2
Senza addentrarci ulteriormente nella polemica, si nota tuttavia che l'attenzione di Bateson si sposta
dalle istituzioni e strutture funzionali, agli aspetti emotivi dello scambio individuo-società, racchiuso
nello studio etologico. Questo è così descritto da Bateson:
« Il metodo etologico comporta un sistema totalmente diverso di suddivisione della cultura. La tesi di questo metodo
è che possiamo estrarre da una cultura un certo aspetto sistematico, l'ethos, che possiamo definire come l'espressione
di un sistema culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui.»
La nuova prospettiva, che tende ad uniformare individuo e cultura in un unico “pattern”, costituito
dall'ethos, deriva a Bateson dalla sua contemporanea lettura di “Patterns of culture” di R. Benedict
[Benedict 1934], in cui viene affermato il carattere pervasivo della cultura nella sfera individuale, e
il contemporaneo adeguarsi delle istituzioni all'Ethos che la cultura, (come insieme di caratteri,
forme di vita, sensibilità individuali, valori sociali) esprime.
In base a questi presupposti, Bateson scopre un fenomeno particolare, che si verifica nei contatti tra
etnie, o tra gruppi diversi all'interno di una stessa etnia, a cui da il nome di Schismogenesi. Egli la
definisce nei termini di «un processo di differenziazione delle norme del comportamento individuale
risultante da interazione cumulativa tra individui»[Bateson 1958, trad.it. p.166-7], il quale produce
la fissazione di un carattere a partire da un processo di azione reciproca:
«Una volta che la nostra disciplina è definita in termini di reazioni di un individuo alle reazioni di altri individui
diventa subito evidente che dobbiamo tenere conto del fatto che il rapporto tra due individui può di quando in
quando alterarsi anche senza turbamenti dall'esterno e quindi considerare non soltanto le reazioni di A al
comportamento di B ma andare oltre e considerare come queste reazioni influiscano poi sul comportamento di B e
gli effetti che questo avrà su A.»[Bateson 1958, trad.it. p.169].
La schismogenesi è dunque un processo di azione reciproca, in cui ad un comportamento di un certo
tipo (ad esempio esibizionismo), corrisponderà una reazione che tenderà ad amplificarsi, in maniera
simmetrica o complementare (ad esempio maggiore esibizionismo oppure ammirazione).
Bateson, a partire da questo fenomeno, ipotizza che il mantenimento dello Status Quo in una cultura,
deve possedere una specie di “circuito autocorrettivo”, che blocchi la schismogenesi e la stabilizzi;
un correttivo di questo tipo è appunto il cerimoniale “Naven”, tra gli indigeni Iatmul.
Attraverso il meccanismo della schismogenesi, assunto come processo determinante, sia della
fissazione caratteriale dell'individuo che del tipo di ethos culturale e quindi dei comportamenti
stabili ed emotivamente caricati nei contatti tra culture, Bateson aveva, ancora nebulosamente,
aperto una via teorica nuova.
3
Mentre ciò che il metro analitico poteva rilevare era una serie di pratiche, di istituzioni, di caratteri,
di riti, costituenti una struttura funzionale stabile, identificabile come “ethos”, l'analisi profonda
inaugurata dallo studio delle interazioni comportamentali inter e intra-culturali, portava alla luce un
insieme di concetti e di problemi metodologici nuovi, e costringeva a ricollocare alcune categorie
fino ad allora disgiunte.
Questi problemi spiegano in parte la direzione che successivamente prenderanno le indagini di
Bateson:
1) Innanzitutto, è rilevante il fatto che ogni configurazione culturale esaminata, per quanto “stabile”
dal punto di vista strutturale e funzionale, si rivelasse come il frutto di un andamento processuale, la
cui natura per di più non risiedeva nel solo andamento funzionale rispetto ai bisogni. Un rito come
quello descritto in “Naven” non poteva trovare una collocazione adatta all'interno dell'ipotesi
funzionalista, eppure era evidente il suo ruolo centrale nei meccanismi affettivi della cultura Iatmul.
La stabilità (di un rito, di una istituzione, di un codice legislativo, ecc...) si costituisce come “punto
fisso” in una matrice funzionale più ampia, che, interagendo, sedimenta “sacche di stabilità”, in
continuo rapporto con un contesto dinamico. Lo studio di ciascuna “forma” ne presuppone allora
uno processuale, poiché ciascuna forma è il risultato di processi contrapposti. La schismogenesi, se
non viene adeguatamente controllata, rischia di degenerare in una spirale di risposte amplificate, ed
è per questo che la cultura dispone di fattori “frenanti”, costituiti da processi etologici di segno
opposto.
Ogni cultura possiede quantomeno la possibilità di attivare meccanismi le cui curve di andamento
siano inverse rispetto ad altri meccanismi degenerativi, e i primi, in quanto vengono sedimentati
culturalmente (in riti, istituzioni, ecc...) rappresentano il risultato stabile della dialettica tra processi,
risultato che sarà quindi “sovradeterminato” dall'insieme di “forze” che la cultura, nel suo
complesso, attiva [Bateson 1935, 1949].
Non può sfuggire, come si noterà più avanti, l'analogia tra questa prospettiva etnologica e le basi
concettuali della nascente cibernetica.
2) Altro aspetto di notevole interesse, al di là del piano puramente antropologico, è l'impostazione
“sistemica”. Ogni indagine comparativa diviene allora un confronto tra “totalità” strutturate, e i
concetti utilizzati devono abbandonare ogni pretesa analitica (nel senso di riduzionistica o
parcellizzante) per abbracciare un'idea “olistica” dei sistemi culturali. Concetti come Zeitgeist o
Ethos
4
«si basano su uno studio olistico piuttosto che semplicemente analitico della cultura. La tesi è che quando si
considera una cultura nel suo insieme, emergono alcune caratteristiche nate dalla giustapposizione dei diversi tratti
di cui la cultura è composta.[...] Probabilmente uno degli assiomi fondamentali del metodo olistico in tutte le
scienze è che l'oggetto studiato - animale, pianta o comunità - si compone di unità le cui proprietà sono
standardizzate dalla loro posizione nella organizzazione totale.»[Bateson 1958, trad.it. p.108-9]
3) Il rapporto causale che l'indagine portava alla luce non poteva più essere conservato nella forma
classica, mutuata dalle scienze fisiche. Andava sostituito con un modello dove la causalità
“circolare” comparisse sia come metodo che come oggetto di studio. Metodicamente, osserva
Bateson nel 1935, le scienze fisiche e quelle etnologiche osservano la stessa complessa dialettica tra
teoria e osservazione, che assume talvolta un andamento circolare:
«la circolarità è in parte dovuta a una caratteristica di tutti i metodi scientifici e cioè al fatto che prima di poter fare
una qualsiasi affermazione di tipo teorico su un fenomeno dobbiamo osservare una quantità di fenomeni
confrontabili. Ma in questo caso la circolarità è dovuta anche alla natura del fenomeno che stiamo studiando
[sottolineatura nostra].»[Bateson 1958, trad.it. p.111]
Sembra dunque che, nello studio antropologico, la causalità nella sua forma standard sia sorpassata
da un'immagine “reticolare” di causalità circolari interconnesse che, interagendo reciprocamente,
producono fenomeni di stabilità o sviluppo. Dice Bateson:
«Sembrerebbe quindi che la circolarità sia una proprietà universale dei sistemi funzionali e che si possa ritrovare
anche in sistemi semplici e rozzi come le macchine concepite dagli uomini [...]. Ogni elemento nel sistema
funzionale contribuisce alla attività degli altri e da questa attività ogni elemento dipende.»[Bateson 1958, trad.it.
p.112]
4) I processi attraverso i quali la cultura sviluppa le sue forme, sono processi comunicativi. Ogni
frammento è parte di un sistema, ed è incomprensibile senza il riferimento al sistema in cui è
immerso. Viene precisato, quindi, in senso generale, che l'interesse teorico va spostato dal fenomeno
alle sue interazioni con l’“ambiente circostante”, intendendo lo “spazio teorico” dei movimenti di un
sottosistema nel suo bacino più ampio. E' molto facile associare questo modello a quello di “Sistema
aperto” di Bertalanffy [Bertalanffy 1967], e in generale agli studi biologici degli anni '30, che
affrontano il problema del mantenimento dell'organismo intorno a certi parametri prefissati,
introducendo il concetto di omeostasi, o “equilibrio dinamico”, come nel lavoro di Cannon [Cannon
1939].
5
Anche questo modello finirà infatti per trovare una sua collocazione nel nuovo concetto di macchina
elaborato in ambito cibernetico, in cui il funzionamento di un qualsiasi dispositivo va precisato in
riferimento ai legami con l'esterno, piuttosto che ai collegamenti interni
4
.
Queste ed altre considerazioni, elaborate a metà degli anni '30, costituivano un bagaglio
metodologico e osservativo alla ricerca di una sua più netta precisazione metodologica. Bateson
trovò questa collocazione qualche anno dopo negli studi di N. Wiener e del suo gruppo
interdisciplinare di ricerca intorno alla nascente cibernetica.
5
Essa, nella ricostruzione datane dai
loro autori, si colloca come punto di convergenza di linee di ricerca eterogenee:
«Eravamo già consapevoli dell'essenziale unitarietà dell'insieme di problemi riguardanti la comunicazione, il
controllo e la meccanica statistica, sia nelle macchine che nel tessuto vivente. D’altro lato, eravamo seriamente
ostacolati dalla mancanza di unitarietà nella letteratura concernente questi problemi, dalla mancanza di una
terminologia comune, e perfino dal nome per questo campo di ricerca. Dopo lunghe considerazioni, giungemmo
alla conclusione che tutta la terminologia esistente aveva troppe inclinazioni verso un lato o verso un altro per
servire bene allo sviluppo futuro del nuovo campo; e come tanto spesso accade agli scienziati, fummo costretti a
coniare almeno un neologismo di origine greca per colmare la lacuna.»[Wiener 1965, trad.it. p.34-5]
La nozione-cardine della cibernetica è quella di “Feed-Back”
6
, o “retroazione”, la quale esprime un
processo in cui, tramite lo scarto tra un obiettivo prefissato e l'effettivo stato del sistema, l'azione
viene calibrata. Un circuito a Feed-Back realizza quindi la possibilità di una stabilità in un sistema
costretto a far variare alcuni parametri, e questa rappresenta quindi l'obiettivo finale del sistema (il
suo fine). Va sottolineato che questa idea era già presente in maniera confusa in biologia, a partire
dagli studi di C. Bernard sulla circolazione del sangue, fino al suo studio esplicito da parte di
Cannon, tramite il concetto di omeostasi. Dice Cannon:
«Le condizioni costanti che sono mantenute nel corpo possono essere dette equilibrio. Questo termine, comunque,
ha raggiunto il suo pieno significato nei processi relativamente semplici della fisica e della chimica dei sistemi
chiusi, dove forze note sono equilibrate. I processi coordinati che mantengono lo stato di equilibrio sono così
complessi e così peculiari [...] che ho suggerito di designare tale stato con un termine speciale:
omeostasi.»[Cannon 1939, trad.it. p.107]
Bateson si rende benissimo conto di quali affinità abbia il suo taglio di indagine con le indagini
svolte in ambito cibernetico, affermatesi successivamente. Nella cibernetica vede la realizzazione di
una teoria che elabora compiutamente l'insieme di idee che, mentre sul terreno antropologico si
manifesatavano ancora in forma confusa e indistinta, vengono qui elaborate con chiarezza,
indipendentemente dal tipo particolare di disciplina a cui applicarle. “Naven” era stato scritto prima
6
di questi modelli, ma presentava, indipendentemente da essi, dei risultati compatibili, ad esempio,
con la spiegazione teleologica degli eventi:
«Ora avevamo modelli meccanici di circuiti causali che (se i parametri del sistema fossero stati
appropriati)andrebbero alla ricerca dell'equilibrio o di stati costanti. Ma “Naven” era stato scritto nel più assoluto
rifiuto di ogni spiegazione teleologica: il fine non può mai essere invocata come spiegazione del
processo.»[Bateson 1958, trad.it. p.270-1]
Uno studioso che vedeva nei processi di interazione reciproca il meccanismo della formazione di un
“carattere” culturale e che cercava la spiegazione di certe formazioni nell'insieme “reticolare” di
causalità circolari, non poteva che approvare uno studio che ritrovasse gli stessi principi alla base sia
del comportamento adattivo biologico, che del funzionamento di certe macchine. Con la cibernetica,
la vecchia teleologia di stampo aristotelico ritrovava una sua dignità teorica, nella misura in cui
veniva spogliata delle sue implicazioni metafisiche e inserita nel contesto della ricerca dell'equilibrio
intorno ad un punto prefissato.
L'entusiasmo per le nuove scoperte interdisciplinari portava K.J.W. Craik a scrivere:
«Gli indeterministi hanno senz’altro ragione quando sostengono che il comportamento intenzionale (o
“finalizzato”) introduca un nuovo principio in aggiunta alla rigida causazione retrograda, un principio che si
ritrova poco o affatto nella natura inorganica, a parte le macchine prodotte dall’uomo; non si tratta però di un
principio che riguardi in modo peculiare organismi viventi o le menti coscienti, ma del principio della retroazione
o dell'azione ciclica (come è anche detto), che si manifesta in molti dispositivi prodotti dall'uomo e che potrebbe
ben presentarsi secondo natura in sistemi sufficientemente complessi.»[Craik 1943, trad.it. p.57]
In queste ultime affermazioni è racchiuso il senso che queste indagini volevano avere: uno studio
comparato dei meccanismi, naturali o artificiali, che presentavano un insieme di comuni proprietà
(feed-back, organizzazione gerarchica di controlli, ricerca teleologica di stabilità, ecc...) e potevano
quindi essere affrontati a partire da un comune “vertice teorico”.
A partire dal 1942, quando Bateson parteciperà agli incontri della Macy Foundation, dove la
cibernetica prende avvio, la sua ricerca tenterà di applicare in modo via via più esteso i principi
cibernetici, in special modo all'insieme di processi che costituiscono l'equilibrio naturale,
l’evoluzione, l’apprendimento e, infine, la mente. Ma questo era possibile solo dopo che si fosse
integrato teoricamente l'insieme di nozioni che arrivavano dalla Teoria dell'informazione, che
sempre in quegli anni aveva cominciato a svilupparsi.
7
E’ nel concetto di informazione, come vedremo, che si stabilisce lo spazio teorico adeguato per
poter affrontare i nodi posti dallo studio dei fenomeni comunicativi e dei sistemi aperti, nel
momento in cui questo concetto comincia ad entrare massicciamente nelle ricerche, e a subire una
serie di modifiche che lo porteranno in poco tempo a rappresentare il cardine di una nuova
epistemologia.
1.2 Le forme dell'informazione
La Teoria dell'informazione rappresenta un tentativo ingegneristico di riuscire a cogliere l'aspetto
informativo dei fenomeni, qualificandolo quantitativamente. I primi teorici dell'informazione, legano
la “quantità” di informazione che un'emittente può inviare, ad una misura statistica di probabilità,
che coincide con la misurazione fisica dell'entropia di un sistema
7
. L’entropia è allora considerata
“informazione mancante”, cioè incapacità di ricevere informazione, intesa come elemento
“sorprendente” di una serie di elementi.
Gli autori si preoccupano dunque di tracciare un profilo puramente quantitativo dell’informazione,
cercando di sganciarla il più nettamente possibile dal livello del significato, come anche dall'effetto
pragmatico sul sistema ricevente. Dicono ad esempio:
«Il termine informazione, in questa teoria, viene usato in una accezione speciale che non deve essere confusa con
quella corrente. In particolare, informazione non deve essere confusa con Significato. Infatti due messaggi, uno
dei quali sia ricco di significato mentre l'altro sia puro nonsenso, possono, dal presente punto di vista, essere
esattamente equivalenti per quanto riguarda l'informazione.» [Shannon/Weaver 1949, trad.it. p.9]
Per ottenere il risultato di una misura per quanto possibile sganciata dal livello semantico, la
soluzione di Shannon e Weaver è quella di misurare l’informazione come probabilità: quanto meno
probabile è un messaggio, tanta più informazione conterrà; ciò significa che la misura del contenuto
informativo è data da una relazione: quella tra il messaggio e il contesto costituito dall'insieme di
possibilità di altri messaggi equiprobabili. Uno stesso messaggio può avere più o meno informazione
a seconda del tipo di contesto dal quale è estratto, e questo contesto è lo spazio di possibilità
“sintattiche” che i messaggi possiedono. Il BIT, l'unità di informazione divenuta ormai classica,
esprime appunto il logaritmo in base 2 dell'insieme di possibilità di una fonte di messaggi, la sua
“molteplicità” [Ashby 1956]. Così, ad esempio, la “molteplicità” dei sessi è un BIT, distinguere un
sesso è distinguere tra due possibilità, e il logaritmo in base 2 di 2 è 1. Questa concezione
“strutturalistica” dell'informazione (in cui il valore di un messaggio è dato dall'insieme di messaggi
“possibili” che lo circondano), presenta indubbiamente notevoli vantaggi (in primo luogo la non
8
sottovalutabile affinità con lo strutturalismo linguistico e quindi la possibilità di un avvicinamento
concettuale tra una scienza ingegneristica e una umana), ed in effetti permette la corretta definizione
dei limiti di un canale per la trasmissione dell'informazione e l'ottimizzazione di esso ai fini di
limitare gli errori. Tuttavia, questa collocazione dell'informazione nello spazio “metrico” della sua
misurazione attraverso un meccanismo che individua elementi discreti e li mette in relazione, rivela
una pretesa riduzionistica, inadeguata a cogliere un concetto di informazione che tenga conto della
sua stratificazione e soprattutto, oltre al “mittente”, del “destinatario” di essa. E’ come se la teoria
classica, preoccupata degli aspetti ingegneristici, avesse tagliato via aspetti rilevanti del fenomeno
“informazione”, ripercorrendo inconsapevolmente il cammino epistemologico del neopositivismo,
con una messa al bando del soggetto.
In sostanza, si sono verificati, negli ultimi decenni, due importanti revisioni concettuali della teoria
primitiva, che ne hanno rappresentato insieme un'espansione e una parziale rettifica:
1) L'espansione della sfera dell’informazione ad un territorio maggiormente autonomo rispetto alle
scienze con cui era solitamente collegato, con il considerevole aumento della sua “pervasività”
epistemologica.
2) La reintegrazione del ruolo del soggetto che, come portatore dei codici attraverso cui
l'informazione diviene significativa, non poteva restare escluso dallo studio del processo attraverso
cui essa si genera senza introdurre, nel contempo, un elemento di arbitrarietà “scientistica”; in questa
nuova dignità che al soggetto (ricevente, donatore di senso, agente cognitivo) viene attribuita, la
ricerca in questo settore passa ad occuparsi, oltre che dei sistemi di comunicazione presi “per se
stessi”, anche di ciò che sono “per altri”, cioè, in sostanza, del “livello del significato”, tanto temuto
dagli autori precedenti; per usare una efficace sintesi di H. von Foerster, lo studio passa dai “Sistemi
osservati” ai “Sistemi che osservano” [Foerster 1987].
Un'immagine di questa fondamentale opposizione tra le due generazioni di studiosi del fenomeno
“informazione”, è fornita da A. Wilden:
«Il concetto di informazione si estende oggi a due sensi emersi di recente e relativamente specifici.
Il primo è il senso strettamente tecnico e tecnologico: informazione come “quantità” misurabile in bit (binary
digit) fisici. E’ l’informazione metrica della Teoria dell'informazione classica (Claude Shannon), la teoria
combinatoria e statistica dell'informazione, basata sulla logica e sulla matematica della probabilità.
Il secondo senso appartiene ad un approccio diverso, un approccio che può non di meno servirsi del primo nei casi
in cui sia applicabile [...]. Il secondo senso è però sempre qualitativo prima di essere quantitativo, come di fatto
dovrebbe essere (dopo tutto, la quantità è un tipo di qualità, mentre non vale l'opposto). Il secondo senso
conserva ben più del senso metrico o quantitativo la significazione quotidiana del termine
“informazione”.»[Wilden 1978a, p.562]
9
Se l'informazione che immaginano i primi autori è qualcosa di discreto, o comunque discretizzabile,
(sul modello dell'alfabeto Morse o dei fonemi di una lingua), nella nuova immagine che cerca di
definirla è l'analogico, in tutte le sue forme, l'elemento caratterizzante. Dice ancora Wilden:
«L’informazione si presenta in struttura, forme, modelli, figure e configurazioni; in idee, ideali, idoli; in indici,
immagini e icone; in segnali, segni, significanti e simboli; in gesti, posizioni e contegni; in frequenze, intonazioni,
ritmi e inflessioni; in presenze e assenze; in parole, azione e silenzio; in visioni e sillogismi; è l’organizzazione
della varietà stessa.»[Wilden 1978a, p.562]
Una visione così ampia del concetto di informazione è evidentemente una netta fuoriuscita dai
confini tracciati da Shannon, che tuttavia non comporta una sussunzione indiscriminata di
qualunque cosa sotto tale nozione, fino a renderla inutilizzabile per tracciare distinzioni o
approfondire la conoscenza di singoli fenomeni. Un tale concetto, proprio per la sua vasta portata,
può servire a fornire una nuova cornice epistemologica, di modo che le vecchie suddivisioni
all'interno della scienza (come quella tra materia ed energia) possano essere marginalizzate dall’uso
scientifico di metodi che in qualche modo le superino. Ancora Wilden propone un semplice
esempio:
«Si consideri l'interrelazione tra materia-energia e informazione rappresentata da una normale chiave
d'automobile. Le tacche sulla chiave forniscono un semplice esempio di una configurazione di varietà impressa su
un pezzo di materia in modo da renderlo un messaggio. Tuttavia le tacche rappresentano un messaggio soltanto in
condizioni specifiche e per usi specifici. Se ci serviamo della chiave per aprire ad esempio un barattolo di cera per
auto, ne trascuriamo l'aspetto informazionale e usiamo il metallo come una macchina semplice, una leva; se
viceversa la utilizziamo per aprire la portiera dell'automobile, la sfruttiamo soprattutto come
informazione.»[Wilden 1978a, p.581]
In questo esempio è racchiusa l'idea come di due “mondi” che si intersecano e sovrappongono, ma
che costituiscono comunque due sfere distinte. La prima generazione di studiosi aveva, in fondo,
perseguito un obiettivo ambizioso con strumenti inadeguati: la caratterizzazione dell'informazione
veniva realizzata, ma sfruttando modelli tratti dalla fisica (ad esempio il 2° principio della
termodinamica) ed arrestandosi esplicitamente di fronte all’idea di una possibile definizione
autonoma. Autori come Bateson e Wilden sono certamente attenti al modello dell'informazione, ma
cercano di trovargli uno spazio non compromesso da concetti eterogenei.
10
Bateson, ad esempio, riprende la distinzione gnostica tra Creatura e Preloma, per caratterizzare
rispettivamente il mondo dell'informazione, che contiene solo differenze e “notizie di differenza”, e
il mondo degli urti fisici e delle leggi meccaniche; questi mondi sono lo stesso mondo, da cui
l'osservatore estrae aspetti diversi:«Possiamo studiare e descrivere il Preloma, ma in ogni caso le
distinzioni che tracciamo sono attribuite al preloma da noi.» [Bateson 1970, trad.it. p.473] Se, per
esempio, si prende un congegno come la macchina di Carnot, esisteranno per lo meno due modi di
descrizione:
«Il fisico, descrivendo il Preloma, scriverà equazioni che traducano la differenza di temperatura in “energia
libera”, che assocerà a una “entropia negativa”, e da lì procederà. Chi analizza la Creatura osserverà che l'intero
sistema è un organo di senso che è innescato dalla differenza di temperatura; egli chiamerà questa differenza che
produce una differenza “informazione” o “entropia negativa”. Per lui si tratta solo di un caso particolare, in cui la
differenza efficace si trova a essere sotto forma di energia; ma è del pari interessato a tutte le differenze che
possano attivare qualche organo di senso.»[Bateson 1970, trad.it. p.473-4]
Nell'ultimo passo sembra addirittura che si pecchi di un riduzionismo opposto, nell'allusione ad una
possibile traduzione di tutto il materiale scientifico, nel linguaggio “creaturale” dell’“Information
Theory”; resta tuttavia vero che ogni fenomeno, sebbene distinguibile e analizzabile con linguaggi
diversi, ha un aspetto “informazionale”, dato dalla sua capacità, nel linguaggio di Bateson, di
“essere” o “produrre differenza”; va notato che questa definizione di informazione data da Bateson
(in più punti della sua opera egli definisce un bit di informazione come “differenza che crea
differenza”), non è uno snaturamento del senso originale di Shannon e Weaver, ma, tuttalpiù, una
sua coerente estensione (la prima pagina del lavoro di Shannon e Weaver si apre con l'affermazione:
«Il termine comunicazione sarà da noi usato in un senso molto ampio per comprendervi tutti i procedimenti
attraverso i quali un pensiero può influenzarne un altro.»[Shannon/Weaver 1949, p.1].
Questa espansione del territorio dell'informazione ad ogni fenomeno dotato di una qualche
significatività morfogenetica, riesce a ridare al concetto quel respiro teorico che gli permette di
scavalcare i confini tra i settori del sapere; in questo modo, esso ha potuto fare da “cinghia di
trasmissione”, ad esempio, tra fisica e biologia
8
.
Per passare al secondo punto sopra elencato (il problema del soggetto, e quindi del rapporto
significato-informazione), è opportuno riprendere e continuare l'esempio di Wilden a proposito della
chiave della serratura. Dice ancora Wilden:
11
«Usiamo quindi la chiave come materia, come leva per ruotare il meccanismo di bloccaggio. Ma, senza una
configurazione di accoppiamento (in questo caso la serratura specifica in grado di riconoscere, ricevere e agire
sull'informazione contenuta nella configurazione di tacche della chiave), la chiave diviene inservibile come
messaggio. Se non si può più stabilire la connessione tra le due configurazioni di varietà strutturata, la chiave
diviene utile soltanto come pezzo di metallo, e l'informazione in essa codificata, pur sempre visibile, si è ridotta
allo status di varietà incodificata, o rumore.»[Wilden 1978a, p.582]
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, basti pensare alla differenza informazionale contenuta in una
stessa frase, ascoltata da destinatari diversi. Dunque l'ipotesi di una misura dell'informazione valida
oggettivamente non riesce a convincere, per il suo disinteresse al problema del significato e del
soggetto recettore. La considerazione di quest'ultimo non può che riportare l'attenzione al rapporto
tra informazione e ambiente circostante: in questo caso l'unità informativa è in un rapporto
“ecologico” con i meccanismi di decodifica, ed è “l’ambiente sistemico” che decide la quantità di
informazione presente in esso.
Dubbi analoghi sulla scissione tra informazione e significato, sono espressi da E. Agazzi:
«Mi chiedo allora: come è possibile proporre, da un punto di vista direttamente logico, che la misura di
informazione costituisca un qualche cosa che ha un riferimento esatto a “ciò che è già noto” e che è una funzione
crescente di “ciò che non ci si attende”, senza riferirsi al significato delle conoscenze di cui si dispone e al
significato del messaggio ricevuto? [...] Per valutare l'informazione, è obbligatorio riferirsi a un significato che
dipende dal singolo osservatore. Se non si tiene conto di questo, penso che non sarebbe mai possibile distinguere i
messaggi dal rumore di fondo. [...] Si presenta, allora, un problema filosofico molto profondo e molto arduo: è
possibile, nella Teoria dell’informazione, fare a meno dell’intenzionalità? [AA.VV. 1974, p.46-7]
Anche se Agazzi arriva a parlare di intenzionalità, questo non deve fuorviarci: il problema, dal
nostro punto di vista, non è quello del rapporto intenzioni-informazioni, ma della dialettica tra
informazione e ambiente sistemico: una proteina può ben reagire ad un determinato enzima, e non
ad un altro; in questo caso la misura dell'informazione non è data né dal rapporto messaggio-
molteplicità (Bits) né da un'ipotetica “intenzionalità” della proteina! Ciononostante, affinché
l'informazione contenuta nell'enzima sia significativa (cioè provochi un cambiamento) è necessario
un “sistema biologico” che accetti l’informazione codificata in esso.
Questo senso di “informazione”, intesa molto genericamente come rapporto tra messaggio e
contesto, è quello che Bateson propone, e che G. De Michelis riprende in un suo saggio dove
analizza il rapporto tra informazione, comunicazione e “ascolto”:
12
«L'ascolto uniforma nel linguaggio le informazioni che percepiamo da eventi linguistici e non linguistici. Esso
quindi non avviene all'estremità di un canale, ma piuttosto in un contesto [...] L'informazione non è solo quella
canalizzata dalla sorgente, ma è arricchita nel contesto dell'ascolto. La Teoria dell'informazione rimane valida: è lo
schema di comunicazione che essa propone che non si adatta alla comunicazione umana.»[De Michelis 1990,
p.123-4]
L'informazione, intesa nel senso qui sopra esposto, è ciò che fa da sfondo alle ricerche di Bateson
successive alla 2° Guerra Mondiale, e che, retrospettivamente, dona senso a quelle precedenti.
Il concetto di Mente, che Bateson svilupperà in seguito, è impregnato di questi sviluppi del concetto
di informazione, vero “scheletro concettuale” della sua teoria.
13
1.3 I criteri del processo mentale
Come applica Bateson il nuovo concetto di informazione all’idea di mente? La sua idea è che mente
e informazione non siano due universi paralleli, che occasionalmente entrano in contatto, ma che
l'informazione, opportunamente strutturata, costituisca un circuito che si può chiamare “mentale”.
Vediamo un suo esempio:
«Si consideri un individuo che stia abbattendo un albero con un'ascia; ogni colpo d’ascia è modificato o corretto
secondo la forma dell'intaccatura lasciata nell'albero dal colpo precedente. Questo procedimento autocorrettivo
(cioè mentale) è attuato da un sistema totale, albero-occhi-cervello-muscoli-ascia-colpo-albero; ed è questo
sistema totale che ha caratteristiche di mente immanente. Più correttamente si dovrebbe scomporre la questione
come segue:(differenze nell'albero)-(differenze nella retina)-(differenze nel cervello), ecc... Ciò che viene
trasmesso lungo il circuito sono trasformate di differenze.»[Bateson 1971, trad.it. p.349]
Questo esempio lascia intravedere l'idea che la mente, come entità, non abbia a che vedere con il
particolare supporto fisico che la produce, quanto con una serie di processi stocastici complessi di
trattamento di informazione. Non esiste una “mente” che produca pensieri, o cognizione in generale,
rimanendo però intatta come sostanza; la mente è la serie di processi di autocorrezione in cui un
sistema resta in equilibrio. Questa idea “ecologica” della mente spiazza il consueto modo di porre il
problema menti-macchine, rivelando come esso sia male impostato. Carlo Formenti riassume bene
questa posizione di Bateson:
«La mente non è determinabile “topologicamente”: non sta nel corpo, nell'ambiente e neppure nella relazione fra
questi termini: essa gode degli attributi dell’organismo, dell’ambiente e delle loro relazioni complesse, ma non
coincide con nessuno di questi fattori, non “abita” nessun “luogo”. Tuttavia essa non è nemmeno trascendente: la
mente è modalità di interazione immanente alle parti che costituiscono il sistema organismo-nel-suo-
ambiente.»[Formenti 1989, p.80]
La domanda sulla mente, sul cervello e sui loro rapporti, è dunque male impostata, se si ricercano
isomorfismi stretti tra mente e cervello (la posizione chiamata talvolta “Materialismo
eliminazionista”), piuttosto che elementi di rottura radicale (ad esempio tutte le posizioni
“fenomenologico-intenzionali” in filosofia della mente). Male impostata è anche la domanda sui
rapporti tra mente e computer, dove non si sia appunto primariamente chiarito il senso che la parola
“mente” può avere, in un contesto dove la si paragoni ad una macchina. Se la mente non è una
“sostanza” diviene problematico il paragone con un oggetto particolare, seppure identificato con
l'insieme dei suoi programmi; dice ad esempio Bateson:
«Le caratteristiche mentali del sistema sono immanenti non in qualche sua parte, ma nel sistema come totalità. La
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portata di questa conclusione si rivela quando ci si chiede: “Un calcolatore può pensare?” oppure: “La mente è nel
cervello?”. E la risposta sia all'una sia all'altra domanda sarà negativa, a meno che la domanda non riguardi in
modo particolare una delle poche caratteristiche mentali contenute nel calcolatore o nel cervello. Un calcolatore è
autocorrettivo con riferimento ad alcune delle sue variabili interne. Esso può, ad esempio, contenere termometri o
altri organi di senso che rispondano alle differenze nella sua temperatura di funzionamento [...]. Il calcolatore è
soltanto un arco di un circuito più ampio, che comprende sempre un uomo e un ambiente, da cui esso riceve
informazioni e su cui i messaggi efferenti dal calcolatore esercitano un effetto. Si può dire legittimamente che
questo sistema totale, questo aggregato, mostra caratteristiche mentali; esso opera per tentativi ed errori e ha
carattere creativo.»[Bateson 1971, trad.it. p.348]
La mente dunque, è un sistema aperto (vedremo nei prossimi capitoli che cosa questo possa
significare), una rete integrata che consiste di processi disomogenei e che può riguardare più
elementi.
In uno degli ultimi scritti, Bateson riporta quelli che secondo lui sono i “criteri” affinché si possa
parlare di una mente, criteri che rappresentano in controluce tutto il cammino da lui svolto a partire
dalla cibernetica fino alle ricerche sulla comunicazione:
1) La mente è un aggregato di parti o componenti interagenti.
2) L'interazione fra le parti della mente è attivata dalla differenza e la differenza è un fenomeno a-
sostanziale, non situato nello spazio o nel tempo; più che all'energia, la differenza è legata
all'entropia e all'entropia negativa (l'informazione).
3) Il processo mentale richiede un'energia collaterale.
4) Il processo mentale richiede catene di determinazione circolari (o più complesse).
5) Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere considerati come trasformate (cioè
versioni codificate) della differenza che li ha preceduti. Le regole di questa trasformazione devono
essere relativamente stabili (cioè più stabili del contenuto), ma sono a loro volta soggette a
trasformazione.
6) La descrizione e la classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una gerarchia di
tipi logici immanenti ai fenomeni.[Bateson 1979, trad.it. p.126]
Se è stato chiarito a sufficienza in precedenza il tipo di ricerche che stanno dietro i primi cinque
“criteri”, il sesto, con il suo riferimento ai tipi logici, richiede un'ulteriore spiegazione. L'uso dei tipi
logici (che vedremo più in dettaglio nel resto del presente lavoro), ha per Bateson il significato di
circoscrivere la nozione di “contesto”, come concetto fondamentale per la collocazione e la
comprensione di qualsiasi fenomeno; un contesto è sempre di un tipo logico superiore al fenomeno
inquadrato ed è pertanto un “metafenomeno”.