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I tre assi semantici rendono conto del processo di interazione fra evento e individuo lungo
la linea del tempo nel contesto di crisi: epifania del fenomeno, acquisizione di conoscenza,
risposta.
In particolare, le tre aree semantiche di cui sopra, rimandando ai concetti di “separazione”,
“interpretazione” e “giudizio”, rappresentano anche le condizioni necessarie al processo di
decisione, attività indispensabile in uno stato di crisi. Infatti, il rischio di incorrere in una
paralisi dell’agire, e dunque al fallimento, è molto alto. Pertanto la capacità di assumere
provvedimenti conservando uno stato di lucidità è di cruciale importanza. Il processo
decisionale, a sua volta, presuppone qualità cognitive ed etiche e si inserisce in un percorso
che va dall’interpretazione del presagio ad una condizione di distacco utile a scegliere tra le
tante strade possibili per riuscire a risolvere la situazione.
Solitamente le strade per uscire dalla crisi sono più d’una ma nessuno è in grado di stabilire in
anticipo quale sia quella giusta, quella imboccata potrebbe rivelarsi la migliore oppure essere
un vicolo cieco.
Parlare di crisi significa, dunque, parlare di cambiamento, di rottura con il passato, di
un momento in cui scompaiono i punti di riferimento e l’individuo si trova costretto ad
interrogarsi e a mettersi in gioco per riuscire a riportare stabilità. Tuttavia bisogne essere
consapevoli che la scelta effettuata non potrà riportare allo status quo ante ma,
inevitabilmente, influenzerà sia l’agire futuro sia l’essenza stessa dell’organizzazione.
L’azienda, dunque, è costretta a rimettersi interamente in discussione e questo, come
anticipato, fa emergere una sensazione di “paura”. In particolare, secondo Bucci «la paura
deriva dal sentimento, confuso ma non irragionevole, che non vi sia da sperare che la crisi
finisca. Il sentimento che non vi sia fondo alla crisi crea nell’uomo la vertigine del baratro o
dell’illimitato» (Bucci, 1998; p.163). Pertanto, è proprio la paura il primo ostacolo da
superare.
Questo sentimento nasce dalla consapevolezza che niente sarà più come prima ma,
allo stesso tempo, non si sa cosa sostituirà ciò che era e non può più essere. La paura non è,
come erroneamente si è portati a credere, totalmente sottomessa all’irrazionalità. Al contrario,
essa ha l’importante ruolo di impedire comportamenti potenzialmente pericolosi che
potrebbero nuocere alla propria condizione.
Secondo Bucci è proprio lo schema mentale della paura che nel tempo ha influenzato
la valenza valoriale che comunemente viene attribuita al termine crisi (Bucci, 1998).
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Altresì, è interessante notare che tutte le lingue europee nel tempo abbiano permesso
l’affermarsi dell’accezione negativa del termine. Di conseguenza, il termine, dall’indicare il
punto di svolta verso una soluzione, si è progressivamente orientato ad indicare il punto di
svolta verso una soluzione negativa. Basti pensare che oggi alla parola crisi sono
generalmente associati i concetti di aggravamento di un processo clinico, economico e
politico e quelli di deflagrazione, disordine, divergenza, destabilizzazione (Bobbio, Matteucci,
Pasquino, 1983).
Analogamente, anche l’utilizzo dell’aggettivo “critico” ha assunto nel tempo
un’accezione negativa. In origine indicava la funzione di formulare un giudizio o
un’interpretazione mentre oggi conferisce generalmente un senso negativo al giudizio
espresso: fornire un parere critico denota una propria interpretazione negativa di quanto
proposto (Perini, 1998a).
Demaria, nel saggio La credibilità e la fiducia nella gestione delle crisi, approfondisce
ulteriormente la nozione di crisi e sostiene che tale concetto ha subito nella storia della sua
interpretazione e del suo impiego molte metamorfosi, tanto da essere divenuto un concetto
apparentemente vuoto e scarsamente esplicativo: «Da modello euristico, schema del
procedimento razionale attraverso cui i medici ippocratici ordinavano le fasi di un processo
fisiologico entro un percorso ordinato di sviluppo, la crisi è giunta a designare ogni tipo di
patologia degli organismi sociali» (Demaria, 1994; p. 173). Ciononostante, sostiene Demaria,
all’interno di alcune discipline delle scienze umane il concetto di crisi è stato recuperato ed
utilizzato nuovamente con funzione esplicativa.
Nel saggio l’autrice spiega la necessità di considerare la nozione di crisi come un
concetto costituito da una serie di elementi interconnessi, in cui il filo conduttore è l’idea di
perturbazione, cioè un momento di alterazione e transizione in cui un’organizzazione si trova
ad affrontare un problema che non può risolvere applicando le regole e le norme correnti del
suo funzionamento ordinario (Demaria, 1994).
Al fine di comprendere al meglio il concetto di crisi è interessante esplicitare quali
siano le differenze con il termine “emergenza”. Nel gergo comune, infatti, questi due termini
vengono spesso usati come sinonimi tuttavia essi divergono per contenuti semantici: la crisi si
pone rispetto all’emergenza ad un livello superiore per complessità e ricchezza concettuale.
L’emergenza si manifesta nel momento in cui l’individuo in determinata situazione di
difficoltà, è costretto ad attuare procedure non ordinarie, ma comunque prestabilite e già
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conosciute, per riportare lo stato delle cose alla normalità: l’individuo è consapevole di quello
che dovrà fare per affrontare un’emergenza prima ancora che questa si presenti
effettivamente. Ad esempio, se dalla strada vediamo uscire del fumo dalle finestre di casa,
sappiamo già che la prima cosa da fare è chiamare i vigili del fuoco perché possano
intervenire per spegnere l’incendio e porre fine all’emergenza.
Confrontarsi con una crisi, al contrario, è un’esperienza estremamente sofisticata
proprio per la difficoltà che comporta la risoluzione della stessa.
Ogni crisi è una storia a sé stante, inaspettata e imprevedibile nel suo svolgimento; per
superarla non basta un semplice richiamo alle proprie conoscenze pregresse, poiché non
esistono azioni codificate che ci diano la certezza del buon esito finale.
Una situazione di crisi obbliga ad assumere un atteggiamento propositivo e
pragmatico, a mettere in campo tutte le proprie capacità, a cercare nuove risorse tangibili e
intangibili per fronteggiare e superare il momento di straordinaria difficoltà.
È proprio questa rottura insanabile con l’ordinario e il convenzionale che permette
all’uomo di sfruttare al massimo le proprie doti di intelligenza e creatività: non a caso le tappe
più importanti dello sviluppo del genere umano sono coincise con i momenti più “critici”
della sua storia. Il superamento di una crisi permette all’individuo di fare tesoro
dell’esperienza vissuta, custodendola come una pagina fondamentale della propria esistenza
da cui trarre insegnamento per evitare esperienze simili, quanto meno per colpe personali. Chi
ha già provato cosa significa affrontare una crisi, spenderà tutte le proprie energie e le proprie
competenze per fa sì che un evento del genere non si ripeta più per proprie responsabilità.
L’intento è quello di lasciare solo all’ineluttabilità del caso la possibilità di ricadere
nell’occhio del ciclone, ben sapendo che, per quanto ci si sforzi, la vita riserva in ogni
momento improvvisi punti di svolta. E l’uomo sarà così nuovamente costretto a tirare fuori il
meglio di sé per uscirne ancor più forte e sicuro dei propri mezzi.
A tal proposito è bene estendere la riflessione sull’etimologia della parola crisi anche alla
cultura orientale, la quale assume una prospettiva più ampia rispetto a quella precedentemente
esposta. Basti pensare, infatti, che nella lingua cinese l’ideogramma che simboleggia la crisi
危機 è costituito da due parti: la prima 危 (wei) rappresenta la minaccia e il pericolo, la
seconda 機 (ji) l’opportunità. La scelta dei due ideogrammi ci permette di riflettere sulla
valenza valoriale del concetto di crisi. È indubbio che il passaggio di una crisi comporti dei
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cambiamenti nell’ambiente che le percepisce, ma la rottura con l’ordine preesistente e il
cambiamento possono implicare anche un processo di crescita.
Alla luce di quanto esposto, dunque, sarebbe un errore considerare la crisi unicamente
come un evento dannoso che produce solo problemi e sofferenze. È necessario prendere
coscienza che vivere e superare una crisi comporta uno sviluppo ed un miglioramento
dell’organizzazione stessa.
La letteratura legata al crisis management offre un ampio ventaglio di definizioni
relative alla definizione di crisi aziendale. Tuttavia, quella che ha meglio saputo cogliere gli
aspetti essenziali in maniera chiara e rilevante è quella formulata nel 1984 da Lagadec. Egli,
allontanandosi dal mero campo della teoria, ha offerto una definizione operativa che ancora
oggi rimane il miglior fondamento su cui basare il dibattito:
Crisis: a situation in which numerous organizations are faced with critical problems,
experience both sharp external pressure and bitter internal tensions, and are then brutally
and for an extended period thrust to centre stage and hurled one against the other … all in
a society of mass communication, in other words in direct contact, with the certainty of
being at the top of the news on radio and television and press for a long time. 3 (Guillery,
Ogrizek, 1999, p. xiv)
Questa definizione mette in luce soprattutto tre elementi: la durata della crisi, le tensioni
interne all’organizzazione stessa e l'importanza dei mezzi di comunicazione.
Secondo Lagadec, inoltre, la crisi
è il confronto con problemi che sono al di fuori della normalità con derive potenzialmente
inesorabili, con la necessità di agire proprio nel momento in cui si vedono scomparire i
riferimenti che fino a poco prima hanno permesso di guidare, d’inquadrare, di dare senso
e valore all’azione individuale e collettiva. (Lagadec, 2002; p. 40)
Proprio questa caratteristica di “straordinarietà” spesso induce le organizzazioni a
pensare che la crisi sia un evento che si manifesti raramente. Tuttavia, tale supposizione si
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Traduzione (nda): “Crisi: una situazione in cui numerose organizzazioni devono affrontare problemi critici,
sottoposte sia a una forte pressione esterna sia ad amare tensioni interne, vengono brutalmente e per un
prolungato periodo spinte al centro della scena e scagliate una contro l'altra … tutte in una società di
comunicazione di massa, in altre parole in diretto contatto, con la certezza di essere al top delle notizie in radio,
in televisione e sulla stampa per un lungo periodo.”
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rivela assolutamente inesatta e mal si adatta al contesto postmoderno in cui viviamo. Le
imprese e, in generale, tutte le organizzazioni sono sempre più esposte alle ventate di crisi. La
globalizzazione dei mercati, la rapidità con cui circolano le informazioni, lo sfrenato
avanzamento tecnologico, l’influenza dei media, il crollo dei riferimenti ideologici, etici e
strategici, l’accelerazione dei ritmi di vita e la crescita inarrestabile delle attività e delle
interazioni umane rendono di fatto sempre più difficile il mantenimento di uno stato di
equilibrio. Velocità, cambiamento e trasformazione, parole chiave del nostro tempo, sono
infatti elementi che supportano e rendono inevitabile l’insorgere della crisi (Lagadec, 2002).
Pertanto, un’organizzazione non dovrebbe porsi il problema se avrà o non avrà mai una
crisi, perché è certo che questo accadrà. Piuttosto dovrebbe iniziare sin da subito a valutare
quale tipo di crisi aspettarsi al fine di non trovarsi impreparata ma capace di affrontare una
simile situazione di ridurne gli effetti negativi e di trarne vantaggio.
Emerge dunque la necessità di dotarsi di strumenti e di mezzi che consentano di
analizzare e gestire le crisi. Comprendere il processo evolutivo di una crisi, infatti, consente di
intervenire in modo efficace ed efficiente: a monte, con le attività di ascolto e
programmazione finalizzate alla prevenzione; nel pieno della crisi con una gestione mirata; a
valle, con le attività di valutazione e di apprendimento (Pearson, Mitroff, 1993). In questo
contesto la comunicazione risulta, per coloro che sono chiamati a gestire la crisi, una risorsa
fondamentale, che però deve essere costruita su solide basi, condivisa e sperimentata.
Comunicare in stato di crisi diviene quindi un’attività necessaria alla sopravvivenza delle
organizzazioni.
Secondo Mitroff ormai i settori mirati da potenziali crisi non sono soltanto quelli
tradizionalmente considerati ad alto rischio, come quello chimico e nucleare, ma «ogni
azienda di ogni settore deve considerarsi esposta all’eventualità di una crisi e pertanto pronta
ad affrontarla correttamente» (Mitroff, 1990; p. 50).
I prossimi paragrafi cercheranno di offrire un quadro globale di ciò che significa
vivere una crisi aziendale: verranno analizzate le cause generatrici, le tipologie, le strategie e i
comportamenti da adottare da parte del quadro dirigenziale per far recuperare stabilità alla
propria azienda.
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1.2. Le cause
In linea teorica le organizzazioni sono esposte a un numero potenzialmente infinito di
crisi, ciascuna delle quali al momento della sua esplosione sembra essere unica e eccezionale.
Tuttavia, se si esaminano le cause e il procedere degli avvenimenti, tra le varie crisi si
possono ravvisare alcuni elementi comuni che permettono di delineare una possibile
classificazione delle diverse tipologie di crisi. Dal punto di vista di un’organizzazione riuscire
a identificare da quale tipo di crisi è stata colpita è indispensabile per riuscire a mettere in atto
una corretta gestione della situazione.
I criteri di classificazione delle crisi e dei fattori scatenanti proposte dagli studiosi
sono molteplici. Un primo tentativo di mappatura delle diverse tipologie di crisi è stato
realizzato da l’USC Centre for Crisis Management in collaborazione con la National
Association of Manufactures.
Figura 1: Tipi di crisi (Pearson, Mitroff, 1993; p. 10)
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Il progetto porta all’individuazione di sette categorie, suddivise in base a caratteristiche
comuni e ad analogie strutturali:
ξ attacchi esterni di natura economica;
ξ attacchi esterni di natura informativa;
ξ rotture;
ξ grandi danni, disastri ambientali;
ξ malattie professionali;
ξ danni psicologici;
ξ percezioni.
L’asse verticale pone in contrapposizione le crisi percepite di natura tecnico-economica a
quelle di natura umano-sociale. Pertanto i quadranti superiori riportano situazioni causate da
un errore nelle procedure tecniche o nei sistemi informativi, mentre quelli inferiori riguardano
situazioni che possono essere imputate al comportamento umano o ai sistemi sociali. La
dimensione orizzontale riporta, invece, le modalità con cui si manifestano le crisi. I quadranti
di destra riguardano crisi che hanno origine da eventi relativamente insignificanti, normali
problemi quotidiani, anche se, in tal caso, ciò che in genere è “normale” qui degenera in crisi
di grandi dimensioni. Sul quadrante di sinistra sono poste invece le crisi dovute ad a
deviazioni dalla normalità. Tra il quadrante di destra e quello di sinistra esiste un rapporto di
causa-effetto.
Infatti, ciò che può essere dovuto all’incuria o a consapevoli abusi ambientali può
condurre a una categoria più complesso e pericolosa: “grandi danni e disastri ambientali”.
Infine, nel quadrante in basso a destra viene fatto riferimento alla categoria “percettiva”
che pone l’attenzione sulla reputazione dell’organizzazione (Pearson, Mitroff, 1993; p. 10).
Analoga ma più completa ed esaustiva risulta essere la classificazione proposta da Meyers
che a sua volta individua nove forme possibili di crisi:
ξ immagine percepita all’esterno;
ξ improvvisi cambiamenti del mercato;
ξ fallimento di un prodotto;
ξ avvicendamento del top management;
ξ liquidità;
ξ relazioni industriali;