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Introduzione
Quando parliamo di Hip-Hop, la nostra mente si collega automaticamente alla
nozione di Rap. Il Rap rappresenta uno dei generi musicali più diffusi e conosciuti al
mondo, e porta sulle spalle il peso di una storia complessa e straordinaria. Parte tutto negli
anni ’70, in un distretto specifico di New York; nel primo capitolo vengono man mano
delineate quelle che verranno nel tempo consacrate come le figure chiave per la nascita,
lo sviluppo e la diffusione del genere, e gli artisti – e le faide – che sono risultati cruciali
per il suo consolidamento. In una società degradata e ad alto tasso di criminalità come
quella del Bronx, teatro di ingiustizie, segregazione razziale e guerre tra gang, lo scontro
fisico inizia pian piano ad essere sostituito da quello verbale. Analizzando le origini,
dunque le motivazioni che hanno portato alla nascita di una cultura, e di conseguenza di
un genere così articolato e sempre in evoluzione, emergerà come alcune delle motivazioni
fondamentali siano state la necessità di sentirsi parte di una comunità, di dare voce a chi
non aveva i mezzi necessari per esprimersi, di fuggire dalla strada e tirarsi fuori da attività
illecite e dannose, e soprattutto la necessità di comunicare e buttare fuori le proprie
emozioni grazie ad un mezzo semplice, ma allo stesso tempo molto potente: la parola.
Nel secondo capitolo, dunque, il focus verrà posto sulla funzione comunicativa del Rap:
la metodologia impiegata prevede l’analisi di una lista di canzoni accuratamente
selezionate – in ordine cronologico - in base all’impatto che hanno avuto sul genere, alla
loro importanza ma anche alle tematiche trattate – e soprattutto, come vengono trattate –
in modo tale da creare un generale, seppur ristretto, quadro dei temi trattati e delle varie
fasi e sottogeneri che costituiscono il Rap (che molti associano in maniera non ufficiale
al binomio Rhythm And Poetry – Ritmo e Poesia). La domanda a cui si vuole dare risposta
in questo elaborato è questa: la funzione comunicativa dell’Hip-Hop muta nel tempo? E
se sì, come cambia? Queste domande sorgono da una riflessione sul fatto che, il Rap,
rappresenta un genere complesso e ricco di sfumature e diramazioni differenti; questa
analisi ha dunque lo scopo di far emergere che cosa gli artisti comunicano, in base al
periodo storico in cui si collocano, in base al proprio stile di vita, e a chi è rivolto il proprio
messaggio, ma soprattutto come viene utilizzato il linguaggio e che differenze presenta
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rispetto alla lingua formale. Per avere una visione più ampia del linguaggio utilizzato, e
di come influenza il genere, il terzo capitolo fungerà da breve excursus sull’origine e
l’impiego di un elemento fondamentale a livello comunicativo, presentando anche degli
esempi pratici: lo slang. Quest’ultimo abbraccia la cultura Hip-Hop nella sua totalità, ed
è presente anche negli sviluppi del genere più attuali. Dopo aver realizzato una prima
analisi, focalizzata sul genere Rap, il quarto capitolo dedicherà una seconda fase di analisi
al sottogenere ad oggi più dibattuto e controverso: la Trap. La metodologia impiegata sarà
la stessa, tenendo sempre conto che, sebbene la sua nascita sia da ricondurre agli anni ’90,
nei sobborghi di Atlanta, la sua diffusione è molto recente ed è tutt’ora un fenomeno
molto attuale. Inoltre, essendo un sottogenere del Rap, condivide le origini e le vicende
ricollegate alla storia di quest’ultimo in senso più ampio. Il focus viene spostato sulla
Trap con lo scopo di effettuare, in conclusione, una comparazione tra le tematiche che
emergono nelle due fasi di analisi, cercando di stabilire se, e come cambia, il modo con
cui gli artisti dei due generi comunicano, e soprattutto che cosa comunicano. Le tematiche
rimangono invariate? Oppure, in riferimento ai pregiudizi che sono collegati al
sottogenere Trap, ritenuto meno serio e più impuntato su caratteri estetici che sui
messaggi trasmessi, diventano più frivole e superficiali? La valutazione degli elementi
emersi dalle due fasi di analisi, e la loro conseguente comparazione, verrà applicata a
conclusione di questo elaborato, che comprenderà inoltre una breve, seppur esplicativa,
parentesi riguardo al ruolo della scena musicale Hip-Hop in Italia.
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1. La storia dell’Hip Hop
L'Hip-Hop ha rappresentato, e rappresenta tuttora, la forma di espressione più
diffusa della comunità Afroamericana negli ultimi decenni, un genere rivoluzionario che
cela dietro di se una storia straordinaria. Una storia che ha a che fare con la musica, il
ballo, ma soprattutto con le parole, parole in rima con cui migliaia di rapper hanno
raccontato le loro vite e le difficoltà riscontrate, denunciato le ingiustizie subite, pianto i
propri dolori, deriso e attaccato i propri avversari o nemici, celebrato i propri successi e
riscatti, ma cosa più fondamentale, hanno rappresentato con grande fedeltà e cura, talvolta
nascosta dietro esagerazione e superficialità, le proprie esistenze e quella delle persone
che avevano attorno. Il termine Hip-Hop, che oggi viene ampiamente riconosciuto come
sinonimo di musica rap, ha avuto inizio negli anni ’70, in realtà, come movimento
culturale a pieno titolo. Per i primi decenni in cui il termine era in circolazione, infatti,
non faceva riferimento solo alla musica, ma comprendeva anche l'arte, lo stile, la danza e
la filosofia.
La nascita dell’Hip-Hop si regge su fattori decisivi e peculiarmente americani, tra cui
troviamo in primis il peccato originale, materiale e simbolico, di una potenza globale
costruita anche su un istituto come la schiavitù, che rappresenta un precedente storico
pesantissimo che ha fornito, e continua a fornire, una profonda «legittimazione culturale»
a un razzismo mai estirpato fin in fondo. Una forma mentis che ha prodotto una società
scissa in “due Americhe”, portatrici di due memorie profondamente diverse e
inconciliabili. Da una parte l’America degli immigrati (definiti oppressed) che, nel corso
dei secoli, sono giunti nel Nuovo Mondo di loro spontanea volontà in cerca di opportunità
che il mondo da cui provenivano non era in grado di offrire, mentre dall’altra l’America
di milioni di uomini e donne che sono stati strappati dall’Africa per essere portati con la
forza a vivere e morire come bestie da soma. Ciò avviene nonostante eventi rivoluzionari
come l’approvazione, negli anni ’60, dei Civil Rights Act di Martin Luther King, che
metteva fuori legge le discriminazioni razziali in tutta la nazione, ma che allo stesso tempo
dimostrava come una legislazione e un corollario di buone intenzioni non fossero
sufficienti per sradicare secoli di cattive consuetudini e pregiudizi feroci. Questa diaspora
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forzata ha prodotto quella che il sociologo afroamericano Du Bois ha definito come
«doppia coscienza»: la sensazione di trovarsi fisicamente in America ma di non fare
davvero parte dell’esperienza americana. (Alemanni, 2019: 12) Ciò che fece scatenare gli
oppressi furono inoltre le politiche messe in atto dall’America dei free and brave (la
cosiddetta “Terra dei Liberi”), ovvero persone che agivano mosse da impulsi razzisti o
che volevano mantenere una linea ben netta di distacco dagli oppressi per difendere i
propri privilegi. Ciò si riversa fondamentalmente sul piano urbanistico, che riguardava
elementi come la speculazione immobiliare, il taglio della spesa pubblica e
l’incarcerazione di massa. Ciò, oltre a portare inevitabilmente a un peggioramento della
qualità di vita e delle opportunità lavorative, che si riversò significativamente su
afroamericani e ispanici, mutò radicalmente l’atteggiamento delle minoranze nei
confronti delle istituzioni dominanti, che erano ora viste come il nemico. Allo stesso
tempo, a partire dagli anni ’70, intere forze lavoro cominciavano a non essere più
richieste, interi redditi sparivano, quartieri operai decadevano e intere città andavano in
bancarotta. La conseguenza principale fu la nascita di forme di capitalismo sotterraneo
che si reggevano su attività illecite, come lo spaccio di stupefacenti, gestito da
organizzazioni criminali di strada. È in questo contesto di scompiglio sociale che, nel
Bronx, un diciottenne di origini giamaicane sperimenta, per divertimento, le prime
reazioni di sintesi dell’Hip-Hop, mettendo le basi per un nuovo linguaggio globale che
avrebbe permesso di rendere visibili storie di ordinaria invisibilità e marginalizzazione.
Ruolo fondamentale e rappresentativo nella nascita dell’Hip-Hop, che nasce come cultura
e movimento artistico, è dunque rappresentato da uno dei cinque distretti di New York: il
Bronx. Facciamo riferimento a un periodo storico in cui la sua demografia stava
crescendo in maniera esponenziale. Durante gli anni ’50 e ’60, molti bianchi appartenenti
alla classe media abbandonarono le città per trasferirsi nei sobborghi in periferia. Gli
afroamericani e i latino americani che vennero lasciati indietro nelle città, o che si
trasferirono solo negli anni successivi, riscontrarono numerose sfide nei loro quartieri, in
quanto i budget a loro disposizione vennero appunto ridotti e le risorse vennero dirottate
verso comunità più ricche e bianche. Col passare degli anni il crescente tasso di
disoccupazione, che come scrive Jeff Chang nel suo libro «Won’t Stop Can’t Stop» (p.
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cosiddette gang, complessi criminali che venivano sfruttati per contendersi il quartiere e
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svolgere attività illecite come lo spaccio di stupefacenti. A causa dei continui scontri tra
gang rivali, che portarono a centinaia di morti, nell’arco di un decennio il Bronx si
trasformò in un quartiere totalmente distrutto, simile a una città bombardata.
Quartieri bombardati nel Bronx (New York, 1970)
Di fronte alla mancanza di opportunità economiche, e di conseguenza all’aumento dei
tassi di criminalità e povertà, i giovani del Bronx e delle comunità vicine cominciarono a
creare e sperimentare nuove tipologie di espressioni culturali. Il Bronx, poco prima
dell’arrivo degli anni ’80, stava infatti affrontando una fase di ricrescita, dovuta
soprattutto alla tregua stabilita tra le gang segnate dalla morte di famigliari e amici, che
favorirono una convivenza pacifica e, soprattutto, lo scambio culturale tra etnie. Questi
scambi risultano fondamentali per lo sviluppo di quattro forme di espressione in
particolare, che andranno a costituire i quattro pilastri dell’Hip-Hop.
La maggior parte degli studiosi concorda sull’esistenza di questi quattro elementi
principali, che continuano a rappresentare la cultura Hip-Hop anche oggi:
il Deejaying, che consiste nel fare musica usando giradischi e mixer DJ; la Break dance,
che rappresenta una disciplina di ballo complessa nata tra i giovani nelle feste di strada
nel ’72; il Graffitismo, che permette di esprimersi artisticamente tramite interventi
pittorici e calligrafici (Writing) sul tessuto urbano, e infine il Rapping, che rappresenta
l’esecuzione di rime cantate in diverse modalità sopra un beat o accompagnamento
musicale.