe neanche da imporre con la bacchetta il tempo, che ciascuno
ruberebbe a suo piacere.
28
Da qui la concezione di interprete puro per definire il direttore d’orchestra.
Potremmo concludere pertanto che in una composizione orchestrale la
“tecnica delle mani” è affidata agli esecutori mentre la “tecnica dello
26
Graziosi, L’interpretazione musicale, cit., p. 87.
27
Ibidem.
28
Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, cit., p. 22.