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PARTE SECONDA 
 
CAP. IV- STORIA NOTTURNA 
 
Introduzione  
 
Nonostante negli ultimi due decenni prima della pubblicazione di quest’opera (1989) la 
storiografia abbia dimostrato interesse per tematiche relative a «comportamenti e atteggiamenti 
di gruppi subalterni»
145
, Ginzburg nota come le ricerche in materia di stregoneria siano state 
caratterizzate da un approccio sbilanciato: infatti tutti, o quasi, gli storici hanno focalizzato la 
loro attenzione sull’analisi dei «meccanismi ideologici che agevolarono la persecuzione della 
stregoneria in Europa»
146
, ovvero su quello che in precedenza abbiamo definito lo strato colto, 
codificato dai trattati demonologici; viceversa pochi si sono concentrati sugli atteggiamenti e i 
comportamenti dei perseguitati, sovente derubricati a bizzarrie, fantasticherie, disturbi di 
natura psicosomatica, isteria femminile. 
Questo tipo di approccio accomuna molti dei saggi pubblicati sull’argomento da parte di 
studiosi di formazione anglosassone. H.R. Trevor Roper, autore di un’opera molto nota
147
, 
sottolinea la differenza tra «witch-beliefs» e «witch-craze»
148
, ovvero rispettivamente la 
credenza, popolare e tutto sommato innocente, in fenomeni inerenti magia e superstizione e la 
deformazione cui questi vengono sottoposti da inquisitori e demonologi. La sovrapposizione 
del secondo strato sul primo avrebbe trasformato una congerie eterogenea di credenze popolari 
in un «bizzarro ma coerente sistema intellettuale»
149
, di conseguenza solo lo strato erudito 
sarebbe, secondo Trevor-Roper, meritevole di analisi.  
Non si discosta di molto da questa posizione A. Macfarlane
150
, nonostante opti per una ricerca 
«regionale e comparata» e disponga di una base di partenza documentaria molto interessante, 
i processi celebrati nell’Essex nel 1645. Ginzburg rileva due difetti nell’approccio di 
Macfarlane: il primo consiste in un’analisi meramente esteriore dei dati documentari, 
caratterizzati invece da una serie di elementi abnormi (peraltro riconosciuti dall’autore), che 
 
145
 C. Ginzburg, Storia notturna, Milano 2017, p. XIV 
146
 Ibid. 
147
 H.R. Trevor-Roper, The European Witch-craze of the 16
th
 and 17
th
 century, London 1967 
148
 Storia notturna, cit., p. XV 
149
 Ibid. 
150
 A. Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England, London 1970
65 
avrebbero meritato un approfondimento ben maggiore. Lo storico britannico, cioè, evita di 
soffermarsi sulle credenze delle vittime della superstizione, vittima, egli stesso, del pregiudizio 
di una superiorità culturale nei confronti degli imputati di stregoneria che lo accomuna a 
Trevor-Roper. Il secondo difetto a cui accenna Ginzburg è la mancata applicazione dell’analisi 
comparativa a un contesto significativo, quello europeo, che avrebbe certamente chiarito la 
portata dell’«influsso [sui giudici, evidentemente] di idee provenienti dal Continente»
151
 sulle 
testimonianze rese in questi processi inglesi. 
Su un medesimo solco si colloca il pensiero di K. Thomas
152
 che pur riconosce come «talvolta 
s’incontrino nei processi elementi troppo stravaganti (unconventional) per essere attribuiti alla 
suggestione»
153
. Ciò nonostante, egli non si sofferma sull’analisi di quello strato popolare, dal 
forte valore simbolico, sottolineandone la precarietà e la frammentarietà rispetto alla 
concretezza che, secondo lui, un approccio davvero storicistico richiederebbe. In un saggio 
successivo
154
, stimolato dalle critiche di C. Geertz, Thomas riformula parzialmente la sua 
posizione, ma solo per reinterpretare il sabba in termini di rovesciamento simbolico dei valori 
fondanti della società, scartando l’indagine sulle «strutture mentali invisibili della magia 
popolare»
155
. 
Eppure, è proprio in area anglosassone che Margaret Murray, in un suo famoso saggio
156
, aveva 
ipotizzato la connessione tra il sabba e un culto precristiano della fertilità che, secondo lei, 
affondava le sue radici in un passato remotissimo ed era in qualche modo sopravvissuto in 
Europa fino all’età moderna. Già nella prefazione a I benandanti, Ginzburg aveva riconosciuto 
in questa posizione della Murray un «nocciolo di verità»
157
, attirandosi le critiche della corrente 
razionalista degli storici e un’etichetta di Murrayista tout court.  
Oltre alla confusione tra miti e riti, un altro punto debole dello studio della Murray consiste, 
secondo Ginzburg, nel non aver considerato la sovrapposizione di strati diversi nella 
formazione dello stereotipo del sabba: è nella sua versione ormai consolidata che esso viene da 
lei assunto acriticamente come base interpretativa.   
 
151
 Storia notturna, cit., p. XVII 
152
 K. Thomas, Religion and the decline of magic, London 1971 
153
 Storia notturna, cit., p. XVIII 
154
 K. Thomas, An anthropology of religion and magic, II, in «The Journal of interdisciplinary history», VI (1975), 
pp. 91-109 
155
 Ivi, p. 106 
156
 The witch-cult in western Europe, cit. 
157
 I benandanti, cit., prefazione § 3
66 
Anche i lavori di R. Kieckhefer
158
 e N. Cohn
159
 contribuiscono a consolidare l’idea 
dell’inconsistenza delle radici popolari del sabba e a gettare discredito sulla vecchia tesi della 
Murray, ma in questo modo, secondo Ginzburg, buttano via il bambino (la giusta intuizione sul 
perpetuarsi di un antico culto della fertilità) assieme all’acqua sporca (le forzature 
metodologiche operate dalla storica britannica). 
 
La consapevolezza della diffusione di un pregiudizio di fondo sulle origini della stregoneria, 
per cui gran parte della ricerca si concentra solo sull’analisi dello schema dotto, dà a Ginzburg 
l’occasione per sottolineare, ancora una volta, la straordinaria importanza della scoperta degli 
atti processuali sui benandanti: la caratteristica più significativa di quelle carte consiste nel gap 
comunicativo tra giudici ed inquisiti, elemento che ci consente di cogliere la genuinità di «uno 
strato profondo di miti contadini»
160
. Vent’anni dopo I benandanti, Storia notturna colloca 
quelle preziose testimonianze in un quadro più ampio, cercando di rinvenirne le radici in un 
profondissimo strato mitico e rituale, che affiora in contesti spazio-temporali disparati: questo 
tentativo, condotto attraverso un metodo dichiaratamente morfologico, costituisce il nucleo 
centrale dell’opera, mentre nella prima parte l’autore (ispirato da I re taumaturghi di M. Bloch) 
si sofferma sulla ricorrenza dello schema del complotto come chiave di interpretazione per «la 
nascita dell’immagine inquisitoriale del sabba»
161
. La terza e ultima parte (a partire da 
Congetture eurasiatiche) tenta di dare legittimità storica ad alcune delle connessioni formali 
individuate da Ginzburg, sebbene la scarsità della documentazione non escluda il ricorso a 
congetture: il campo di indagine si restringe (ma solo tematicamente) prendendo in 
considerazione elementi circoscritti, quali la zoppaggine rituale e la raccolta delle ossa degli 
animali uccisi. 
Ginzburg sottolinea l’importanza della prospettiva comparata, sostanzialmente ignorata da 
Macfarlane e Thomas, come cardine metodologico. Egli è consapevole che un obiettivo 
ambizioso come il suo comporti un allargamento smisurato del campo di indagine e di 
conseguenza «la rinuncia ad alcuni tra i postulati essenziali alla ricerca storica»
162
. Da qui il 
ricorso alla morfologia, elemento acronico, come integrazione o supporto alla ricostruzione 
storica tout court. 
 
158
 R. Kieckhefer, European witch-trials. Their foundation in popular and learned culture, 1300-1500, Berkeley 
1976 
159
 N. Cohn, Europe’s inner demons, cit. 
160
 Storia notturna, cit., p. XXIV 
161
 Ivi, p. XXVI 
162
 Ivi, p. XXIX
67 
Nella terza parte dell’opera lo studioso individua una serie di miti, riti, leggende, favole che 
presentano un elevato grado di isomorfismo, in quanto lo stesso elemento (ad esempio la 
zoppaggine rituale) vi ricorre in maniera costante. Questo filo conduttore che unisce le singole 
unità della serie (contraddistinta da straordinaria ampiezza spazio-temporale) non è passato 
inosservato tanto che diversi studiosi hanno cercato di spiegare il fenomeno. In ciascuna delle 
ipotesi proposte Ginzburg trova dei limiti legati di volta in volta a un approccio eccessivamente 
schematico: o diacronico, sbilanciato dunque verso l’evento, il dato empirico; o sincronico, 
teso cioè a cogliere la struttura, il sistema. Di conseguenza nessuna di queste ipotesi prese 
separatamente è in grado di arrivare, secondo lui, a conclusioni soddisfacenti.  
Si tratta, dunque, sul solco delle ricerche di R. Jakobson in campo linguistico e di Levi-Strauss 
in quello sociale, storico e antropologico, di aprire «una via intermedia tra il livello della 
struttura e quello dell’evento»
163
 nella consapevolezza che «i miti si incarnano, si trasmettono 
e agiscono in situazioni sociali concrete, attraverso individui in carne ed ossa»
164
: è attraverso 
l’osmosi tra queste due dimensioni (sincronia e diacronia) che siamo in grado di dare un 
significato primario (il viaggio del vivente nel mondo dei morti) a fenomeni apparentemente 
scollati da qualsiasi logica, come le estasi dei benandanti. 
 
Lebbrosi, ebrei, musulmani 
 
La società francese nel 1321 è interessata da una persecuzione di massa ordinata dal re Filippo 
V ai danni dei lebbrosi: accusati di voler attentare alla salute pubblica avvelenando pozzi, 
sorgenti, fontane, molti di essi vengono bruciati se rei confessi. La tortura viene usata in 
maniera diffusa per facilitarne il cedimento mentre chi, nonostante tutto, proclama la propria 
innocenza viene costretto a vivere segregato e separato dai propri cari. Le cronache di quegli 
anni, che Ginzburg si appresta ad esaminare, indicano come corresponsabili di questo presunto 
complotto accanto ai lebbrosi, in misura varia a seconda delle fonti, musulmani ed ebrei. Anzi, 
questi due gruppi avrebbero responsabilità maggiori in quanto “mandanti” della congiura, 
rispetto a cui i lebbrosi fungerebbero da veri e propri “sicari”. In realtà l’ondata persecutoria è 
la conseguenza di una macchinazione ordita dai referenti politici locali di un ceto mercantile 
particolarmente aggressivo e senza scrupoli, che persegue la sola logica del profitto. 
 
163
 Storia notturna, cit., p. XXXVII 
164
 Ivi, p. XXXIX
68 
Si tratta di manovre che hanno lo scopo di orientare in una determinata direzione una serie di 
tensioni già in atto, legate allo stigma d’infamia che accomuna ebrei e lebbrosi sin 
dall’antichità. È un atteggiamento alimentato dall’etichetta di marginalità associata a questi 
gruppi, non disgiunta, peraltro, da un’ambiguità di fondo: infatti la considerazione 
dell’opinione pubblica nei loro confronti oscilla tra santità e disprezzo. 
Lo storico individua l’atto iniziale di tale macchinazione in una lettera inviata alla fine del 1320 
dai consoli di Carcassonne al re di Francia: vi si accusano lebbrosi ed ebrei di attentare alla 
salute, spirituale e fisica, dei cittadini «con veleni, pozioni pestifere e sortilegi»
165
. Lo scopo 
della protesta è dichiarato nella missiva con chiarezza brutale: «liberarsi definitivamente dal 
monopolio del credito esercitato dagli ebrei; amministrare le ricche rendite godute dai 
lebbrosari»
166
. 
Da Carcassonne la notizia dell’imminente complotto si diffonde e la tensione tracima nella 
Pasqua del 1321, in particolare nell’area sud-occidentale del Paese: da quel momento e per 
tutta l’estate i lebbrosi, sospettati di avvelenare pozzi e fontane, vengono interrogati dalle 
autorità secolari, torturati e in gran parte sterminati. L’effetto domino interessa tutta la Francia 
estendendosi fino a Parigi.  
Negli atti di un processo dell’Inquisizione celebrato di lì a poco, come ideatore e mandante di 
una congiura ai danni dei cristiani viene invece indicato il re di Granada: un tale scenario è 
delineato dalla confessione di Guillaume Agassa, responsabile del lebbrosario di Lestang, sotto 
la pressione del vescovo di Pamiers e dopo essere stato sottoposto a tortura. L’abiura a cui 
Agassa è costretto riguarda, tuttavia, solo i crimini commessi contro la fede: l’avvelenamento 
delle acque, pur confessato dall’imputato, non viene menzionato.  
Le comunità ebraiche in un primo momento riescono a scampare alla persecuzione a prezzo di 
un esorbitante ricatto finanziario (giugno 1321) imposto loro da Filippo V ma un’altra lettera, 
inviata questa volta da Filippo di Valois, conte d’Angiò, a papa Giovanni XXII, getta nuova 
benzina sul fuoco: si tratta, in realtà, di un falso creato ad arte per denunciare un inesistente 
complotto ai danni della cristianità, ordito dalla triade ebrei- musulmani- lebbrosi con i primi 
nelle vesti delle menti della cospirazione. Essa sarebbe consistita nell’avvelenamento delle 
fonti idriche che avrebbe portato allo sterminio dei cristiani e ad un patto tra ebrei e saraceni 
per la spartizione dei rispettivi domini, vecchi e acquisiti: ai primi sarebbe toccata la terra santa, 
ai secondi il regno di Francia, mentre i lebbrosi avrebbero riscosso laute ricompense in denaro. 
 
165
 Storia notturna, cit., p. 10  
166
 Ibid.
69 
Questa cospirazione, dice la lettera, fallì perché i lebbrosi si dimostrarono l’anello debole della 
catena. Malgrado negli anni precedenti si fosse mostrato benevolente nei confronti delle 
comunità ebraiche, il papa crede al disegno cospiratorio prospettato dalla missiva poiché nel 
1322 espelle tutti gli ebrei dai propri domini.  
Altre prove false sono fabbricate con lo scopo di mettere pressione a Filippo V affinché denunci 
pubblicamente la partecipazione degli ebrei al complotto. Tale denuncia arriva con una lettera 
datata 26 luglio 1321 e indirizzata tra gli altri al siniscalco di Carcassonne, città da cui erano 
arrivate le prime accuse: il cerchio, dunque, si chiude e la persecuzione degli ebrei, che solo un 
mese prima era stata surrogata da una multa esorbitante, può avere inizio. 
Lo schema delle false accuse contro ebrei, lebbrosi e musulmani non è una novità: le troviamo 
formulate nelle cronache fin dal secolo precedente. Ogni qual volta un avvenimento minacci la 
coesione della cristianità, c’è la necessità di trovare dei capri espiatori che consentano di fornire 
una valvola di sfogo alle tensioni sociali. È un quadro che ricorre più volte con le medesime 
modalità: un mandante, nelle vesti di un sovrano o capo musulmano, si rivolge ad una “mente” 
in grado di organizzare e pianificare il complotto su larga scala. Ricoprono questo ruolo 
individui o gruppi (es. gli ebrei), marginali dal punto di vista etnico-religioso, che da tempo la 
narrativa popolare caratterizza come sospetti, ostili all’ordine sociale. L’ultimo anello della 
catena è rappresentato da altri gruppi (es. i lebbrosi) considerati facilmente manipolabili o 
corruttibili, per la qual ragione si presterebbero ai peggiori misfatti.  
Nonostante di lì a poco emerga che lo schema della cospirazione ha scarsa consistenza, le 
accuse cadono solo nei confronti dei lebbrosi fino ad arrivare nel 1338 ad una completa 
assoluzione retrospettiva di questi da parte dei loro stessi persecutori (papa Benedetto XII alias 
Jacques Fournier, ex vescovo ed inquisitore della diocesi di Pamiers). Gli ebrei, viceversa, non 
si vedono mai formalmente ritirare le accuse formulate ai loro danni: molti di coloro che erano 
scampati alle persecuzioni vengono espulsi dalla Francia e di lì a poco diverranno vittime di 
nuove manovre ai loro danni. 
 
Ebrei, eretici, streghe 
 
L’impalcatura del complotto si ripresenta quasi trent’anni dopo, in occasione dell’epidemia di 
peste del 1348. Se nel 1321 era bastata la paura di essere contagiati dalla lebbra a venire usata 
come pretesto per scatenare la persecuzione, in questa nuova circostanza le accuse si 
accompagnano a una diffusione drammatica e irrefrenabile del contagio. Ancora una volta
70 
Carcassonne e le città limitrofe si segnalano come centri di propagazione della cospirazione. 
Essa, in un primo tempo, ha come bersaglio i mendicanti, sostituiti di lì a pochissimo dagli 
ebrei (aprile-maggio), stretti in una morsa accusatoria che vede confluire le solite tensioni 
popolari e la legittimazione legale di queste da parte delle autorità locali.  
Ginzburg sottolinea le analogie tra le due ondate persecutorie del 1321 e 1348, caratterizzate 
da un andamento simile: 
 
1. Le voci di complotto si diramano in entrambi i casi dalla Francia sud-occidentale 
2. Colpiscono gli ebrei solo in un secondo tempo (nel primo caso essi si affiancano ai 
lebbrosi, nel secondo sostituiscono i mendicanti) 
3. Le persecuzioni presentano un dinamismo spaziale, allargandosi verso nord e verso est 
nel 1321, verso est (in particolare Savoia e Delfinato) nel 1348 
 
Accanto a queste analogie, lo studioso pone in evidenza delle differenze: nel 1348 l’ossessione 
del complotto è maggiormente sbilanciata verso il basso, essendosi ormai sedimentata nella 
mentalità popolare. Le voci di dissenso, presenti anche all’interno delle stesse istituzioni 
territoriali (ne è un esempio il borgomastro di Strasburgo), fino ad arrivare a papa Clemente VI 
(sostenitore di una posizione basata sulla ragione e sul buon senso), nulla possono contro la 
ferocia della violenza popolare, avallata dagli atti dell’autorità giudiziaria. 
In riferimento alla precedente ondata, invece, lo storico aveva dato maggiore importanza alla 
“regìa” delle autorità politiche e religiose che avevano orientato le ostilità latenti della 
popolazione verso bersagli precisi (lebbrosi prima, ebrei poi). 
 
Più di mezzo secolo dopo, nel 1409, una bolla redatta da papa Alessandro V inviata 
all’inquisitore Ponce Fougeyron ci informa della diffusione di nuove sette e riti contrari alla 
religione cristiana nell’area di giurisdizione del prelato (corrispondente alle attuali Francia sud-
orientale e Svizzera occidentale). Dalle testimonianze che possiamo ricavare dal Formicarius, 
testo della letteratura demonologica, scritto tra il 1435 e il 1437 da Johannes Nider, 
apprendiamo che le pratiche di queste sette presentano già molti degli elementi che 
contraddistingueranno il sabba: «l’omaggio al demonio, l’abiura di Cristo e della fede, la 
profanazione della croce, l’unguento magico, i bambini divorati»
167
. Sebbene altri elementi 
manchino (il volo magico e i raduni notturni) o siano presenti soltanto in forma embrionale (le 
 
167
 Ivi, p. 50
71 
metamorfosi), il dado è tratto: si affaccia la «nozione di una setta minacciosa di streghe e 
stregoni»
168
 il cui principale collante è costituito dall’adorazione del diavolo. Il Formicarius 
colloca al 1375 circa l’inizio di queste pratiche di stregoneria collettiva, opera di gruppi di 
uomini e donne anziché di individui isolati. Si tratta di una datazione convergente con quella 
proposta dal posteriore Tractatus de strigibus (inizi del Cinquecento). 
L’immagine ossessiva del complotto ordito contro la società è l’elemento unificatore delle tre 
ondate persecutorie che, nell’arco di circa un secolo, colpiscono a intervalli più o meno 
regolari, gruppi marginali (lebbrosi, ebrei, streghe) in una regione comprendente la Francia 
meridionale, la Savoia e il Delfinato. In queste ultime due aree la convivenza forzata tra 
cristiani ed ebrei espulsi dalla Francia causa dinamiche particolari che fanno emergere nuove 
sette in cui le due componenti si mescolano. Un altro elemento di contiguità è fornito dalla 
convinzione che ci sia un nemico esterno ad ispirare la cospirazione: prima gli infedeli, i re 
musulmani, poi il nemico della cristianità per eccellenza, il diavolo. Il concetto di marginalità, 
che unisce trasversalmente i tre gruppi in questione, è simbolicamente rappresentato dal 
marchio cucito sul vestito di lebbrosi ed ebrei e sul segno identificativo del patto diabolico 
impresso dal demonio sui corpi di streghe e stregoni.  
Ulteriori testimonianze risalenti al 1435-1440 vengono a completare quello che per 250 anni 
sarà lo stereotipo del sabba: compaiono qui gli elementi della metamorfosi, dei voli e dei raduni 
notturni che il Nider ignorava o aveva menzionato solo di sfuggita.  
Un aspetto interessante è costituito da una duplice progressione nell’evoluzione della teoria del 
complotto (dai lebbrosi agli ebrei, per terminare alle streghe): la prima riguarda l’ampiezza dei 
gruppi accusati, da uno relativamente circoscritto il cui tratto unificante è la malattia (i 
lebbrosi), ad un altro individuabile etnicamente e religiosamente (gli ebrei) per terminare con 
le streghe. La seconda concerne il ventaglio delle accuse e la progressione della loro gravità 
che, per quanto riguarda le streghe, giunge all’apostasia della fede e al patto col diavolo.  
Ginzburg è in parziale disaccordo con la teoria di Cohn, secondo cui «il sabba sarebbe il punto 
d’arrivo di uno stereotipo ostile, proiettato successivamente, lungo l’arco di un millennio e 
mezzo, su ebrei, cristiani, eretici medievali e streghe»
169
. Sin dal II secolo d.C. i gruppi citati 
dal Cohn, minoritari rispetto alle società di cui facevano parte e per la cui coesione costituivano 
una minaccia, sono stati via via accusati dei peggiori misfatti: idolatria, antropofagia, pratiche 
sessuali abnormi come l’incesto, adorazione del demonio. Questi tratti, dopo l’anno mille e 
 
168
 Ibid. 
169
 Ivi, p. 53
72 
solo in occidente, confluiscono e trovano una sorta di sintesi nell’immagine della cerimonia 
notturna che comincia a dar vita alla vulgata del sabba. In questo complesso processo di 
progressiva coagulazione, alcuni elementi si modificano, altri perdono consistenza, altri ancora 
acquistano maggior rilevanza: questo a seconda della loro interazione con un contesto 
cronologico, geografico, culturale dai connotati specifici, che si potrebbe definire, mutuando 
una definizione proveniente dalla filologia, una contaminazione orizzontale. È secondo questo 
aspetto che Ginzburg si scosta dalla visione di Cohn, maggiormente orientata verso un modello 
di trasmissione per così dire verticale, automatica. L’immagine del sabba, dunque, si modella 
attraverso la sovrapposizione di uno strato di origine antica ma venuto a sedimentarsi sotto 
forma di stereotipo nelle convinzioni di inquisitori e giudici, su uno che Ginzburg definisce 
«folclorico». 
Lo storico cita il caso dei Valdesi che nella seconda metà del Trecento sono oggetto di una vera 
e propria offensiva degli inquisitori: le loro confessioni sono il risultato della rielaborazione 
degli stereotipi inquisitoriali attraverso il filtro della cultura popolare locale. Questa 
commistione, ad esempio, è evidente nella testimonianza offerta nel 1387 dall’imputato 
Antonio Galosna relativa a un’orgia a cui avrebbe partecipato ventidue anni prima: in 
quell’occasione «una certa Billia la Castagna aveva dato a tutti i partecipanti un liquido di 
aspetto ripugnante: chi lo beveva una volta non poteva più abbandonare la setta. Si diceva che 
il liquido fosse stato confezionato con lo sterco di un grosso rospo che Billia nutriva sotto il 
letto con carne, pane, formaggio»
170
. 
Ginzburg afferma che più un elemento affiorante dalle confessioni si allontana dagli stereotipi 
demonologici, più è verosimile che si riferisca a uno strato culturale immune dalle proiezioni 
e dalle deformazioni dei giudici: abbiamo già citato come un caso esemplare in questo senso 
gli atti dei processi ai benandanti Moduco e Gasparutto. 
Lo storico ritiene che a partire dalla fine del XIV secolo gruppi ereticali, come i valdesi o i 
catari, in un primo momento rimasti distinti dalla «setta stregonesca» di cui parla il Nider, 
vengano progressivamente assimilati a quest’ultima da parte degli inquisitori, grazie ad una 
convergenza di motivi eterodossi, dualistici e folclorici. Tale processo di assimilazione è 
riscontrabile anche nel lessico che testimonia come gli insulti vaudoy (che richiama il nome 
francese di Valdo) ed herejoz (dispregiativo per “eretico”) siano usati per designare i 
partecipanti al sabba. 
 
170
 Ivi, p. 58