I. INTRODUZIONE
Let's begin again, begin the begin [...]
ask me a question I can't itemize
R.E.M., Begin the begin, LIFES RICH P AGEANT (1986)
La cosiddetta “ipotesi Sapir-Whorf” sul 'relativismo' o 'determinismo' linguistico è
qualcosa di piuttosto difficile da identificare in modo univoco; basti considerare
che il dato di partenza è che si può dire che né Edward Sapir (1884-1939) né
Benjamin Lee Whorf (1897-1941) formularono mai, tantomeno congiuntamente,
alcuna 'ipotesi' a riguardo, intesa nel senso stretto e rigoroso del termine (Lee
1996). Per una storia dettagliata dell'evoluzione dell'idea di determinismo-
relativismo linguistico e sulle fortune interpretative degli scritti di Whorf
rimandiamo ai lavori di Koerner (2000, 2002, 2008) e di Lee (1996).
In ogni caso, per gli scopi del presente lavoro, ci basterà dire che dopo
varie banalizzazioni e interpretazioni errate di Whorf, negli anni '70 del
Novecento due ricerche, Berlin e Kay (1969) e Rosch (1972, 1973), entrambe nel
campo della percezione dei colori, affermando posizioni universaliste smorzarono
gli entusiasmi dei relativisti (vedi Björk 2008, p. 17), almeno fino ai primissimi
anni '90, quando si poté assistere a una sorta di «Whorf renaissance», che in un
certo senso possiamo dire non essersi ancora conclusa (Björk 2008, p. 17).
Il rinnovato interesse per l'argomento dei rapporti fra linguaggio e pensiero
visto attraverso le lenti dell'ipotesi del relativismo fra lingue ha preso, da allora,
diverse forme. Per meglio dire, il problema è stato affrontato da diversi approcci –
fatto, a nostro parere, in un certo senso inevitabile, dato il numero e la varietà di
discipline diverse che concerne. Questa tesi vuole appunto tentare un resoconto di
almeno quattro prospettive diverse che, dagli anni Novanta a oggi, sono state
prese nello studiare il problema del relativismo linguistico. Il resoconto che
proveremo a fornire non si propone di essere esaustivo, infatti, esclusa una
ricostruzione storica delle radici filosofiche del determinismo linguistico che
peraltro non sarebbe banale intraprendere, non verranno trattati, ad esempio, gli
1
studi evolutivi cross-linguistici come quelli di Markman (1989), Spelke (1985,
1990) e Mandler (1996) né gli aspetti politico-sociali generati dalla presa di
coscienza della supposta incommensurabilità 'di pensiero' fra parlanti di diverse
lingue (Agar 1995, Zhifang 2002). Né – è importante farlo presente – scenderemo
eccessivamente nel dettaglio delle singole polemiche all'interno di uno specifico
filone di ricerca o di un macro-campo come la concettualizzazione del 'colore' o
dello 'spazio'.
1
L'intento è invece quello di fare un lavoro di prospettiva generale,
per quanto non completamente esaustiva: ci interesserà analizzare a partire da
quali presupposti è possibile leggere i problemi del rapporto pensiero-linguaggio e
come queste prospettive possono, eventualmente, integrarsi.
Inoltre, sarà totalmente tralasciato il problema se le ricerche di questi
ultimi vent'anni siano fedeli alla lettera o allo spirito di Benjamin Whorf, Edward
Sapir, Franz Boas o Wilhelm von Humboldt.
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Una formulazione ipersemplificata del relativismo linguistico sarebbe
qualcosa di simile a: 'il linguaggio influenza il pensiero'. È però facile capire che
la risposta alla domanda che ne consegue ('cosa intendiamo per linguaggio e cosa
per cognizione?') non potrà, eufemisticamente, essere univoca.
Il primo approccio preso in esame (cap. II.I) sarà quello di Hunt e Agnoli
(1991), che propone una soluzione metodologica dal punto di vista della
psicologia cognitiva alla vaghezza della formulazione originale della cosiddetta
'ipotesi Sapir-Whorf' sul relativismo linguistico.
Una posizione concettualmente simile è quella di Slobin (1996, 2003, cap.
II.II), che propone una formulazione più «dinamica» rispetto a quella tradizionale,
limitando in ogni caso il campo entro il quale ricerca 'effetti whorfiani' al tipo di
pensiero che è legato ad attività verbali, tralasciando il 'pensiero non linguistico'.
1 «Arguments in support of the Whorfian hypothesis can degenerate into a potpourri of
discussions of specific examples of linguistic influences on cognition», Hunt e Agnoli 1991, p.
387.
2 «What either Sapir or Whorf actually believed on this topic is of course impossible to know,
especially since the writings of both men are open to such varied interpretations. The question
of what these two scholars thought, although interesting, is after all less important than the
issue of what is the case », Kay e Kempton 1984, p. 77.
2
Gli esperimenti di Boroditsky (2001, 2003 e 2011, Casasanto e Boroditsky
2008), d'accordo con entrambe le posizioni precedenti, tuttavia cercano,
abbandonando la cautela di Slobin, di spingersi oltre, ricercando effetti whorfiani
in attività non verbali (cap. II.III)
Infine, la sezione II.IV è dedicata ad alcune ricerche (Björk 2008, Everett
2005, Bickel 2000, Jensen de López, Hayasi, Sinha 2005) che a vario titolo
possono rivendicare l'etichetta di 'ecologico-culturali', poiché considerano la
cultura, variamente definita, come un fattore rilevante nelle dinamiche di
influenza tra linguaggio e pensiero.
Nell'ultimo capitolo (III) si tenterà un confronto e una integrazione fra
questi vari punti di vista.
3
II.I PROCESSI COGNITIVI E RELATIVISMO
LINGUISTICO
I'm too slow for you talking
So quick your mouth moves
Can't think
LALI PUNA, Don't Think, SCARY WORLD THEORY (2001)
L'articolo di Hunt e Agnoli del 1991 The Whorfian Hypotesis: a Cognitive
Psychology Perspective, è una dichiarazione d'intenti sin dal titolo, infatti al problema
– invero non banale – della testabilità scientifica dell'ipotesi Sapir-Whorf sul
relativismo linguistico (d'ora in poi 'RL'), gli autori propongono una possibile
soluzione: quantificare.
3
Quantificare in modo da avere un dato numerico
comparabile e valutabile al fine di avere un metro di paragone oggettivo che consenta
alle eventuali differenze psicologiche cross-linguistiche di emergere in termini di
misurazioni.
Il punto di partenza di Hunt e Agnoli (1991) è il seguente: dalla versione
'forte' di LR, cioè quella deterministica, può discendere come conseguenza logica
l'incommensurabilità 'di pensiero' fra parlanti di diverse lingue, frutto
dell'intraducibilità dei termini e quindi dei concetti per cui essi stanno. Ora, ponendo
che l'intertraducibilità sia un fatto acquisito – a differenza di ciò che certi filosofi
possono pensare a riguardo
4
– è altrettanto vero che non tutte le lingue sono uguali,
anzi, differiscono in modo anche profondo fra loro quanto alla struttura; al contrario,
differenti lingue pongono differenti sfide e forniscono differenti supporti ai sistemi
cognitivi dei rispettivi parlanti.
5
Approfondiamo queste due affermazioni.
Primo, dire che tutte le lingue sono traducibili fra loro potrebbe essere vista
come un'affermazione antitetica a quella relativista, in quanto istanza latu sensu
3 «The argument presented herein is that the weaker Whorfian hypotesis can be quantified and
thus evaluated», Hunt e Agnoli (1991), p. 377, corsivo mio.
4 Vedi M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda:
Milano 2011.
5 «Our review has convinced us that different languages pose different challenges for cognition
and provide differential support to cognition», Hunt e Agnoli (1991) p. 387.
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universalistica. Per Hunt e Agnoli (1991) non è così; al contrario esiste un modo di
combinare la non-incommensurabilità e la specificità propria di ogni lingua,
mantenendo l'ipotesi relativista.
Ora veniamo alla seconda affermazione: cosa significa che le diverse lingue
«pongono differenti sfide e forniscono differenti supporti»? Significa che le strutture
delle lingue favoriscono in modo differenziato alcuni processi di pensiero a discapito
di altri, o in parole ancora più semplici, la differenza cross-linguistica si traduce a
livello cognitivo nella maggiore o minore facilità con cui in una certa lingua si
esprime uno stesso 'concetto' rispetto a un'altra.
Un esempio banale a livello linguistico mostra come questo appena descritto
sia un concetto piuttosto intuitivo: se in lingua kiriwina, parlata in Nuova Guinea,
basta una singola parola per esprimere un concetto come «verità che tutti conoscono
ma che nessuno dice», in italiano o inglese, che sicuramente non hanno difficoltà a
condividere e comprendere appieno il concetto, ne occorrono dalle sei alle otto
(Rheingold 1988, cit. in Hunt e Agnoli, 1991, p. 377).
Cosa significa il fatto che qualcosa che sia esprimibile in modo estremamente
conciso in una lingua possa al contrario far spendere un maggior numero di parole e
rivelarsi difficoltoso in un'altra? La chiave, secondo gli autori, sta nella maggiore o
minore 'difficoltà' con cui nel parlare utilizziamo certe parole, cioè, per meglio dire,
nella «naturalezza di pensiero». Una definizione di senso comune della «naturalness
of thought» (Hunt e Agnoli 1991, p. 378) è la seguente: ciò che (singoli lessemi,
strutture sintattiche, ecc.) viene 'più facile' scegliere di dire mentre si parla. Tuttavia,
abbiamo detto che il punto è quantificare e farlo in modo rigoroso. Ma come definire
scientificamente la «naturalezza»? Bisogna considerare i diversi «pesi
computazionali» che si presentano davanti ai parlanti di diverse lingue per esprimere
diversi concetti.
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Per decidere quando qualcosa «pesa» di più computazionalmente,
bisogna guardare, ad esempio, il numero di decisioni che un parlante si trova a dover
compiere per scegliere una parola (o una «unità lessicale») o costruire un enunciato.
6 «The idea of naturalness becomes more specific if we consider the computational burdens
involved in expressing different ideas in different languages», Hunt e Agnoli (1991), p. 378.
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