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PARTE SECONDA
CAP. IV- STORIA NOTTURNA
Introduzione
Nonostante negli ultimi due decenni prima della pubblicazione di quest’opera (1989) la
storiografia abbia dimostrato interesse per tematiche relative a «comportamenti e atteggiamenti
di gruppi subalterni»
145
, Ginzburg nota come le ricerche in materia di stregoneria siano state
caratterizzate da un approccio sbilanciato: infatti tutti, o quasi, gli storici hanno focalizzato la
loro attenzione sull’analisi dei «meccanismi ideologici che agevolarono la persecuzione della
stregoneria in Europa»
146
, ovvero su quello che in precedenza abbiamo definito lo strato colto,
codificato dai trattati demonologici; viceversa pochi si sono concentrati sugli atteggiamenti e i
comportamenti dei perseguitati, sovente derubricati a bizzarrie, fantasticherie, disturbi di
natura psicosomatica, isteria femminile.
Questo tipo di approccio accomuna molti dei saggi pubblicati sull’argomento da parte di
studiosi di formazione anglosassone. H.R. Trevor Roper, autore di un’opera molto nota
147
,
sottolinea la differenza tra «witch-beliefs» e «witch-craze»
148
, ovvero rispettivamente la
credenza, popolare e tutto sommato innocente, in fenomeni inerenti magia e superstizione e la
deformazione cui questi vengono sottoposti da inquisitori e demonologi. La sovrapposizione
del secondo strato sul primo avrebbe trasformato una congerie eterogenea di credenze popolari
in un «bizzarro ma coerente sistema intellettuale»
149
, di conseguenza solo lo strato erudito
sarebbe, secondo Trevor-Roper, meritevole di analisi.
Non si discosta di molto da questa posizione A. Macfarlane
150
, nonostante opti per una ricerca
«regionale e comparata» e disponga di una base di partenza documentaria molto interessante,
i processi celebrati nell’Essex nel 1645. Ginzburg rileva due difetti nell’approccio di
Macfarlane: il primo consiste in un’analisi meramente esteriore dei dati documentari,
caratterizzati invece da una serie di elementi abnormi (peraltro riconosciuti dall’autore), che
145
C. Ginzburg, Storia notturna, Milano 2017, p. XIV
146
Ibid.
147
H.R. Trevor-Roper, The European Witch-craze of the 16
th
and 17
th
century, London 1967
148
Storia notturna, cit., p. XV
149
Ibid.
150
A. Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England, London 1970
65
avrebbero meritato un approfondimento ben maggiore. Lo storico britannico, cioè, evita di
soffermarsi sulle credenze delle vittime della superstizione, vittima, egli stesso, del pregiudizio
di una superiorità culturale nei confronti degli imputati di stregoneria che lo accomuna a
Trevor-Roper. Il secondo difetto a cui accenna Ginzburg è la mancata applicazione dell’analisi
comparativa a un contesto significativo, quello europeo, che avrebbe certamente chiarito la
portata dell’«influsso [sui giudici, evidentemente] di idee provenienti dal Continente»
151
sulle
testimonianze rese in questi processi inglesi.
Su un medesimo solco si colloca il pensiero di K. Thomas
152
che pur riconosce come «talvolta
s’incontrino nei processi elementi troppo stravaganti (unconventional) per essere attribuiti alla
suggestione»
153
. Ciò nonostante, egli non si sofferma sull’analisi di quello strato popolare, dal
forte valore simbolico, sottolineandone la precarietà e la frammentarietà rispetto alla
concretezza che, secondo lui, un approccio davvero storicistico richiederebbe. In un saggio
successivo
154
, stimolato dalle critiche di C. Geertz, Thomas riformula parzialmente la sua
posizione, ma solo per reinterpretare il sabba in termini di rovesciamento simbolico dei valori
fondanti della società, scartando l’indagine sulle «strutture mentali invisibili della magia
popolare»
155
.
Eppure, è proprio in area anglosassone che Margaret Murray, in un suo famoso saggio
156
, aveva
ipotizzato la connessione tra il sabba e un culto precristiano della fertilità che, secondo lei,
affondava le sue radici in un passato remotissimo ed era in qualche modo sopravvissuto in
Europa fino all’età moderna. Già nella prefazione a I benandanti, Ginzburg aveva riconosciuto
in questa posizione della Murray un «nocciolo di verità»
157
, attirandosi le critiche della corrente
razionalista degli storici e un’etichetta di Murrayista tout court.
Oltre alla confusione tra miti e riti, un altro punto debole dello studio della Murray consiste,
secondo Ginzburg, nel non aver considerato la sovrapposizione di strati diversi nella
formazione dello stereotipo del sabba: è nella sua versione ormai consolidata che esso viene da
lei assunto acriticamente come base interpretativa.
151
Storia notturna, cit., p. XVII
152
K. Thomas, Religion and the decline of magic, London 1971
153
Storia notturna, cit., p. XVIII
154
K. Thomas, An anthropology of religion and magic, II, in «The Journal of interdisciplinary history», VI (1975),
pp. 91-109
155
Ivi, p. 106
156
The witch-cult in western Europe, cit.
157
I benandanti, cit., prefazione § 3
66
Anche i lavori di R. Kieckhefer
158
e N. Cohn
159
contribuiscono a consolidare l’idea
dell’inconsistenza delle radici popolari del sabba e a gettare discredito sulla vecchia tesi della
Murray, ma in questo modo, secondo Ginzburg, buttano via il bambino (la giusta intuizione sul
perpetuarsi di un antico culto della fertilità) assieme all’acqua sporca (le forzature
metodologiche operate dalla storica britannica).
La consapevolezza della diffusione di un pregiudizio di fondo sulle origini della stregoneria,
per cui gran parte della ricerca si concentra solo sull’analisi dello schema dotto, dà a Ginzburg
l’occasione per sottolineare, ancora una volta, la straordinaria importanza della scoperta degli
atti processuali sui benandanti: la caratteristica più significativa di quelle carte consiste nel gap
comunicativo tra giudici ed inquisiti, elemento che ci consente di cogliere la genuinità di «uno
strato profondo di miti contadini»
160
. Vent’anni dopo I benandanti, Storia notturna colloca
quelle preziose testimonianze in un quadro più ampio, cercando di rinvenirne le radici in un
profondissimo strato mitico e rituale, che affiora in contesti spazio-temporali disparati: questo
tentativo, condotto attraverso un metodo dichiaratamente morfologico, costituisce il nucleo
centrale dell’opera, mentre nella prima parte l’autore (ispirato da I re taumaturghi di M. Bloch)
si sofferma sulla ricorrenza dello schema del complotto come chiave di interpretazione per «la
nascita dell’immagine inquisitoriale del sabba»
161
. La terza e ultima parte (a partire da
Congetture eurasiatiche) tenta di dare legittimità storica ad alcune delle connessioni formali
individuate da Ginzburg, sebbene la scarsità della documentazione non escluda il ricorso a
congetture: il campo di indagine si restringe (ma solo tematicamente) prendendo in
considerazione elementi circoscritti, quali la zoppaggine rituale e la raccolta delle ossa degli
animali uccisi.
Ginzburg sottolinea l’importanza della prospettiva comparata, sostanzialmente ignorata da
Macfarlane e Thomas, come cardine metodologico. Egli è consapevole che un obiettivo
ambizioso come il suo comporti un allargamento smisurato del campo di indagine e di
conseguenza «la rinuncia ad alcuni tra i postulati essenziali alla ricerca storica»
162
. Da qui il
ricorso alla morfologia, elemento acronico, come integrazione o supporto alla ricostruzione
storica tout court.
158
R. Kieckhefer, European witch-trials. Their foundation in popular and learned culture, 1300-1500, Berkeley
1976
159
N. Cohn, Europe’s inner demons, cit.
160
Storia notturna, cit., p. XXIV
161
Ivi, p. XXVI
162
Ivi, p. XXIX
67
Nella terza parte dell’opera lo studioso individua una serie di miti, riti, leggende, favole che
presentano un elevato grado di isomorfismo, in quanto lo stesso elemento (ad esempio la
zoppaggine rituale) vi ricorre in maniera costante. Questo filo conduttore che unisce le singole
unità della serie (contraddistinta da straordinaria ampiezza spazio-temporale) non è passato
inosservato tanto che diversi studiosi hanno cercato di spiegare il fenomeno. In ciascuna delle
ipotesi proposte Ginzburg trova dei limiti legati di volta in volta a un approccio eccessivamente
schematico: o diacronico, sbilanciato dunque verso l’evento, il dato empirico; o sincronico,
teso cioè a cogliere la struttura, il sistema. Di conseguenza nessuna di queste ipotesi prese
separatamente è in grado di arrivare, secondo lui, a conclusioni soddisfacenti.
Si tratta, dunque, sul solco delle ricerche di R. Jakobson in campo linguistico e di Levi-Strauss
in quello sociale, storico e antropologico, di aprire «una via intermedia tra il livello della
struttura e quello dell’evento»
163
nella consapevolezza che «i miti si incarnano, si trasmettono
e agiscono in situazioni sociali concrete, attraverso individui in carne ed ossa»
164
: è attraverso
l’osmosi tra queste due dimensioni (sincronia e diacronia) che siamo in grado di dare un
significato primario (il viaggio del vivente nel mondo dei morti) a fenomeni apparentemente
scollati da qualsiasi logica, come le estasi dei benandanti.
Lebbrosi, ebrei, musulmani
La società francese nel 1321 è interessata da una persecuzione di massa ordinata dal re Filippo
V ai danni dei lebbrosi: accusati di voler attentare alla salute pubblica avvelenando pozzi,
sorgenti, fontane, molti di essi vengono bruciati se rei confessi. La tortura viene usata in
maniera diffusa per facilitarne il cedimento mentre chi, nonostante tutto, proclama la propria
innocenza viene costretto a vivere segregato e separato dai propri cari. Le cronache di quegli
anni, che Ginzburg si appresta ad esaminare, indicano come corresponsabili di questo presunto
complotto accanto ai lebbrosi, in misura varia a seconda delle fonti, musulmani ed ebrei. Anzi,
questi due gruppi avrebbero responsabilità maggiori in quanto “mandanti” della congiura,
rispetto a cui i lebbrosi fungerebbero da veri e propri “sicari”. In realtà l’ondata persecutoria è
la conseguenza di una macchinazione ordita dai referenti politici locali di un ceto mercantile
particolarmente aggressivo e senza scrupoli, che persegue la sola logica del profitto.
163
Storia notturna, cit., p. XXXVII
164
Ivi, p. XXXIX
68
Si tratta di manovre che hanno lo scopo di orientare in una determinata direzione una serie di
tensioni già in atto, legate allo stigma d’infamia che accomuna ebrei e lebbrosi sin
dall’antichità. È un atteggiamento alimentato dall’etichetta di marginalità associata a questi
gruppi, non disgiunta, peraltro, da un’ambiguità di fondo: infatti la considerazione
dell’opinione pubblica nei loro confronti oscilla tra santità e disprezzo.
Lo storico individua l’atto iniziale di tale macchinazione in una lettera inviata alla fine del 1320
dai consoli di Carcassonne al re di Francia: vi si accusano lebbrosi ed ebrei di attentare alla
salute, spirituale e fisica, dei cittadini «con veleni, pozioni pestifere e sortilegi»
165
. Lo scopo
della protesta è dichiarato nella missiva con chiarezza brutale: «liberarsi definitivamente dal
monopolio del credito esercitato dagli ebrei; amministrare le ricche rendite godute dai
lebbrosari»
166
.
Da Carcassonne la notizia dell’imminente complotto si diffonde e la tensione tracima nella
Pasqua del 1321, in particolare nell’area sud-occidentale del Paese: da quel momento e per
tutta l’estate i lebbrosi, sospettati di avvelenare pozzi e fontane, vengono interrogati dalle
autorità secolari, torturati e in gran parte sterminati. L’effetto domino interessa tutta la Francia
estendendosi fino a Parigi.
Negli atti di un processo dell’Inquisizione celebrato di lì a poco, come ideatore e mandante di
una congiura ai danni dei cristiani viene invece indicato il re di Granada: un tale scenario è
delineato dalla confessione di Guillaume Agassa, responsabile del lebbrosario di Lestang, sotto
la pressione del vescovo di Pamiers e dopo essere stato sottoposto a tortura. L’abiura a cui
Agassa è costretto riguarda, tuttavia, solo i crimini commessi contro la fede: l’avvelenamento
delle acque, pur confessato dall’imputato, non viene menzionato.
Le comunità ebraiche in un primo momento riescono a scampare alla persecuzione a prezzo di
un esorbitante ricatto finanziario (giugno 1321) imposto loro da Filippo V ma un’altra lettera,
inviata questa volta da Filippo di Valois, conte d’Angiò, a papa Giovanni XXII, getta nuova
benzina sul fuoco: si tratta, in realtà, di un falso creato ad arte per denunciare un inesistente
complotto ai danni della cristianità, ordito dalla triade ebrei- musulmani- lebbrosi con i primi
nelle vesti delle menti della cospirazione. Essa sarebbe consistita nell’avvelenamento delle
fonti idriche che avrebbe portato allo sterminio dei cristiani e ad un patto tra ebrei e saraceni
per la spartizione dei rispettivi domini, vecchi e acquisiti: ai primi sarebbe toccata la terra santa,
ai secondi il regno di Francia, mentre i lebbrosi avrebbero riscosso laute ricompense in denaro.
165
Storia notturna, cit., p. 10
166
Ibid.
69
Questa cospirazione, dice la lettera, fallì perché i lebbrosi si dimostrarono l’anello debole della
catena. Malgrado negli anni precedenti si fosse mostrato benevolente nei confronti delle
comunità ebraiche, il papa crede al disegno cospiratorio prospettato dalla missiva poiché nel
1322 espelle tutti gli ebrei dai propri domini.
Altre prove false sono fabbricate con lo scopo di mettere pressione a Filippo V affinché denunci
pubblicamente la partecipazione degli ebrei al complotto. Tale denuncia arriva con una lettera
datata 26 luglio 1321 e indirizzata tra gli altri al siniscalco di Carcassonne, città da cui erano
arrivate le prime accuse: il cerchio, dunque, si chiude e la persecuzione degli ebrei, che solo un
mese prima era stata surrogata da una multa esorbitante, può avere inizio.
Lo schema delle false accuse contro ebrei, lebbrosi e musulmani non è una novità: le troviamo
formulate nelle cronache fin dal secolo precedente. Ogni qual volta un avvenimento minacci la
coesione della cristianità, c’è la necessità di trovare dei capri espiatori che consentano di fornire
una valvola di sfogo alle tensioni sociali. È un quadro che ricorre più volte con le medesime
modalità: un mandante, nelle vesti di un sovrano o capo musulmano, si rivolge ad una “mente”
in grado di organizzare e pianificare il complotto su larga scala. Ricoprono questo ruolo
individui o gruppi (es. gli ebrei), marginali dal punto di vista etnico-religioso, che da tempo la
narrativa popolare caratterizza come sospetti, ostili all’ordine sociale. L’ultimo anello della
catena è rappresentato da altri gruppi (es. i lebbrosi) considerati facilmente manipolabili o
corruttibili, per la qual ragione si presterebbero ai peggiori misfatti.
Nonostante di lì a poco emerga che lo schema della cospirazione ha scarsa consistenza, le
accuse cadono solo nei confronti dei lebbrosi fino ad arrivare nel 1338 ad una completa
assoluzione retrospettiva di questi da parte dei loro stessi persecutori (papa Benedetto XII alias
Jacques Fournier, ex vescovo ed inquisitore della diocesi di Pamiers). Gli ebrei, viceversa, non
si vedono mai formalmente ritirare le accuse formulate ai loro danni: molti di coloro che erano
scampati alle persecuzioni vengono espulsi dalla Francia e di lì a poco diverranno vittime di
nuove manovre ai loro danni.
Ebrei, eretici, streghe
L’impalcatura del complotto si ripresenta quasi trent’anni dopo, in occasione dell’epidemia di
peste del 1348. Se nel 1321 era bastata la paura di essere contagiati dalla lebbra a venire usata
come pretesto per scatenare la persecuzione, in questa nuova circostanza le accuse si
accompagnano a una diffusione drammatica e irrefrenabile del contagio. Ancora una volta
70
Carcassonne e le città limitrofe si segnalano come centri di propagazione della cospirazione.
Essa, in un primo tempo, ha come bersaglio i mendicanti, sostituiti di lì a pochissimo dagli
ebrei (aprile-maggio), stretti in una morsa accusatoria che vede confluire le solite tensioni
popolari e la legittimazione legale di queste da parte delle autorità locali.
Ginzburg sottolinea le analogie tra le due ondate persecutorie del 1321 e 1348, caratterizzate
da un andamento simile:
1. Le voci di complotto si diramano in entrambi i casi dalla Francia sud-occidentale
2. Colpiscono gli ebrei solo in un secondo tempo (nel primo caso essi si affiancano ai
lebbrosi, nel secondo sostituiscono i mendicanti)
3. Le persecuzioni presentano un dinamismo spaziale, allargandosi verso nord e verso est
nel 1321, verso est (in particolare Savoia e Delfinato) nel 1348
Accanto a queste analogie, lo studioso pone in evidenza delle differenze: nel 1348 l’ossessione
del complotto è maggiormente sbilanciata verso il basso, essendosi ormai sedimentata nella
mentalità popolare. Le voci di dissenso, presenti anche all’interno delle stesse istituzioni
territoriali (ne è un esempio il borgomastro di Strasburgo), fino ad arrivare a papa Clemente VI
(sostenitore di una posizione basata sulla ragione e sul buon senso), nulla possono contro la
ferocia della violenza popolare, avallata dagli atti dell’autorità giudiziaria.
In riferimento alla precedente ondata, invece, lo storico aveva dato maggiore importanza alla
“regìa” delle autorità politiche e religiose che avevano orientato le ostilità latenti della
popolazione verso bersagli precisi (lebbrosi prima, ebrei poi).
Più di mezzo secolo dopo, nel 1409, una bolla redatta da papa Alessandro V inviata
all’inquisitore Ponce Fougeyron ci informa della diffusione di nuove sette e riti contrari alla
religione cristiana nell’area di giurisdizione del prelato (corrispondente alle attuali Francia sud-
orientale e Svizzera occidentale). Dalle testimonianze che possiamo ricavare dal Formicarius,
testo della letteratura demonologica, scritto tra il 1435 e il 1437 da Johannes Nider,
apprendiamo che le pratiche di queste sette presentano già molti degli elementi che
contraddistingueranno il sabba: «l’omaggio al demonio, l’abiura di Cristo e della fede, la
profanazione della croce, l’unguento magico, i bambini divorati»
167
. Sebbene altri elementi
manchino (il volo magico e i raduni notturni) o siano presenti soltanto in forma embrionale (le
167
Ivi, p. 50
71
metamorfosi), il dado è tratto: si affaccia la «nozione di una setta minacciosa di streghe e
stregoni»
168
il cui principale collante è costituito dall’adorazione del diavolo. Il Formicarius
colloca al 1375 circa l’inizio di queste pratiche di stregoneria collettiva, opera di gruppi di
uomini e donne anziché di individui isolati. Si tratta di una datazione convergente con quella
proposta dal posteriore Tractatus de strigibus (inizi del Cinquecento).
L’immagine ossessiva del complotto ordito contro la società è l’elemento unificatore delle tre
ondate persecutorie che, nell’arco di circa un secolo, colpiscono a intervalli più o meno
regolari, gruppi marginali (lebbrosi, ebrei, streghe) in una regione comprendente la Francia
meridionale, la Savoia e il Delfinato. In queste ultime due aree la convivenza forzata tra
cristiani ed ebrei espulsi dalla Francia causa dinamiche particolari che fanno emergere nuove
sette in cui le due componenti si mescolano. Un altro elemento di contiguità è fornito dalla
convinzione che ci sia un nemico esterno ad ispirare la cospirazione: prima gli infedeli, i re
musulmani, poi il nemico della cristianità per eccellenza, il diavolo. Il concetto di marginalità,
che unisce trasversalmente i tre gruppi in questione, è simbolicamente rappresentato dal
marchio cucito sul vestito di lebbrosi ed ebrei e sul segno identificativo del patto diabolico
impresso dal demonio sui corpi di streghe e stregoni.
Ulteriori testimonianze risalenti al 1435-1440 vengono a completare quello che per 250 anni
sarà lo stereotipo del sabba: compaiono qui gli elementi della metamorfosi, dei voli e dei raduni
notturni che il Nider ignorava o aveva menzionato solo di sfuggita.
Un aspetto interessante è costituito da una duplice progressione nell’evoluzione della teoria del
complotto (dai lebbrosi agli ebrei, per terminare alle streghe): la prima riguarda l’ampiezza dei
gruppi accusati, da uno relativamente circoscritto il cui tratto unificante è la malattia (i
lebbrosi), ad un altro individuabile etnicamente e religiosamente (gli ebrei) per terminare con
le streghe. La seconda concerne il ventaglio delle accuse e la progressione della loro gravità
che, per quanto riguarda le streghe, giunge all’apostasia della fede e al patto col diavolo.
Ginzburg è in parziale disaccordo con la teoria di Cohn, secondo cui «il sabba sarebbe il punto
d’arrivo di uno stereotipo ostile, proiettato successivamente, lungo l’arco di un millennio e
mezzo, su ebrei, cristiani, eretici medievali e streghe»
169
. Sin dal II secolo d.C. i gruppi citati
dal Cohn, minoritari rispetto alle società di cui facevano parte e per la cui coesione costituivano
una minaccia, sono stati via via accusati dei peggiori misfatti: idolatria, antropofagia, pratiche
sessuali abnormi come l’incesto, adorazione del demonio. Questi tratti, dopo l’anno mille e
168
Ibid.
169
Ivi, p. 53
72
solo in occidente, confluiscono e trovano una sorta di sintesi nell’immagine della cerimonia
notturna che comincia a dar vita alla vulgata del sabba. In questo complesso processo di
progressiva coagulazione, alcuni elementi si modificano, altri perdono consistenza, altri ancora
acquistano maggior rilevanza: questo a seconda della loro interazione con un contesto
cronologico, geografico, culturale dai connotati specifici, che si potrebbe definire, mutuando
una definizione proveniente dalla filologia, una contaminazione orizzontale. È secondo questo
aspetto che Ginzburg si scosta dalla visione di Cohn, maggiormente orientata verso un modello
di trasmissione per così dire verticale, automatica. L’immagine del sabba, dunque, si modella
attraverso la sovrapposizione di uno strato di origine antica ma venuto a sedimentarsi sotto
forma di stereotipo nelle convinzioni di inquisitori e giudici, su uno che Ginzburg definisce
«folclorico».
Lo storico cita il caso dei Valdesi che nella seconda metà del Trecento sono oggetto di una vera
e propria offensiva degli inquisitori: le loro confessioni sono il risultato della rielaborazione
degli stereotipi inquisitoriali attraverso il filtro della cultura popolare locale. Questa
commistione, ad esempio, è evidente nella testimonianza offerta nel 1387 dall’imputato
Antonio Galosna relativa a un’orgia a cui avrebbe partecipato ventidue anni prima: in
quell’occasione «una certa Billia la Castagna aveva dato a tutti i partecipanti un liquido di
aspetto ripugnante: chi lo beveva una volta non poteva più abbandonare la setta. Si diceva che
il liquido fosse stato confezionato con lo sterco di un grosso rospo che Billia nutriva sotto il
letto con carne, pane, formaggio»
170
.
Ginzburg afferma che più un elemento affiorante dalle confessioni si allontana dagli stereotipi
demonologici, più è verosimile che si riferisca a uno strato culturale immune dalle proiezioni
e dalle deformazioni dei giudici: abbiamo già citato come un caso esemplare in questo senso
gli atti dei processi ai benandanti Moduco e Gasparutto.
Lo storico ritiene che a partire dalla fine del XIV secolo gruppi ereticali, come i valdesi o i
catari, in un primo momento rimasti distinti dalla «setta stregonesca» di cui parla il Nider,
vengano progressivamente assimilati a quest’ultima da parte degli inquisitori, grazie ad una
convergenza di motivi eterodossi, dualistici e folclorici. Tale processo di assimilazione è
riscontrabile anche nel lessico che testimonia come gli insulti vaudoy (che richiama il nome
francese di Valdo) ed herejoz (dispregiativo per “eretico”) siano usati per designare i
partecipanti al sabba.
170
Ivi, p. 58