2
trovano ad assumere. Gli ultimi dieci anni sono stati teatro dei maggiori
cambiamenti in questo senso. Stabilire se gli individui tendono a interagire con il
computer o attraverso di esso ha costituito una delle tappe fondamentali
soprattutto nel definire i campi di competenza delle diverse discipline: se
l’interesse è centrato unicamente sull’individuo operante davanti a un elaboratore,
l’interazione in sé diventa automaticamente oggetto di studio scientifico, “il
contesto perde importanza e il risultato appare meno rilevante dell’interazione in
quanto tale”
2
. D’altra parte, l’elaboratore può essere considerato strumento
dell’interazione. Ecco, allora, che “l’interazione diventa mezzo, per la ricerca, e
non puro scopo”
3
. E ancora: “Gli artefatti sono essenzialmente sociali, sono
progetti incarnati in idee o in strutture fisiche”
4
. Ovviamente, aumenta la
complessità del problema: il campo di studio, non potendosi più avvalere di
ricerche attuabili fra le pareti di un laboratorio, si estende. Sono indispensabili
nuove metodologie, nuove tecniche per dar vita a teorie e modelli che portino a un
miglioramento effettivo dell’interazione uomo-computer, ossia a
un’ottimizzazione del contesto d’uso e alla progettazione di sistemi centrati
sull’usabilità. Gli effetti di una così ampia diffusione dei mezzi informatici e, più
in generale, delle nuove tecnologie implicano la modellazione di diversi ambienti
comunicativi. Le modalità dell’interazione, quindi la costruzione di nuove identità,
l’applicazione di nuove norme comunicative e sociali, i concetti stessi di ambiente,
presenza fisica e processo comunicativo assumono altri valori presentando risvolti
e problematiche di maggiore complessità rispetto ai primi anni della cosiddetta
“rivoluzione tecnologica”, quando componente umana e componente automatica si
limitavano, in un certo senso, a coesistere. I cambiamenti in atto coinvolgono un
intero brainframe
5
culturale. De Kerckhove osserva che “quando gli effetti
2
Hollnagel E. (1991)
3
Hollnagel E. (op. cit.)
4
Mantovani, G. (op. cit.)
5
“L’idea sottesa a questa nozione è che le tecnologie di elaborazione di informazione “incornicino” il nostro
cervello in una struttura e che ciascuna di esse lo sfidi a fornire un modello diverso, ma egualmente efficace, di
3
cumulativi di un cambiamento tecnologico - piccoli spostamenti di importanza e di
atteggiamento - giungono a un punto critico, si verifica un’improvvisa frattura
culturale”. Il punto di rottura è il risultato di profondi mutamenti psicologici
“prodotti da sottili modificazioni fisiologiche nel modo in cui usiamo la nostra
mente, i nostri sensi, il nostro corpo”
6
. Il fatto che l’interazione col computer
avvenga ormai in un contesto di vita quotidiana significa che ogni individuo è
disposto a svolgere determinati compiti e ad “affrontare” l’elaboratore con il
proprio bagaglio di conoscenze, con i propri scopi, con la propria cultura
lavorativa, con i propri riti. Il contesto è scarsamente strutturato, per questo
occorre, come sottolinea Mantovani, che la Psicologia sia “meglio attrezzata per
l’applicazione”
7
. Compito della Psicologia Sociale, è quello di fornire modelli
completi ed efficaci che tengano conto, al tempo stesso, dei fattori variabili e
imprevedibili caratteristici delle interazioni umane. Progettare interfacce
veramente valide, insomma, è possibile solo ripensando i contesti d’uso. Questa
prospettiva vede le sue origini già verso la metà degli anni ’80, quando gli
“estremi” nell’interazione uomo-computer erano costituiti ancora dall’utilizzatore
e dal compito che questo si proponeva di svolgere. La macchina cominciò ad
essere considerata come “trasformatrice d’esperienza”
8
: il compito mediato
dall’artefatto. Oggi, quello che un tempo veniva definito “compito” è solo la
componente di un panorama ben più ampio. Il computer è diventato mezzo di
supporto al lavoro collaborativo (Computer Supported Collaborative Work); è un
modo di apprendere; è un mezzo per comunicare, produrre, distribuire e ricevere
informazioni (Computer Mediated Communication), un mezzo per relazionarsi
interpretazione. Il cervello umano è un ecosistema biologico in costante dialogo con la tecnologia e la cultura. Le
tecnologie basate sul linguaggio, come la radio e la TV, possono “incorniciare” il cervello sia fisiologicamente, sul
piano dell’organizzazione neuronale, che psicologicamente, sul piano dell’organizzazione cognitiva. Altre tecnologie
- come i satelliti e le reti telefoniche - sono divenute dei prolungamenti del cervello e del sistema nervoso
centrale.[...]. Il brainframe non è mai localizzato nella struttura superficiale della coscienza, ma nella sua struttura
profonda” (De Kerckhove, D. 1991).
6
De Kerckhove, D. (1991)
7
Carroll, J.M. (1991)
8
Carroll, J.M. (op. cit.)
4
agli altri, un ambiente diverso dal nostro, prodotto da un oggetto fisico esterno
rispetto al nostro spazio, ma che si costruisce anche all’interno della mente umana.
A tutto ciò si aggiunge il concetto di Rete: la posta elettronica (e-mail), l’avvento
di Internet, o meglio: l’accessibilità della rete elettronica su scala mondiale e lo
sviluppo di tutte le applicazioni possibili in rete come i Newsgroups, l’IRC
(Internet relay chat), i MUD (Multi user Dungeon) che implicano la
trasformazione degli ambienti comunicativi, dei rapporti fra individui interagenti,
dei ruoli assunti e delle norme culturali. Diversi sono i concetti di “spazio” e
“tempo”. Il significato sociale di quello che ormai non è più considerato un
artefatto informatico ma un vero e proprio medium, è mutato: il cambiamento è
rapido, avviene sotto i nostri occhi e tuttavia non è facile distinguerne le “tappe”
di sviluppo. Il computer, quando percepito e “assimilato” come mezzo di
comunicazione, sembra scomparire nell’ambiente per lasciare posto all’interazione
in sé. L’artefatto è diventato parte integrante della comunicazione. Appare chiaro
come sia difficile sviluppare modelli in grado di rappresentare validamente gli
scenari attuali senza vacillare pericolosamente quando si tratta di passare dalla
considerazione di realtà locali all’analisi di realtà più estese e come i problemi
legati all’organizzazione dei sistemi si sovrappongano agli aspetti più
propriamente comunicativi.
“L’interpretazione etimologica della parola tecnologia (dal greco: téchne +
lógos - discorso su un’arte/mestiere) suggerisce come il concetto di
“comunicazione” ne sia il cuore”
9
. Prima di ripensare e analizzare il discorso
sull’interazione uomo-computer in quanto fondato su processi comunicativi,
occorre riconoscere il valore di una “comunicazione” che deve essere assunta
come base della ricerca stessa: interdisciplinarietà, da un lato, ma anche relazione
fra i diversi fattori umani in gioco. Elementi cognitivi, strumentali, normativi,
9
Biocca, F. (1993)
5
espressivi e somatici devono essere considerati nella loro globalità, per un corretto
studio prima che per una corretta progettazione. La comunicazione non può fare a
meno di un interprete e in questo caso, stiamo parlando di ambienti e contesti che
necessitano un’interpretazione. Progettare interfacce per migliorare il rapporto che
l’utilizzatore stabilisce con il mezzo informatico significa tenere conto,
principalmente, delle esigenze dell’individuo o dei gruppi di individui che
condividono contesti d’uso. Solo alcuni aspetti dell’interazione possono essere
controllati e regolati dai cosiddetti tecnologi, il resto deve essere basato su un
rafforzamento di tutte quelle discipline “umane” volte a supportare e amplificare il
ruolo attivo dell’utilizzatore. La partecipazione diretta di chi fisicamente si trova a
lavorare e comunicare con il computer alla fase progettuale dei sistemi, viene, in
molti casi, considerata come un aiuto fondamentale per lo sviluppo di nuove
metodologie che risulterebbero, così, realmente centrate sull’utilizzatore
10
. In
ultima analisi, una collaborazione di successo fra progettista e utilizzatore
dovrebbe rendere qualitativamente migliori le possibilità di interazione
nell’accezione più ampia del termine: non si lavora per migliorare solo
un’interfaccia, ma un intero sistema di scambi cognitivi e comunicativi
11
. Il
contatto avviene fra chi progetta e chi usa: il mezzo informatico diventa in questo
caso interprete o portatore di un codice, al centro di un’interazione in cui l’accento
è posto, fin dal principio, sull’intelligenza umana.
Il cammino che, partendo da un approccio tecnocentrico ha portato ad una
prospettiva antropocentrica è stato, in realtà, piuttosto lungo e impervio.
Inizialmente, le uniche limitazioni evidenti sembravano quelle appartenenti alla
10
Si veda, a questo proposito: Laurel, B. (1992), “The Art of Human-Computer Interface Design” e Anceschi, G.
(1993), “Il progetto delle interfacce”.
11
“Un’interfaccia deve essere non solo fisicamente compatibile con le caratteristiche della percezione e dell’azione
umane, ma deve essere anche cognitivamente compatibile con le caratteristiche della comunicazione, della memoria,
e della soluzione di problemi umane”. (Hammond, N. cit. in: Rasmussen, J. et al., 1987) “Il modello del sistema che
l’utilizzatore si forma e il modello dell’utilizzatore che il progettista ha incorporato nel sistema devono incontrarsi”.
(Mantovani, G. 1991)
6
sfera delle capacità umane: da qui, l’orientamento verso una semplificazione d’uso
rivelatasi, spesso, eccessiva. L’uomo apprende accrescendo le proprie competenze,
il computer, nella maggioranza dei casi, no. Solamente verso la metà degli anni
’80, si cominciò a concepire “l’usabilità non come una caratteristica del computer,
ma come una qualità della relazione uomo-computer”.
12
In un primo momento non
si parla di progettazione in base all’usabilità: questa viene verificata a prodotto
finito. L’unico elemento su cui ci si basa è l’accettazione del sistema da parte
dell’utilizzatore senza, peraltro, capire se egli valuti il sistema o il proprio modo di
rapportarsi e convivere con esso. Comunque, con questo fondamentale
spostamento d’attenzione, i filoni di ricerca sembrano definirsi meglio e separarsi.
Oggi, la logica antropocentrica sembra prevalere, ma occorre sottolineare che si
tratta di una presa di posizione consolidatasi solo di recente. Tra gli ambienti di
interazione virtuale, la Computer Mediated Communication occupa un posto di
rilievo, grazie allo sviluppo tentacolare delle reti informatiche. Si capisce come,
anche nell’ambito della Psicologia Sociale, lo studio dei processi comunicativi in
quanto tali, trovi una naturale continuazione. Prendendo le mosse dai tradizionali
modelli tecnici, linguistici e psicosociali, i concetti di contesto, negoziazione,
presenza e co-presenza, partecipazione attiva, conversazione e identità subiscono
una totale rielaborazione. La direzione futura degli studi fin qui compiuti ci sta
facendo considerare la possibilità di una realtà parallela, costruita su nuove
identità e sull’evoluzione dei processi comunicativi. Il confine tra presenza
virtuale e presenza fisica diventa sempre più labile, e per capirlo, non c’è bisogno
di riferirsi necessariamente agli ambienti di Virtual Reality propriamente detti:
basta pensare alle teleconferenze piuttosto che a una chat-line. L’idea stessa di
società potrà contemplare, a sua volta, un’infinità di sub-culture formatesi in seno
alle comunità virtuali. Una sfida, per la ricerca, davvero enorme.
12
Mantovani, G. (1995a)
7
La costruzione di paradigmi che rappresentino al meglio la situazione
attuale e servano concretamente come base per una buona progettazione, sembra
essere fondata, essenzialmente, su modelli di tipo qualitativo
13
. E’, questa, un’area
di discussione piuttosto “calda”. I vantaggi presentati dai modelli qualitativi sono
diversi: “in primo luogo, si avvalgono, a loro volta, di meccanismi computazionali
più semplici rispetto a quelli utilizzati per i modelli quantitativi. In secondo luogo,
possono essere formulati in caso non ci siano modelli classici attendibili e, infine,
sembrano corrispondere meglio all’idea che le persone comunemente hanno del
funzionamento dei sistemi informatici”
14
. I modelli utilizzati oggi, sono di tipo
dinamico e possono essere suddivisi in diverse categorie. Uno dei problemi sorti
intorno al 1980-1983, anni in cui si è cominciato a diffondere l’uso dei modelli,
verteva su quale dovesse essere esattamente l’oggetto da “modellizzare”.
“Esistono profonde differenze fra i modelli del sistema informatico che si formano
i progettisti, i modelli che si formano le persone e i modelli che i ricercatori si
formano a proposito dell’utilizzatore”
15
. Utilizzatore e computer erano le uniche
due classi considerate. Più recentemente è stata proposta una cornice di maggiore
ampiezza per la classificazione dei modelli: Whitefield (1987)
16
opera una
distinzione fra “sistemi” e “programmi”. I primi includono anche l’utilizzatore,
mentre i secondi consistono principalmente nei software applicati a determinate
macchine. Sebbene questo appaia un genere di classificazione piuttosto riduttivo,
possiede in realtà un punto di forza che consiste nell’ampia possibilità di
combinazioni permesse. La classificazione include il sistema, il programma,
l’utilizzatore, il ricercatore e il progettista oltre a un’ulteriore specificazione fra
“modello di” e “modellato da”. Secondo Whitefield, il modello che il ricercatore si
forma è la dimensione corretta di analisi nella quale dovrebbero essere incluse, a
13
“The basic idea in qualitative modelling is to capture the essential characteristics of the system being studied
without invoking any unnecessary detail” (Hollnagel, E. 1991).
14
Hollnagel, E. (op. cit.)
15
Young (1983) in: Mantovani, G. (1995b)
16
In: Johnson, P. (1992)
8
loro volta, tutte le teorie e i modelli psicologici. Anche a livello di progettazione, i
modelli dei tecnologi, potrebbero essere considerati una versione “specifica” dei
modelli formulati dal ricercatore. Vero è che, nell’ambito pratico, i modelli
possono rientrare in più categorie o essere utilizzati per descrivere più elementi
dell’interazione allo stesso tempo
17
. I modelli più recenti non possono non tenere
conto del concetto di “contesto”, ormai riconosciuto essenziale per la
comprensione dell’interazione uomo-computer, intesa come sistema completo.
Proprio perché “sistema”, l’interazione si basa sulla comunicazione. Dalle
discipline relative alle Scienze della Comunicazione provengono le soluzioni più
adeguate e le concettualizzazioni più esaustive riguardo all’argomento.
Un’evoluzione di prospettiva dovuta al naturale sviluppo degli studi sulla HCI
“pura”, ma riconducibile soprattutto agli enormi cambiamenti in atto a livello
tecnologico e culturale che vedono prevalere, fra i diversi settori, quello della
Computer-Mediated Communication.
2. La Human-Computer Interaction
2.1 Il sistema informatico, l’utilizzatore, il contesto
L’interazione uomo-computer implica, nella sua definizione, una relazione
tra individuo e macchina con il fine, da parte dell’utilizzatore, di portare a termine
un compito o di raggiungere un obiettivo. Il computer, in sé, non è quasi mai il
termine ultimo dell’interazione, ma il mezzo attraverso cui lo scopo può essere
raggiunto: un intermediario che incarna due differenti ruoli. Da un lato, trasforma
e amplifica l’esperienza che l’utilizzatore ha del mondo; dall’altro pone l’accento
sulla rappresentazione che esso stesso fornisce dell’ambiente esterno: compito e
macchina possono diventare inseparabili in una relazione di cui l’artefatto è
17
Johnson, P. (1992)
9
interprete. “I due punti di vista sono chiaramente distinguibili”
18
: nel primo caso il
sistema informatico può essere considerato, in un certo senso, “trasparente”
(l’attenzione è focalizzata sull’applicazione e su come l’utilizzatore ne fa uso,
come, ad esempio nei programmi di Computer Assisted Design), nel secondo, il
computer appare come un mezzo quasi totalmente “opaco” (la rappresentazione
che l’individuo ha della realtà è esattamente quella che gli fornisce il sistema. I
processi computerizzati di controllo industriale ne sono un esempio). I due tipi di
relazione, sebbene ben distinti, non sono, tuttavia, esclusivi. Molti sistemi
pongono l’accento alternativamente su entrambe le modalità, a seconda delle
funzioni in atto. Questa distinzione è fondamentale per capire quali siano i
presupposti delle attuali problematiche legate allo sviluppo della HCI. I sistemi
possono essere centrati sull’artefatto informatico in sé o sull’utilizzatore (meglio
dire: sulla componente umana, specificazione che comprende anche l’ambito
d’azione del progettista). Partendo dal presupposto che la responsabilità
decisionale debba spettare, in ultima analisi, alla componente umana del sistema,
la direzione delle nuove tecniche di progettazione deve tenere conto, innanzitutto,
della capacità decisionale dell’individuo e metterlo in condizione di avere il
controllo finale sulle indicazioni fornite dal sistema. Ad oggi, “la componente
automatica dei sistemi, non è assolutamente in grado di spiegare le proprie
conclusioni nel senso in cui le persone spiegano qualche cosa”
19
. Analizzando il
concetto di “artefatto”, Tomás Maldonado sottolinea il significato di “protesi” che
il termine può assumere, ossia di struttura artificiale che sostituisce, completa o
potenzia, in parte o totalmente, una determinata prestazione dell’organismo. Tra le
categorie considerate nella sua classificazione, spicca la famiglia nata più
recentemente : quella che lui considera formata da “protesi sincretiche”
20
: sistemi
meccanici altamente automatizzati in grado di intervenire in ambito, ad esempio,
18
Hollnagel, E. (1991)
19
Mantovani, G. (1991)
20
Maldonado, T. (1997)
10
lavorativo, praticamente a qualunque livello, grazie alla combinazione di calcolo,
azione e percezione nella gestione dei processi produttivi. “[...] I robot dell’ultima
generazione, per il compito appunto vicario globale che assumono, sono da
considerarsi protesi sincretiche. [...] Ma a ben guardare questa totale autonomia di
un robot, autonomia intesa addirittura come capacità di autoprogettazione,
autoprogrammazione e autoriproduzione, è davvero ipotetica. Al giorno d’oggi, il
robot, anche quello più sofisticato, è da noi progettato, programmato e riprodotto.
E’, quindi, una nostra creazione”
21
. La giusta filosofia di progettazione si deve
basare sulle modalità di apprendimento umano, sulla rappresentazione del
computer che l’individuo si forma, sui suoi obiettivi e su ciò che vuole fare. In una
parola: sulla mente dell’utilizzatore. Gli individui non operano in situazione di
isolamento, ma nell’ambiente concreto di lavoro quotidiano. L’HCI comincia ad
avere al proprio centro, oltre alle teorie sull’acquisizione delle conoscenze, sulle
strategie umane di risoluzione dei problemi, sulle modalità di decisione e sui
modelli che l’individuo ha del sistema, lo studio del contesto in cui le nuove
tecnologie vengono effettivamente usate. Con il termine “attori sociali” si
designano i soggetti che si muovono con iniziativa propria nell’ambiente sociale e
fisico, perseguendo interessi e scopi autonomamente definiti. Nell’esperienza
quotidiana non è possibile separare in modo netto l’attore dalla situazione. La
situazione non preesiste all’attore, ma è costruita dal suo intervento in essa in base
alle competenze e scopi, sia cognitivamente sia praticamente. “In questo senso non
è possibile analizzare i meccanismi psicologici individuali trascurando le
situazioni, come se queste potessero avere una propria struttura e organizzazione e
potessero essere descritte indipendentemente da un osservatore o da un agente che
le vive”
22
. La relazione tra attore e ambiente si fonda su un processo di
modellazione reciproca. “L’attore interviene nella situazione, in quanto è
orientato e attivato da elementi della situazione, che tuttavia esistono nella misura
21
Maldonado, T. (1997)
11
in cui l’attore li vede e li sviluppa”
23
. Il contesto è il risultato di un’interazione
sempre precaria e mutevole tra attore e ambiente. Mantovani, per meglio
sottolineare i concetti di “ambiguità” e “incertezza” propri dell’interazione attore-
ambiente, paragona l’interazione a una sorta di flirt: “il flirt richiede che si agisca
(prendendo qualche iniziativa nei confronti dell’altra persona) e che nello stesso
tempo si faccia una diagnosi degli effetti sia esterni (sull’altro) che interni (sui
propri sentimenti) di ciascuna delle mosse proprie e dell’altro attore”
24
. Gli attori
si avvalgono di norme sociali e culturali (modelli) per interpretare, o meglio,
disambiguare la situazione, che costituiscono la premessa dell’interazione stessa.
Mantovani propone un modello concettuale del contesto sociale per la HCI
decisamente innovativo. Si tratta di un modello bidirezionale a tre livelli: il primo
livello consiste nella costruzione del contesto da parte dell’individuo, il secondo,
nell’interpretazione della situazione e il terzo, nell’interazione locale con
l’ambiente e, quindi, con gli artefatti. Se, da un lato, gli attori sono in grado di
orientare le proprie azioni a livello locale grazie al senso più generale che
attribuiscono alle situazioni, dall’altro, compiono delle azioni in funzione degli
obiettivi situati, diciamo, a un livello più alto, o più generale. Questi ultimi tipi di
processi sono quelli a cui è necessario riferirsi per comprendere come gli individui
formulino strategie e scopi, e per capire come comunicazione e cooperazione
facciano parte di un contesto strutturabile e coerente pur nella sua dinamicità.
Il modello permette di focalizzare l’attenzione non solo sull’uso locale del
sistema, ma anche sugli scopi, sulle le strategie e sulle interazioni di più alto
livello fino ad ora scarsamente considerate proprio perché difficilmente
affrontabili.
22
Villamira, M.A. (1995)
23
Villamira, M.A. (op. cit.)
24
Mantovani, G. (1991)