9
a nessuna nuova categoria e nel migliore dei casi avrò fatto… una tesi di
laurea. –
3
Dalla Prefazione a La Persuasione e la Rettorica emerge
l’esistenza di una verità assoluta, più volte testimoniata ma
sempre fraintesa. Michelstaedter la riprende, conscio delle
difficoltà che gli si prospettano, ma pur costretto da quella
forma inadeguata di vita che prende il nome di Rettorica.
Quale è dunque questa verità? E perché, nell’affermarla, è
legata al suo misconoscimento?
Per rispondervi dobbiamo ripercorrere quella “storia del
pensiero” che lo stesso Michelstaedter rivisita, andando – però
– anche oltre le “direttive” del filosofo di Gorizia. La filosofia
di Michelstaedter non intende proporsi come un pensiero
sistematico, come può essere quello hegeliano, al quale il nostro
filosofo si oppone, e quindi ci prendiamo il permesso di
trascendere il suo stesso pensiero, al fine di rispondere alle due
questioni che sopra abbiamo posto.
4
E la nostra ricerca prende inizio proprio dalle pagine di uno
tra i filosofi maggiormente osteggiati da Michelstaedter:
Platone.
3
C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, Adelphi, Milano 1982, pp. 35–
36.
4
“Segue l’elenco dei «grandi ispiratori». Naturalmente, non si può pretendere che
Carlo fornisca qui il catalogo completo delle sue letture: ovvio, perciò, che qualcuno
o qualcosa resti fuori della lista. Sarei portato però ad attribuire un certo significato
sia alle inclusioni sia alle esclusioni.” (A. Asor Rosa, La persuasione e la rettorica,
in Letteratura italiana IV, Il Novecento, Einaudi, 1995, p. 292).
10
Nel Simposio, arrivato il suo turno, Socrate narra la nascita
di Eros: in occasione della nascita di Afrodite gli dei
organizzarono un banchetto, al quale venne a mendicare Penia.
Tra gli invitati vi era Poros che, ebbro di nettare, si addormentò
nel giardino di Zeus: Penia vi si sdraiò a fianco e concepì Eros.
5
E come figlio di Poros e Penia […] è sempre povero e tutt’altro che
delicato e bello, come credono i più, ma anzi, ruvido, ispido, scalzo e
senza dimora. […] e poiché possiede la natura della madre, convive
sempre con la povertà. Secondo l’indole del padre, invece, […]
infaticabile nell’escogitare astuzie, desideroso di conoscere e ricco di
risorse, continuamente interessato alla ricerca della sapienza.
6
Eros: figlio di Penia, cioè “povertà” e “mancanza” e di
Poros, “via”, “mezzo”, “espediente”. Eros è, quindi, “il farsi
strada della mancanza, è la ricerca dell’espediente per
soddisfarla”.
7
Eros è desiderio e solo dalla mancanza, solo dal “non” può
prendere via la ricerca per colmare quel vuoto che lo ha spinto a
partire. Il nesso inscindibile tra desiderio e conoscenza viene
posto mirabilmente, per la prima volta, nelle pagine del
Simposio.
Molto tempo dopo Kant, riprendendo uno scritto di Pietro
Verri, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, scriverà
5
Cfr. Platone, Simposio, Feltrinelli, Milano 1995, 203b–c.
6
Ivi, 203c–d.
7
Ivi, p. 16.
11
che “il dolore […] deve precedere ogni piacere”, per cui “il
dolore è sempre il primo”, l’origine da cui può dipartirsi tutto:
esso “è il pungolo dell’attività, e in questa noi sentiamo sempre
la nostra vita; senza dolore la nostra vita cesserebbe”.
8
Quello che prende gli sfugge via subito, sicché Eros non è mai né
povero, né ricco. Egli sta in mezzo tra sapienza e ignoranza. Infatti
nessuno degli dei ama la sapienza, né desidera diventare sapiente, perché
lo è già, e se qualcuno è sapiente non ama la sapienza, non filosofa. Ma
nemmeno gli ignoranti filosofano e neppure desiderano diventare
sapienti […]. E chi non è consapevole di ciò che gli manca, non desidera
ciò di cui non ritiene di aver bisogno.
9
Solo ad Eros si addice la ricerca perché solo in lui, a
dispetto degli dei e degli uomini, mancanza ed espedienti sono
combinati. Ma, seguendo Platone, possiamo cogliere che ogni
ricerca sarà un vano tendere verso una meta irraggiungibile: si
ama e si desidera solo ciò che non si ha, quando ogni mancanza
(che è sempre connaturata al dolore) viene meno, allora non si
ama più. Il dolore, così, non può che riproporsi: un’altra
mancanza che spinge di nuovo al suo tramonto. E così,
all’infinito, per un impossibile traguardo poiché ogni meta
raggiunta si trasforma in un nuovo continuo tendere. “Dal mito
della nascita di Eros scaturisce una conclusione […]:
nell’amore, con la perpetuità del bisogno, coesiste una
8
I. Kant, Anthropologie, in pragmatischer Hinsicht (1798); tr. it. Antropologia
pragmatica, Laterza, Bari 1985, pp. 120–121.
9
Platone, Simposio, cit., 203e–204a.
12
indefettibile capacità di soddisfarsi; esso è ciò che muore e
rinasce senza fine.”
10
L’obiezione secondo la quale il percorso che lo schiavo
intraprende per giungere alla conoscenza del Bene e rivolgersi –
finalmente – alla contemplazione del Sole,
11
sarebbe in
contrasto con quel vano tendere di cui abbiamo appena parlato,
è lo stesso dubbio che sorge in Galimberti quando sottolinea
come il tema dell’immortalità dell’anima sia assente nel
Simposio
12
perché, seguendo il Dodds, “se [Platone] l’avesse
introdotto, poteva essere messa in pericolo la concezione
dell’intelletto come entità autonoma, indipendente dal corpo, e
Platone non voleva correre questo rischio”.
13
Contraddizione
che, però, a Michelstaedter non interessa perché egli opera un
distinguo tra il giovane Platone (al quale si accompagna la
presenza di Socrate) e quello più sistematico della maturità:
Quando Platone era serio, allora giuocava: è un giuoco il Simposio, un
giuoco il Fedro; sono giuochi tutti i suoi primi dialoghi, dove la sua vita
gli è davanti concreta in persona ch’egli finge e fa vivere giocosamente
davanti a noi.
14
10
L. Robin, La théorie platonicienne de l’Amour (1964); tr. it. La teoria platonica
dell’amore, Celuc, Milano 1973, p. 64.
11
Cfr. Platone, Repubblica, Laterza, Bari 1997, libro VII.
12
Cfr. U. Galimberti, Il Corpo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 29.
13
E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Los Angeles 1951; tr. it. I Greci e
l’irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 265.
14
C. Michelstaedter, Appendici II, in Opere, cit., p. 205.
13
Il rapporto tra coscienza è desiderio
15
diviene esplicito in
Fichte, secondo il quale
[…] se l’Io non si sentisse desiderante, non potrebbe sentirsi come
limitato, perché solo per il sentimento del desiderio l’Io esce fuori di sé,
solo per questo sentimento nell’Io e per l’Io vien posto qualcosa che
deve essere fuori di esso. (Questo desiderio è importante, non solo per la
parte pratica, ma per tutta la dottrina della scienza. Solo per esso l’Io in
se stesso è spinto fuori di sé, solo per esso nell’Io stesso si manifesta un
mondo esterno.) […] Senza limitazione non c’è desiderio, senza
desiderio non c’è limitazione.
16
Premessa ad ogni ulteriore sviluppo è la nota secondo la
quale Fichte è da considerarsi, seguendo le indicazioni di
Severino in Per un rinnovamento nella interpretazione della
filosofia fichtiana,
17
“non un idealista che vuole superare Kant
(e non ci riesce), ma un kantiano che afferma l’impossibilità di
uscire dal kantismo”.
18
Se, infatti, l’idealismo si presenta come
quella dottrina secondo la quale “se la realtà trascende la
coscienza, il discorrere di questa realtà la porta d’altra parte
all’interno della coscienza; sì che quest’ultima è trascesa e non
15
“La coscienza è essenzialmente desiderio, già solo per il fatto che vive come
coscienza; mentre vive, vive il mondo, cioè si rapporta al mondo come al proprio
termine intenzionale.” [C. Vigna, La Verità del Desiderio come Fondazione della
Norma Morale, in E. Berti (a cura di), Problemi di etica: fondazione, norme,
orientamenti, Gregoriana, Padova 1990, p. 90].
16
J.G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten
Philosophie (1794); tr. it. La Dottrina della scienza, Laterza, Bari 1993, pp. 240–
241.
17
Cfr. E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia
fichtiana, La Scuola, Brescia 1960.
18
Ivi, p. 35.
14
è trascesa da quella”,
19
allora Fichte non può esser considerato
idealista dal momento in cui la contraddizione resta,
inamovibile:
La cosa in sé non è quindi mai definitivamente soppressa e riconosciuta
irreale.
20
Per risultare più chiari dobbiamo addentrarci nelle pagine de
La dottrina della scienza. Nella ricerca del “principio
assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto
l’umano sapere”,
21
Fichte individua tre principi: “il primo è
quello propriamente idealistico, per il quale tutto è «posto»
dall’Io”:
22
“l’Io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi
per se stesso; e viceversa: l’Io è, e pone il suo essere in forza
del suo puro essere”.
23
Seguendo la classica argomentazione per
la quale omnis determinatio est negatio, Fichte introduce il
secondo principio, cioè la posizione del Non–Io, ossia di
“qualcosa posta al di fuori dell’Io, della quale non si può dire
null’altro che questo: che essa deve essere assolutamente
opposta all’Io”.
24
Così come A presuppone Non–A, l’Io
presuppone il Non–Io. È la stessa affermazione dell’Io che
introduce necessariamente il suo opposto: “la stessa possibilità
19
Ivi, p. 33.
20
E. Severino, La Filosofia Moderna, Rizzoli, Milano 1984, p. 217.
21
J.G. Fichte, La Dottrina della scienza, cit., p. 73.
22
E. Severino, La Filosofia Moderna, cit., p. 218.
23
J.G. Fichte, La Dottrina della scienza, cit., p. 77.
24
E. Severino, La Filosofia Moderna, cit., p. 219.
15
dell’opporre in sé presuppone l’identità della coscienza”
25
(o
Io). Ma poiché tutto ciò che è posto è opera dell’Io,
affermazione e negazione non possono che risultare attività
dell’Io, presupponendone l’identità. È l’Io che, così come pone
sé, oppone a se stesso qualcos’altro:
Se la coscienza del primo atto non fosse connessa con la coscienza del
secondo, il secondo porre non sarebbe allora un opporre, ma un porre
puro e semplice.
26
La coscienza (l’Io) è tale perché “deve passare”
27
e, affinché
tale passaggio avvenga, si richiede necessaria la presenza di un
“luogo” assolutamente opposto alla coscienza stessa, nel quale
essa possa “approdare”: vale a dire che ogni coscienza richiede
qualcosa che esista indipendentemente da essa (cosa in sé, Non–
Io). La coscienza, che è sempre “coscienza di” qualcosa ad essa
esterno, consiste nella sua attività che è quella di trascendersi,
poiché il suo essere è il suo rapportarsi a qualcosa che, di
necessità, non può essere se stessa. Che la coscienza si
trascenda e si rapporti, o meglio che “si apra, questo non
dipende dall’io, ma dal non–io (noumenico)”:
28
è infatti il
riconoscimento dell’esistenza di qualcosa di esterno che spinge
la coscienza ad aprirsi. Quindi “se esiste una coscienza, è
25
J.G. Fichte, La Dottrina della scienza, cit., p. 82.
26
Ivi, p. 83.
27
Ivi, p. 135.
28
E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana,
cit., p. 41.
16
necessario un «urto» del Non–Io sull’Io”,
29
urto (assolutamente
contingente poiché non frutto dell’opera dell’Io) che ha il
compito “di mettere in movimento l’io per l’azione”.
30
“In quanto è posto il Non–Io, l’Io non è posto; poiché il
Non–Io sopprime completamente l’Io.”
31
Tale opposizione di Io
e Non–Io avviene, però, nell’Io: la soluzione della
contraddizione porta all’introduzione del terzo principio,
l’azione per la quale i due termini si limiteranno
reciprocamente. La necessità della contraddizione risulta dal
fatto che, al di fuori della reciprocità, l’Io (o, se si vuole, il
Soggetto) non può affermarsi, così come il Non–Io (o
l’Oggetto), senza il rapporto al suo opposto, risulta essere solo
un termine vuoto. Ora, però, poiché l’Io è il principio assoluto,
produttore della realtà, esso deve essere infinito, privo di limiti:
deve – cioè – porsi come totalità. Ma l’impossibilità di tale
compito è dovuta proprio dalla necessità da parte dell’Io di
rapportarsi al suo opposto, che – così – non può che limitarlo.
L’Io deve porre l’infinito limite (il Non–Io è, infatti, anch’esso
un’attività dell’Io) proprio per affermarsi come assoluto: se l’Io
non si limitasse non sarebbe infinito.
Senza infinità non v’è limitazione; senza limitazione non v’è infinità.
32
29
E. Severino, La Filosofia Moderna, cit., p. 219.
30
J.G. Fichte, La Dottrina della scienza, cit., p. 221.
31
Ivi, p. 85.
32
Ivi, p. 169.
17
Il principio assoluto, che farebbe di Fichte il primo idealista,
non può – quindi – aver ragione di essere poiché
Solo la attività pura dell’Io, solo l’Io puro è infinito. Ma l’attività pura
è quella che non ha punto oggetto, ma rientra in se stessa.
33
La contraddizione di un assoluto che, per esser tale, si limita
è posta da Fichte all’infinito:
L’Io è infinito, ma solo per il suo sforzo, ma nel concetto di sforzo è già
compresa la finità.
34
Ne deriva che
La cosa in sé è qualcosa per l’Io e quindi nell’Io, ma che tuttavia non
dev’essere nell’Io: quindi qualcosa di contraddittorio, ma che tuttavia,
come oggetto di un’idea necessaria, dev’esser posta a base di tutto il
nostro filosofare.
35
Un Io assoluto non potrebbe avere nulla fuori di sé perché
solo uno “sforzo infinito è all’infinito la condizione della
possibilità di ogni oggetto: senza sforzo, non c’è oggetto”.
36
Ma
se “l’oggetto del desiderio è qualche cosa di altro, opposto a
ciò che esiste”
e se solo “il sentimento di un opposto è la
condizione della soddisfazione dell’impulso”,
37
con
33
Ivi, p. 203.
34
Ivi, p. 214.
35
Ivi, p. 223.
36
Ivi, p. 207.
37
Ivi, p. 254.
18
l’impossibilità da parte della coscienza di negare ciò che ad
essa si oppone, Fichte ammette, da un lato, che solo la
mancanza porta all’azione e, dall’altro, che proprio tale
mancanza sarà il frutto della contraddizione e del dolore.
Un Io assoluto equivarrebbe a quel dio aristotelico, pensiero di
se stesso, incapace di desiderare (se il desiderio è legato al
limite)
38
e di agire, al contrario delle sfere celesti mosse dal
desiderio di imitare la perfetta immobilità del primo motore.
39
Concorde con Fichte, Michelstaedter afferma che “l’atto di
una potenza è sempre una reazione di questa potenza”, atto che
“se fosse assoluto non avrebbe bisogno dell’esperienza
[dell’oggetto] per diventarlo. […] Tutto ciò per dire che
l’assoluto riconosciuto dalla coscienza è un assurdo”.
40
L’influenza kantiana della critica della “ragion pratica”
dove, seppur non dedotti, i concetti di Anima, Mondo, Dio
vengono postulati,
41
emerge qui in tutta la sua forza, mista a
quell’influsso romantico, che non può non caratterizzare i
filosofi del secolo XVIII, e che, nei Principi della scienza
pratica,
42
fa dire a Fichte che l’idea dell’Io assoluto deve essere
posta alla base dell’esigenza pratica infinita dell’Io, idea seppur
irraggiungibile per la nostra coscienza. Resta, però, il fatto che
38
“[…] poiché l’Io […] è limitato, sorge perciò un desiderio.” (Ivi, p. 241).
39
Cfr. Aristotele, Metafisica, libro Lambda (XII), 1071b3–1071b22; 1072a21–
1073a13; 1074b15–1074b37, in Opere, vol. VI, Laterza, Bari 1982–1984.
40
C. Michelstaedter, Scritti Vari, in Opere, cit., p. 692. Ha ragione la Raschini
quando scrive che “il concetto di coscienza regge tutta la visione
michelstaedteriana.” (M.A. Raschini, Carlo Michelstaedter, Marzorati, Milano 1965,
p. 30).
41
Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788); tr. it. Critica della ragione
pratica, Rusconi, Milano 1993, pp. 317–369.
42
Cfr. J.G. Fichte, La Dottrina della scienza, cit., pp. 195–259.
19
“l’affermazione dell’assolutezza dell’io continua a rimanere un
«postulato», un «compito», un «presupposto»”.
43
Sotto questo
profilo, Fichte eredita la posizione kantiana del noumeno che,
seppure non possiamo conoscere, dobbiamo pensare, esso
essendo un concetto limite che, pur senza fornirci alcuna
conoscenza positiva, serve a definire i limiti della conoscenza
stessa.
Ogni singola esperienza è solo una parte dell’intera sfera del suo
dominio, ma la totalità assoluta di ogni esperienza possibile non è in se
stessa un’esperienza e tuttavia è un problema necessario per la ragione.
44
Infatti “la ragione umana ha una tendenza naturale ad
oltrepassare questi limiti”
e “le idee trascendentali non devono
mai avere un uso costitutivo (in modo che risultino dati così
concetti di certi oggetti) […]. Tali idee, per contro, hanno un
uso regolativo assai pregevole […] che […] serve tuttavia a
procurare la più grande unità e la più grande estensione a tali
concetti.”
45
La contraddizione che viene a crearsi tra l’impossibilità di
conoscere e la necessarietà di pensare quanto, appunto, non ci è
permesso conoscere, trova sfogo in quell’esigenza pratica nella
quale, seppure in modo per nulla affatto sistematico, troverà
43
E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana,
cit., p. 95.
44
I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik (1783); tr. it.
Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Mondadori, Milano 1997, p. 124.
45
I. Kant, Kritik der reien Vernunft (1787); tr. it. Critica della ragione pura,
Adelphi, Milano 1995, pp. 658–659.
20
rifugio Michelstaedter. Bene scrivono Chiavacci e Superchi, il
primo sottolineando come “il concetto di persuasione [sia] un
«concetto limite»”,
46
il secondo definendo Michelstaedter
“figlio della ragion pratica”:
47
la genesi kantiana emerge, qui, in
tutta la sua forza.
Il rapporto tra coscienza e desiderio è reso manifesto nelle
pagine della Fenomenologia dello spirito di Hegel, quando il
filosofo di Jena scrive, a proposito dell’autocoscienza, che essa
si presenta come “desiderio in generale”.
48
E a commento di questi passi di Hegel, Kojève afferma:
È il desiderio (cosciente) di un essere a costituire quest’essere come Io e
a rivelarlo come tale, spingendolo a dire «Io…». […] Solo nel e
mediante, o meglio ancora, come, «suo» Desiderio, l’uomo si costituisce
e si rivela – a sé e agli altri – come un Io, come l’Io essenzialmente
diverso dal non–Io, e radicalmente opposto al non–Io. L’Io (umano) è
l’Io di un – o del – Desiderio.
49
L’uomo, nel momento in cui nasce il desiderio, “vedrà che,
oltre alla cosa, c’è anche la sua contemplazione, c’è anche lui,
che non è questa cosa. E la cosa gli appare come un «oggetto»
46
G. Chiavacci, Carlo Michelstaedter e il problema della persuasione, in
«Leonardo», XVI, 1948, p. 323.
47
L. Superchi, Carlo Michelstaedter, saggio critico, in «Rivista di psicologia»,
XXVIII, 1932, p. 289.
48
G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello
spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 263.
49
A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel (1947); tr. it. Introduzione alla
lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, pp. 17–18.
21
(Gegen–stand), come una realtà esterna, che non è in lui, non è
lui, ma è un non–Io”.
50
Se questo fosse un commento a Fichte, nessuno vi porrebbe
obiezione.
Platone, a proposito di Eros, affermava che solo dalla
mancanza poteva prendere inizio la ricerca il cui unico obiettivo
era colmare proprio quel vuoto che aveva dato origine al tutto;
Kojève – in commento ad Hegel – scrive:
[…] il Desiderio […] rende [l’uomo] in–quieto e lo spinge all’azione.
Essendo nata dal Desiderio, l’azione tende a soddisfarlo, e può farlo solo
mediante la «negazione», la distruzione […] dell’oggetto desiderato. […]
In generale, l’Io del Desiderio è un vuoto che riceve un contenuto
positivo reale solo dall’azione negatrice che soddisfa il Desiderio,
distruggendo […] il non–Io desiderato.
51
Ma in Michelstaedter non vi sarà (e avremo tempo e luogo
per vederlo) alcun processo che porterà la coscienza servile alla
sua soppressione dialettica per mezzo del “lavoro […] in cui
essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza
ritrova in sé mediante se stessa e diviene senso proprio”.
52
Propriamente non umana, affermerebbe Michelstaedter, è la
condizione del Signore poiché costui appare “irrigidito nella sua
Signoria. Non può superarsi, cambiare, progredire. Deve vincere
– e divenire Signore oppure mantenersi tale o morire. Lo si può
50
Ivi, p. 208.
51
Ivi, p. 18.
52
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 289–291.
22
uccidere, non lo si può tras–formare, educare. […] La Signoria
è dunque per lui il valore dato supremo oltre il quale non può
andare. Il Servo, al contrario, non ha voluto essere Servo. […]
Il Servo sa cosa significa essere libero. Sa pure di non esserlo, e
di voler diventarlo”.
53
Se “l’Uomo è ciò che è solo nella misura
in cui lo diventa”,
54
per il Signore non c’è storia, non c’è futuro
poiché in lui alcuna forma di cambiamento, di processo
appaiono possibili. Il Signore hegeliano assume i connotati del
“Pieno” e del “Satollo”, che Nietzsche attribuiva a Dio:
55
è
sazio, in lui non v’è spinta a trascendersi, a divenire. Non
umana, dicevamo, poiché seppure in lui appaia il vuoto, una
volta appagato il desiderio di essere riconosciuto Signore, non
vi è quell’infinito tendere che prende origine da ogni forma di
mancanza e di dolore. La condizione del Signore è statica,
assolutamente in contrasto con la dinamicità propria della vita
umana: è la morte.
Affinché possa dirsi desiderante, l’uomo “non può essere un
Essere che è, che è eternamente identico a se stesso, che basta a
se stesso. L’uomo deve essere un vuoto, un niente, che non è
puro nulla, reines Nichts, ma qualcosa che è, nella misura in cui
annienta l’Essere, per realizzarsi a sue spese e annientare
nell’essere”.
56
È per questo motivo che la Storia è il frutto
53
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 36.
54
Ivi, p. 209.
55
Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883–1885); tr. it. Così parlò
Zarathustra, in Opere, cit. 1968, vol VI, 1.
56
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 209. Non ha per noi
interesse la distinzione che Deleuze e Guattari operano tra il soggetto e il desiderio,
sì che “se il desiderio produce, produce il reale. Se il desiderio è il produttore, non