113
rapportarsi con essi e a predisporre strumenti e metodologie che non escludano,
anzi promuovano, la loro possibilità di accesso, dato che essi rappresentano una
parte costitutiva e non trascurabile della popolazione. Si può infatti certamente
affermare che un certo livello di utilizzo delle istituzioni e dei servizi del territorio
di residenza da parte degli immigrati rappresenta, come per la popolazione
italiana, un buon indicatore della capacità di vivere un territorio e di rapportarsi
con esso. Al contrario si potrebbe intravedere un possibile sintomo di
esclusione/autoesclusione della popolazione immigrata.
Se si vuole che l’immigrato usi in modo consapevole e disinvolto le risorse del
territorio, perché fattore d’integrazione, è essenziale che i servizi e le istituzioni si
organizzino per permettergli l’accesso. Non è immaginabile che in una situazione
multiculturale come quella italiana si richieda un adattamento passivo al sistema
scolastico, amministrativo-burocratico, istituzionale e del territorio senza fornire
quegli strumenti cognitivi e comportamentali utili all’inserimento dell’immigrato.
Un lavoro dei servizi che oggi non tenga conto della presenza straniera
misconosce l’importanza sociale del fenomeno e si rivela dannoso ai fini
dell’inclusione sociale di una parte della popolazione. Per questo è indispensabile,
ancor più che in altri casi, andare incontro ai bisogni degli immigrati,
interpellandoli e permettendo la loro partecipazione.
La famiglia immigrata, allo stesso modo della famiglia italiana, porta con sé
bisogni che non è possibile trattare indistintamente. La presenza dentro i servizi di
nuovi soggetti (bambini, adolescenti, minori ricongiunti, nuclei familiari
ricomposti) provenienti da paesi di tutto il mondo, sostiene Graziella Favaro,
«rende “visibili” i bisogni e i percorsi di integrazione, richiede conoscenza e
apertura, impone scelte e modalità relazionali che tengono conto, a un tempo,
delle differenze nei comportamenti e nelle “cornici culturali” e delle molteplici
analogie che ci accomunano»
231
.
Bisognerebbe quindi rifuggire dall’idea di integrazione come processo di
omogeneizzazione culturale e di annullamento delle differenze culturali, con la
convinzione che l’omogeneità, improntata sui valori della maggioranza, dovrebbe
sicuramente dar luogo ad una maggior unità e coesione sociale. Molti studiosi, tra
231
Ivi, p. 104.
114
cui Norbert Rouland, sostengono che l’integrazione riuscita non passa attraverso
questa omogeneizzazione culturale, bensì proprio attraverso il legame
comunitario e il riconoscimento delle diverse culture. Infatti, “l’organizzazione
comunitaria può attenuare nell’immigrato il trauma dello sradicamento e fungere
da istituzione che media con la società nel suo complesso. Mentre invece
l’individuo isolato [...] può diventare facile preda di movimenti estremisti”
232
.
Una logica basata sulla richiesta di adattamento passivo al modello culturale
della maggioranza e di annullamento delle differenze culturali degli stranieri non
può dunque rivelarsi vincente in un paese come l’Italia che accetta il suo carattere
multiculturale e che riconosce da anni che il fenomeno immigratorio non è
temporaneo, bensì strutturale e duraturo. Riconoscere le peculiarità culturali
significa per l’Italia, come certamente per gli altri paesi, riconoscere che
l’immigrazione non è motivata da sole ragioni economiche e lavorative e che
quindi esiste un diritto alla differenza, dato che il fenomeno migratorio ha da
decenni raggiunto una dimensione mondiale che non è limitato al nostro
continente e che non è pensabile che interi nuclei familiari in migrazione possano
rimuovere di punto in bianco il loro bagaglio culturale, costituito da tradizioni,
modalità relazionali, modi di concepire l’educazione, la cura dei figli ed anche,
non meno importante, lo spazio ed il tempo. Concretizzare questo diritto alla
differenza è un’impresa, una sfida che non può dirsi mai definitivamente
realizzato, presupponendo costanti e continue ridefinizioni soprattutto in termini
operativi.
232
N. Rouland, L’Etat français et le pluralisme, Odile Jacob, Parigi, 1995, p. 10.
115
4.2 Servizi educativo-formativi nel confronto con minori e famiglie immigrate
4.2.1 Servizi ed integrazione
La presenza di figli di immigrati nei servizi educativi richiede particolari
attenzioni. Da una parte i minori immigrati rappresentano potenzialmente una
fascia importante della popolazione scolastica a rischio di fallimento, se non
supportati adeguatamente, dall’altra essi vivono in modo forte e non controllato le
ambivalenze, le contraddittorietà, i conflitti che si vengono a creare tra la cultura
della famiglia e quella del servizio educativo. Bisogna quindi intervenire per
evitare che il minore soffra psicologicamente, addirittura subisca traumi, e instauri
relazioni non adeguate con i “mondi culturali” con cui viene a contatto, evitando
così da una parte il rinnegamento della cultura d’origine, della famiglia, e
dall’altro l’autoesclusione o l’emarginazione dal contesto sociale e scolastico in
cui si dovrebbe inserire.
Ogni servizio educativo è quindi eticamente sollecitato a promuovere
metodologie e iniziative atte a favorire il pieno benessere psicologico del minore
immigrato e quindi a prevenire il disagio a cui può incorrere soprattutto a causa di
insuccessi scolastici o vissuti di non-appartenenza, nella consapevolezza però che
i bambini immigrati, in quanto diversi, hanno bisogni diversi e sarebbe errato
considerarli aprioristicamente come soggetti portatori di un estremo disagio, così
come sarebbe scorretto ritenere che essi non necessitano di alcun intervento
specifico
233
. I servizi educativi, la scuola e le istituzioni formative rappresentano
un formidabile dispositivo pedagogico per l’inserimento degli immigrati nel
territorio, siano essi minori o adulti: il soggetto straniero non nato in Italia, se da
una parte perde qualcosa di sé, dovendo abbandonare modalità di interazione e di
azione tipiche della sua cultura di appartenenza, dall’altra, attraverso questi
servizi, “è posto nelle condizioni di acquisire ciò che gli è indispensabile per
essere, non soltanto accettato, ma riconosciuto come neo-autoctono in grado di
233
Cfr. M. Fumagalli, Riflessioni su mediazione e lavoro sociale, in “Studi Zancan” n. 6 2003, p.
123.
116
comunicare, organizzare la propria vita, muoversi (con una cultura in più, oltre
alla propria) con più autonomia”
234
.
Per quanto riguarda i servizi educativi per minori, la scuola e i servizi per
l’infanzia (asilo nido e scuola dell’infanzia) rappresentano spesso i primi e più
importanti interlocutori delle famiglie immigrate appena giunte in Italia con figli.
Anche nel caso dei nati da stranieri sul territorio italiano questi servizi possono
rappresentare il primo vero e proprio momento di reale contatto tra gli stranieri e
la comunità locale, perché implicano un rapporto duraturo e un notevole
coinvolgimento da parte dei genitori e degli operatori. È interessante evidenziare
che i risultati della ricerca rivelano, quasi a voler contraddire il senso comune, che
non solo i bambini che vivono direttamente la migrazione ma anche i bambini nati
in Italia, la cosiddetta “seconda generazione”, presentano dei problemi di
inserimento. È dimostrato che la seconda generazione può riscontrare difficoltà
della stessa, se non maggiore, intensità rispetto ai bambini nati altrove. La
credenza che ritiene la minore età come un fattore che comporta un inserimento
più agile non è pertanto riconosciuta come valida dalla ricerca
235
.
4.2.2 Inserimento e accoglienza nei servizi scolastici ed educativi
Per questo motivo la scuola e i servizi educativi per l’infanzia e l’adolescenza
dovrebbero configurarsi come laboratori delle differenze
236
, ovvero come spazi in
cui poter sperimentare e vivere le differenze (oltre che di etnia: di genere, di ruolo,
di cultura, ecc.) e poter sviluppare la cultura e la logica dello scambio, del
confronto e del dialogo “tra le mille differenze”, con la finalità di creare le
premesse di una nuova convivenza.
È soprattutto a scuola e nei servizi educativi che i bambini imparano dalla
pluralità delle differenze che “scambio significa interazione e non adattamento e
234
D. Demetrio, La Pedagogia interculturale tra integrazione e interazione. Per nuove
quotidianità educative non soltanto a scuola, in V. Telmon, L, Borghi (a cura di), Valori formativi
e culture diverse. L’interazione educativa in prospettiva transnazionale, Armando, Roma, 1995, p.
200.
235
D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità
nel percorso di integrazione, La Nuova Italia, Firenze, 1993, pp. 70-71.
236
Cfr. L. Gallo, Immigrazione: da emergenza a risorsa, in F. Massimeo, P. Selvaggi (a cura di),
L’educazione interculturale: i saperi, la rete, le culture, Carra, Puglia, 2004, p. 53.
117
sottomissione di un individuo a un altro; che lo scambio implica la capacità di
mettersi in gioco e che il gioco, per poter funzionare, deve darsi delle regole, che
sono regole di democrazia e di rispetto reciproco”. I servizi educativi si
configurano pertanto come crocevia di scambi e di interazioni molteplici e si
prestano quasi naturalmente ad essere l luoghi più idonei per insegnare la
democrazia praticandola, “scoprendo giorno per giorno che essa vive e si
alimenta di pluralità ed antagonismi che non vanno soppressi o negati bensì
inseriti dialetticamente in un libero, ricco e differenziato confronto di idee, di
esperienze, di modi di vivere e di pensare”
237
.
Perché questo avvenga i servizi educativi e la scuola in primis devono adottare
una articolazione dell’impianto strutturale e curricolare più flessibile, attraverso
un’organizzazione modulare degli spazi, dei tempi, delle metodologie, nonché
attraverso una ridefinizione dei curricoli disciplinari, indispensabile per superare
un’impostazione etnocentrica per certi versi ancora presente negli attuali
programmi d’insegnamento e nei libri di testo adottati
238
.
Ai fini dell’inserimento del minore immigrato, l’istituzione scolastica riveste
un’importanza strategica e di primo piano. Ad essa spetta il compito di accogliere
il minore e permettergli di raggiungere il successo scolastico. Essa rappresenta
quindi “la chiave dell’integrazione dei figli dei migranti”. Difficilmente, infatti, si
potrà definire integrato un bambino che non frequenti la scuola: il futuro non solo
lavorativo ma anche sociale delle persone è inestricabilmente legato al percorso
scolastico e ai relativi successi/insuccessi ottenuti. La scuola, inoltre, rappresenta
con buona probabilità l’ambito in cui il minore esperisce la maggior parte delle
sue relazioni sociali, sia con persone della sua età che con adulti, e in cui vive
intensamente l’interazione tra la cultura della famiglia e quella scolastica. Proprio
per tali ragioni la scuola dovrebbe ispirarsi ai principi dell’accoglienza:
- dichiarando in maniera esplicita di condannare qualsiasi forma di razzismo e
di discriminazione etnica e culturale e ponendo tale obiettivo al centro della
propria proposta educativa;
237
F. Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza, Bari, 2002, pp. VII-VIII.
238
Ibidem.
118
- traducendo queste dichiarazioni di principio nel Piano dell’Offerta
Formativa in azioni capaci di tener conto e di soddisfare i bisogni formativi
specifici dei minori immigrati;
- coinvolgendo in tali azioni tutte le forze istituzionali interne ed esterne alla
scuola, utilizzando il modello dell’integrazione interistituzionale come punto
di forza della propria azione formativa;
- capitalizzando le sue risorse materiali e professionali intorno all’obiettivo
dell’educazione interculturale nella consapevolezza che i benefici ricadranno
non solo sui bambini immigranti ma anche su quelli autoctoni, che
dall’incontro tra culture avranno modo di sperimentare la ricchezza e la
produttività dello scambio e del confronto interculturale
239
.
L’accoglienza rappresenta “un progetto e una pratica di tipo relazionale e
organizzativo miranti a predisporre contesti formativi volti a facilitare
l’inserimento di persone che - in quanto portatrici di diversità - potrebbero non
riuscire a trovare da sole le forme e le soluzioni più idonee ad una loro
integrazione”
240
. Uno spazio accogliente è uno spazio che non esclude, uno spazio
che parla a tutti
241
. Il minore immigrato nei servizi educativi si trova a dover
effettuare, volente o nolente, consapevolmente o inconsapevolmente una
transizione culturale più o meno marcata, a dipendenza della provenienza dei
genitori. Un servizio accogliente tenta di ridurre al massimo, grazie a modifiche
dell’organizzazione sia nei suoi aspetti funzionali sia in quelli relazionali, le
sofferenze psicologiche e i disagi che l’impatto con “il nuovo” e il contemporaneo
distacco da ciò che gli è familiare (il “vecchio”) potrebbe produrre.
È necessario pertanto pensare ad organizzazioni a maglie larghe, “in cui le
differenze possano manifestarsi e trovare legittimità, per l’attivazione di un
confronto che sappia cogliere le corrispondenze piuttosto che fermarsi alle
distanze”. Organizzazioni dunque che non intendano la differenza di cui è
portatore l’alunno straniero “come una mancanza o un problema, bensì come
239
Ivi, pp. 48-49.
240
Ivi, pp. 49-50.
241
Ivi, p. 49.
119
ricchezza, aggiunta di conoscenze, esperienze, emozioni che meritano di trovare
riconoscimento”
242
.
L’accoglienza dovrebbe realizzarsi fin dal primo momento di contatto con la
famiglia e l’allievo immigrato, dando a loro la possibilità di comprendere il
funzionamento della scuola ma anche del sistema scolastico italiano
243
, e
caratterizzare tutto il percorso scolastico attraverso un’attenzione particolare alle
relazioni tra i docenti e gli allievi e i docenti e i genitori, anche attraverso l’ausilio
di mediatori culturali e di interpreti
244
.
4.2.3 Partenariato ed alleanza educativa
La relazione scuola-genitori è sicuramente un elemento fondamentale per il
successo dell’inserimento e per la riuscita scolastica del minore immigrato. Il
partenariato tra la famiglia in genere, non solo di quella immigrata, e la scuola è
riconosciuto dalla ricerca come un modo di operare che, grazie alla coerenza delle
intenzionalità educative, può garantire il successo scolastico. Tante volte gli
insuccessi in educazione sono proprio legati alla mancanza di comunicazione tra i
soggetti coinvolti, e nel caso delle famiglie di immigrati è ancora più sentita
l’esigenza di instaurare un rapporto di cooperazione, in quanto le azioni e le
intenzioni della scuola e della famiglia non dovrebbero entrare in conflitto, anzi
dovrebbero integrarsi le une con le altre. Poco fruttuoso e addirittura nocivo è
l’atteggiamento opposto, cioè quello che vede educatori e genitori parlare l’uno
dell’altro, senza però mai scambiarsi i propri punti di vista.
L’alleanza educativa, che può scaturire dal partenariato, è necessaria perché
“inseriti in contesti educativi che presentano importanti elementi di discontinuità,
i bambini immigrati si [vedono costretti a] integrare due mondi e due modi di
242
Ivi, pp. 49-50.
243
A tal fine si rivelano utili le documentazioni scritte nelle lingue comprese dalle famiglie
immigrate.
244
Le Linee guida sull’integrazione dei minori stranieri suddividono l’accoglienza in tre sotto-
dimensioni: l’area amministrativa (che concerne gli aspetti dell’iscrizione del fanciullo), l’area
comunicativo-relazionale (che riguarda prevalentemente le relazioni tra scuola e genitori) e l’area
educativo-didattica (che fa riferimento in particolare alla mediazione culturale). Cfr. MIUR, Linee
guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, Roma, 2006.
120
funzionamento”
245
, talvolta e per certi aspetti tra di loro conflittuali. Essa è quindi
indispensabile per non costringere il minore a dover scegliere uno dei due
“mondi”, ma a permettergli di riuscire a viverli entrambi nel modo più sereno
possibile, supportato dall’azione degli educatori e dei genitori.
Tra la famiglia e il servizio educativo possono facilmente esserci delle
differenze nel modo di intendere l’educazione del minore. L’asilo nido è quello
che maggiormente si trova a confrontarsi con differenti modi di intendere la cura
del bambino. Ogni famiglia è infatti di per sé una cultura che esprime vari modi di
intendere la genitorialità e questo fatto può essere maggiormente accentuato nelle
famiglie di origine immigrata. Ad esempio, quando i servizi si confrontano con
famiglie immigrate latino-americane, filippine e cingalesi vengono a contatto con
modalità di cura di tipo più “tradizionale”, cioè con un maternage ad alto
contatto: la mamma allatta a lungo, fino ai 2-3 anni e mezzo, tiene vicino il
bambino nel momento del sonno, tiene per molto tempo il bambino in braccio.
Allo stesso modo i servizi possono rapportarsi a genitorialità improntate al
maternage collettivo, tipico delle società non industrializzate: una modalità di
cura, di condivisione della responsabilità di accudimento e crescita dei bambini.
Nel paese d’origine il parto e la maternità sono eventi che coinvolgono tutta la
famiglia allargata e diventano momenti di comunicazione e confronto; la madre è
costantemente affiancata da altre figure femminili che contribuiscono alla cura e
all’educazione dei bambini fin dalla nascita; nei primi anni di vita il bambino è di
tutti, la dimensione famigliare è estesa a coloro che condividono lo spazio vitale,
comprendendo non solo i parenti ma anche i vicini di casa, le mamme di altri
bambini, le figure femminili che circondano la mamma e il suo bambino,
condividendone l’accudimento e la responsabilità
246
.
Il servizio educativo è chiamato quindi a ricercare un’alleanza educativa con la
famiglia perché da questa dipende in buona misura la possibilità di successo
dell’inserimento e del benessere del minore immigrato. L’instaurazione di una
buona relazione con la famiglia dovrebbe consentire di ridurre al minimo il rischio
245
G. Favaro, Culture d’infanzia. Modelli educativi e rappresentazioni a confronto, in G. Favaro,
S. Mantovani, T. Musatti, Nello stesso nido. Famiglie e bambini stranieri nei servizi educativi,
Franco Angeli, Milano 2006, p. 91.
246
Cfr. S. A. Rossetti, I luoghi e i tempi della cura d’infanzia, in G. Favaro, S. Mantovani, T.
Musatti, Nello stesso nido…, cit., pp. 167-172.
121
che i genitori si sentano esclusi dall’educazione del proprio figlio, con i
conseguenti possibili fantasmi di esclusione e di perdita, che potrebbero portare
ad un atteggiamento ostile e di conflittualità dei genitori nei confronti degli
educatori. L’alleanza educativa inoltre, ricercando un punto di contatto con la
famiglia e rifuggendo dall’idea che le modalità genitoriali in quanto diverse siano
inadeguate e carenti, non tenta di imporre modalità che il minore non potrebbe
non considerare a lui estranee. L’alleanza educativa ha dunque la funzione di
promuovere e facilitare la comunicazione e, allo stesso tempo, di ridurre la
possibilità di improduttive fratture comunicative tra la famiglia e il servizio
educativo, le cui conseguenze negative ricadrebbero inevitabilmente sul benessere
del minore
247
.
247
Cfr. G. Favaro, Culture d’infanzia. Modelli educativi e rappresentazioni a confronto, in G.
Favaro, S. Mantovani, T. Musatti, Nello stesso nido…, cit., p. 96.
122
4.3 L’approccio interculturale nei servizi
4.3.1 La mediazione come filosofia di lavoro delle organizzazioni
La presenza sempre più massiccia di immigrati e soprattutto i processi via via
più consolidati della loro stabilizzazione, sollecitano i servizi e gli operatori a
rivedere modalità di risposta e di progettazione, a riconsiderare approcci e sistemi
di relazione. La sfida dei servizi è quella di trovare modalità comunicative e
relazionali che tengano conto della diversità di cui è portatore ogni persona, di
costruire punti di incontro, ovvero di mediazione, che possano conciliare le
esigenze del servizio con quelle del fruitore. I servizi non dovrebbero impedire
l’espressione delle diversità, dovrebbero invece accettarla e valorizzarla in quanto
fatto inevitabile e normale. Il riconoscimento delle diversità relative all’origine, al
genere, alla lingua, alla religione ecc. dovrebbe costituire uno dei principi alla
base di ogni servizio, soprattutto se di tipo educativo e formativo.
La mediazione, nel senso più ampio del termine, si esprime in azioni che
facilitano il contatto, favoriscono l’interazione e lo scambio reciproco, con il
risultato di promuovere opportunità equivalenti nel rispetto delle diversità
248
. Si
potrebbe quindi definire la mediazione interculturale come un insieme di attività
ed un approccio relazionale miranti a gestire le differenze e le diversità. La
mediazione consente infatti di passare dalla fase di contatto a quella di incontro e
scambio, soprattutto quando sono presenti differenze/diversità importanti tra gli
interlocutori. Tutti gli operatori che agiscono in campo educativo-formativo
dovrebbero possedere competenze di tipo interculturale relative all’approccio
della mediazione. Tali competenze dovrebbero riguardare sia il piano cognitivo
(maggiori informazioni, apertura, intellegibilità, sospensione del giudizio,
problematizzazione, consapevolezza d punti di vista differenti ecc.) sia il piano
affettivo-relazionale (decentramento, empatia, capacità di ascolto, analisi delle
emozioni in gioco ecc.)
249
.
248
Cfr. Favaro G., Fumagalli M., Capirsi diversi. Idee e pratiche di mediazione interculturale,
Carocci, Roma, 2004, p. 19.
249
Ivi, p. 25.
123
La mediazione si basa sulla presa di consapevolezza che le persone non sono
mai portatrici di una cultura deterministicamente data e immutabile, ma
esprimono piuttosto frammenti culturali, che vengono manifestati e trasformati in
modo personale e creativo da ognuno
250
.
L’esperienza della migrazione accentua questo aspetto; infatti una persona
migrante non rappresenterà mai un esito predeterminato della sua cultura di
appartenenza o di quella di destinazione; in una qualche misura l’esperienza della
migrazione modifica tutte e due queste culture, e quindi anche l’identità
“culturale” del soggetto migrante.
La mediazione si basa quindi sul presupposto che è possibile trovare punti di
incontro tra persone differenti anche dal punto di vista culturale in quanto esse
non sono entità fisse. Johnson e Nigris affermano che l’esigenza della mediazione
interculturale nasce quando: a) appartenenti a diverse culture si trovano coinvolti
in processi di comunicazione reciproca; b) queste relazioni avvengono in contesti
socio-istituzionali in cui si verificano squilibri di potere fra i partecipanti; c) le
relazioni si instaurano tra rappresentanti di una cultura dominante, che si
propongono come portatori della verità, del progresso e della civiltà, e membri
delle comunità minoritarie, nei confronti dei quali il gruppo maggioritario
sviluppa e manifesta più o meno apertamente stereotipi e pregiudizi
251
. La
mediazione è un modo di relazionarsi che può avvenire in modo più o meno
formale.
Essa può essere svolta anche a livello informale ad esempio da leader di
specifiche comunità immigrate, da giornalisti, da politici, ecc. Se la mediazione
può essere dunque svolta da chiunque in modo informale, d’altra parte esiste una
figura professionale specifica, istituzionale, a cui è demandato il compito di
attuare la mediazione interculturale nelle organizzazioni: il cosiddetto mediatore
culturale (o interculturale).
250
Ibidem.
251
P. Johnson, E. Nigris, Le figure della mediazione culturale in contesti educativi, in E. Nigris (a
cura di), Educazione interculturale, Mondadori, Milano, 1996, pp. 373-374.
124
4.3.2 Il professionista della mediazione interculturale
Nei paesi di più antica immigrazione è ormai diffuso l’utilizzo dei mediatori
252
,
operatori che agiscono nei servizi con il compito specifico di svolgere la
mediazione. Spesso descritte come figure “ponte”, in quanto si pongono tra due
culture (o meglio, tra persone di due culture diverse), queste professionalità
operano per facilitare la comunicazione tra gli autoctoni, gli operatori dei servizi e
gli stranieri. In particolare, il compito di questa figura professionale è duplice:
facilitare l’accesso ai servizi agli stranieri e aiutare gli operatori dei servizi ad
accogliere una nuova utenza che presenta differenze che rendono difficili i
processi comunicativi non solo per ragioni linguistiche, ma anche per la diversità
dei codici culturali. L’obiettivo ultimo della mediazione culturale è infatti quello
di “favorire la mediazione e l’integrazione tra sistemi di regole, anche informali,
diversi tra loro”
253
. L’elemento cruciale di questi operatori è molto spesso
l’appartenenza ad una comunità straniera di riferimento o almeno l’aver vissuto
di persona l’esperienza della migrazione, anche se questi non sono dei requisiti
rigidi
254
. Diverso è il peso attribuito nei vari paesi a questa dimensione o a quella
della formazione. In Italia è stata adottata un via intermedia, in quanto non si
attribuisce importanza tanto all’appartenenza etnica (come nel caso francese) o
alla formazione iniziale (come negli USA, che utilizza mediatori con formazione
nell’assistenza sociale): i mediatori sono generalmente immigrati e vengono
formati al ruolo per circa un anno
255
.
252
Questa figura professionale, come altre professioni del sociale, è caratterizzata dalla forte
presenza di operatrici donne. Qui si userà il genere maschile solo per motivi legati alla leggibilità
del testo.
253
F. Balsamo, Famiglie di migranti. Trasformazioni dei ruoli e mediazione culturale, Carocci,
Roma, 2006, p. 147.
254
Demetrio precisa infatti una distinzione terminologica importante: con mediatori interculturali
vanno intesi tutti gli operatori (insegnanti, educatori, psicologi,...) che, con consapevolezza, si
interrogano e si attrezzano per favorire la ricomposizione tra riferimenti culturali, allo scopo di
creare momenti pedagogici capaci di andare oltre le reciproche differenze; i mediatori culturali,
invece, sono operatori che, in quanto membri delle comunità di appartenenza, hanno il compito “di
tutelare che queste non vengano del tutto disperse e di farle conoscere [alle persone di diversa
cultura]”. Cfr. D. Demetrio, G. Favaro, Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica
interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La Nuova Italia, Firenze, 1997,
pp. 4-5. È utile precisare che oggi con l’espressione mediatore interculturale si intende anche il
professionista formato dalle università per svolgere, a prescindere dalla nazionalità, l’attività di
mediazione ad esempio nelle organizzazioni e negli organismi internazionali.
255
Cfr. F. Balsamo, Famiglie di migranti. Trasformazioni dei ruoli e mediazione culturale,
Carocci, Roma, 2006, pp. 147-148.
125
Ma in che cosa consiste concretamente la mediazione e quale ruolo assume il
mediatore nelle interazioni tra servizio e famiglie e persone immigrate? Per
rispondere a questi interrogativi è utile presentare le varie concezioni che si
riferiscono all’attività professionale del mediatore. Egli non è infatti considerato
in termini univoci ed è soggetto a molteplici interpretazioni, che ovviamente
possono rendere poco chiara l’identità di questa figura professionale e creare
confusione e malintesi. I servizi, i decisori politici, l’utenza possono attribuire al
mediatore diversi ruoli, anche molto diversi. Gli stessi mediatori possono
trasmettere, attraverso la loro attività, diversi significati relativamente al loro
ruolo. Il mediatore è infatti generalmente inteso nei modi qui di seguito elencati.
Mediatore come interprete linguistico, traduttore occasionale: è il modello più
utilizzato nei servizi. Si rivela un modo riduttivo di intendere la funzione della
mediazione culturale. Paradossalmente è spesso utilizzata in questo modo da
servizi la cui azione è direttamente rivolta agli immigrati, come ad esempio gli
uffici per gli stranieri del comune o delle questure.
Mediatore come informatore e traduttore delle regole, delle leggi, dei diritti e dei
doveri con funzione bilaterale, ma soprattutto rivolta agli immigrati: il mediatore
spiega agli immigrati cosa possono e cosa non possono fare; il mediatore funge da
“filtro” tra popolazione autoctona e stranieri.
Mediatore con funzione prevalentemente psico-sociale di accompagnamen-to,
sostegno, aiuto: vi è una forte identificazione rispetto alla situazione, ai problemi
e ai vissuti dell’immigrazione e insieme al genere dell’interlocutore (che richiede
modalità interazionali diverse). Il mediatore svolge funzioni di interpretariato
culturale, tentando di reinterpretare i bisogni, di mettere in luce le risorse
dell’immigrato e di ribaltare così l’immagine e la posizione di esso da persona
bisognosa a persona in possesso di risorse culturali sottoutilizzate o per nulla
utilizzate.
Mediatore come agente o anche come creatore di cultura: fa riferimento ad una
concezione di operatore che agisce tra e in culture non immutabili, non
deterministicamente date ma passibili di continue trasformazioni. Il mediatore in
questa prospettiva rappresenta un operatore che produce e riproduce incontri
culturali sempre nuovi, in un’ottica di interculturalità. In tale ottica il mediatore
126
può assumere un ruolo di cambiamento sociale, di stimolo per la riorganizzazione
del servizio, di arricchimento della programmazione e delle azioni che il servizio
conduce
256
.
La mediazione interculturale intesa in senso ampio e non riduttivo non può
realizzarsi solo grazie agli sforzi del singolo operatore ma solo se la sua opera è
sostenuta da progetti specifici che rendano consapevoli tutti gli attori partecipanti
al servizio (operatori, utenti, famiglie ecc.) del suo ruolo istituzionale. La
mediazione dev’essere vista come un’attività, un compito che coinvolge
interamente l’organizzazione del servizio e dev’essere da questa attivamente
sostenuta. L’introduzione di mediatori non deve assolutamente essere un pretesto
per delegare ad uno specifico operatore le questioni legate al rapporto con gli
immigrati. La mediazione dovrebbe configurarsi come uno strumento integrato
alle normali prassi operative non come un’azione collaterale e marginale e da
adottare in un’ottica emergenziale o con modalità improvvisate. La mediazione
dovrebbe in definitiva essere un elemento strutturale della programmazione di un
servizio in un contesto caratterizzato dalla presenza multiculturale. Possono essere
individuati quattro piani di azione del mediatore: 1) piano orientativo-informativo
(orientamento nel servizio e nel territorio, informazioni all’utente e agli operatori,
accompagnamento verso altri servizi); piano linguistico-comunicativo (traduzione
orale e scritta, esplicitazione e decodifica di messaggi verbali e non verbali,
partecipazione ai colloqui, alle visite domiciliari); piano psicosociale e
relazionale (attenzione alla relazione, prevenzione del sorgere di malintesi,
collaborazione alla ricerca di risposte e soluzioni); piano culturale (informazione
sui contesti d’origine relativamente ai sistemi di cura, all’organizzazione
scolastica, ai sistemi familiari, ecc.)
257
. Il mediatore, dato il suo importante ruolo,
dovrebbe possedere, dopo aver frequentato un’adeguata formazione, una serie di
competenze, che vengono qui riportate nella figura 4.1. Si può ben comprendere
quanto la figura di mediatore, trovandosi ad interagire tra culture, riferimenti e
pratiche differenti, richieda il possesso di molteplici e diverse competenze, ma
sopratutto una forte consapevolezza del proprio ruolo e delle relative funzioni
258
.
256
Ivi, pp. 147-152.
257
M. Fumagalli, Riflessioni su mediazione e lavoro sociale, in “Studi Zancan” n. 6 2003, p. 193.
258
Cfr. G. Favaro, Un centro per l’integrazione delle famiglie e dei bambini immigrati. Note sul