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1. INTRODUZIONE
1.1. Il decadimento cognitivo e principali tipologie
A fronte di una popolazione mondiale la cui aspettativa di vita media si sta progressivamente
allungando (Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS 2015a), le patologie connesse
all’invecchiamento stanno aumentando sempre più.
L’attuale emergenza a livello mondiale riguarda patologie nelle quali il deterioramento
cognitivo del soggetto è tale da compromettere in maniera più o meno consistente le sue
abilità sociali, funzionali e occupazionali. Di questa categoria fanno parte il Deterioramento
Cognitivo Lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI; Petersen et al. 1999) e le demenze, tra
cui la Malattia di Alzheimer (AD).
Con MCI si identifica una forma di deterioramento lieve caratterizzato da deficit in specifiche
funzioni cognitive. Questi sono rilevabili a livello clinico o possono essere percepiti come
lievi difficoltà da parte del soggetto stesso e dei familiari, tuttavia non interferiscono
eccessivamente con il funzionamento nelle attività della vita quotidiana della persona.
Sebbene sia generalmente considerato una fase transitoria tra l’invecchiamento sano e quello
patologico, solo il 15-41% dei casi di MCI evolve in una forma di demenza (Geslani et al.
2005).
Studi longitudinali hanno tuttavia evidenziato come la tipologia di demenza nella quale l’MCI
tipicamente evolve dipende dalla natura e dalla gravità dei sintomi esperiti durante questa fase
intermedia (Apostolo et al. 2015). Sono state infatti distinte diverse forme di MCI sulla base
della presenza o meno di disturbi di memoria (MCI amnesico e non-amnesico) e del numero
di funzioni cognitive danneggiate (single domain MCI – sd-MCI, multiple domain MCI – md-
MCI). Gli studi rilevano come le forme che hanno più probabilità di evolvere in AD siano
quelle nelle quali si riscontrano problemi di memoria, ovvero la forma amnesica sia a singolo
dominio (sd-aMCI) sia a multiplo dominio (md-aMCI)(Pinto & Subramanyam 2009).
Tra le varie forme di demenza identificate ad oggi, l’AD è la più frequente. Essa interessa
circa il 50-70% dei casi di demenza (Winblad et al. 2016) e, se considerata insieme alla sua
fase preclinica molto lunga, può raggiungere una durata totale anche superiore ai 20 anni per
coloro che riescono a sopravvivere fino alle fasi finali (Todd et al. 2013). Per le specifiche
riguardanti le fasi di malattia e le caratteristiche principali si rimanda a Budson & Kowall
(2010). Durante la malattia il lento declino cognitivo e la comparsa di sempre maggiori
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disturbi comportamentali provocano una graduale perdita di autonomia da parte del paziente e
una maggiore presa in carico da parte della famiglia e degli enti assistenziali.
Al momento le informazioni su questa patologia sono ancora poche per permettere
un’adeguata prevenzione e il contenimento del fenomeno, tuttavia gli ultimi anni hanno visto
un aumento della consapevolezza riguardo l’importanza di prendere provvedimenti, che si è
espresso sia a livello istituzionale sia con un gran numero di studi scientifici per meglio
comprenderne la patologia.
1.2. Epidemiologia e costi della malattia
Nel 2015 si stimava che circa 47 milioni di persone in tutto il mondo soffrissero di AD
(Prince et al. 2015). Sulla base delle proiezioni sull’allungamento della durata di vita e del
tasso di crescita della popolazione, si stima che il tasso di incidenza dell’AD a livello
mondiale aumenterà fino a raggiungere i 131 milioni di casi nel 2050 (Prince et al. 2013).
Nella meta-analisi di Prince e collaboratori del 2013, basata su studi epidemiologici di tutto il
mondo, è stato calcolato che l’aumento di incidenza della malattia avverrà con ritmi di
crescita diversi a seconda delle aree considerate. Le aree più sviluppate (Europa, America del
Nord, America Latina, parte dell’Asia) con alta prevalenza attuale sperimenteranno un
aumento di casi moderato, con percentuali che vanno dal 40 all’89%. I Paesi che
sperimenteranno i tassi di crescita più consistenti in tempistiche relativamente brevi sono
invece quelli meno sviluppati con un numero di casi già elevato, come Asia meridionale
(107%) e orientale (117%) e, ancora di più, i paesi che partono da una prevalenza contenuta,
ovvero alcune regioni dell’America Latina (134-146%) e del Medio-Oriente (125%). Per
quanto riguarda invece il continente Africano, le predizioni di crescita sono contenute a causa
della mortalità infantile elevata e dell’epidemia del virus dell’immunodeficienza, che
riducono l’aspettativa media di vita per queste popolazioni.
Per quanto riguarda l’MCI si hanno invece minori dati epidemiologici. La prevalenza stimata
nella meta-analisi di Roberts & Knopman (2013), basata su un numero limitato di articoli,
varia tra il 16 e il 20% nella maggior parte degli studi esaminati, se non si considerano studi
che riportano tassi molto elevati o molto bassi a parità di anno di pubblicazione e regione
geografica. L’incidenza, considerata da una quantità di ricerche ancora più limitata e
principalmente dedicata solo alla popolazione aMCI, varia sia in Europa che negli Stati Uniti
tra il 2,2 e il 7,7% all’anno. L’ampia variabilità che spesso si riscontra nei dati epidemiologici
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per la popolazione MCI è da ricondurre a fattori come la mancanza di una definizione clinica
univoca della malattia, le diverse dimensioni campionarie degli studi, la regione geografica
considerata, il background culturale, le comorbidità con eventuali sintomi neuropsichiatrici, le
procedure di assessment e i cut-off utilizzati nei diversi test impiegati per la diagnosi
(Eshkoor et al. 2015).
Per quanto riguarda i fattori di rischio, Prince e collaboratori (2013) per l’AD e Apostolo e
colleghi (2016) per l’MCI riportano un aumento esponenziale della probabilità di sviluppare
queste patologie con l’avanzare dell’età. Solo per l’AD infatti, ad eccezione delle rare forme
ereditarie a insorgenza giovanile (5% dei casi), la forma più comune (che riguarda il restante
95% dei casi) colpisce in maniera sporadica i soggetti con più di 65 anni di età; inoltre la
possibilità di svilupparla aumenta esponenzialmente con l’invecchiamento, con un incremento
di probabilità che duplica ogni 5-6 anni (Prince et al. 2013), rendendo questa patologia un
problema socio-economico sempre più rilevante.
Al momento le spese connesse con questa patologia si configurano prevalentemente come
interventi di prevenzione secondaria e terziaria piuttosto che primaria, in quanto fanno
riferimento alle fasi nelle quali la malattia ha già trovato espressione clinica e la necessità è
quella di ridurre al minimo i disturbi cognitivi e, nelle fasi più avanzate, i disturbi
comportamentali che possono insorgere. Nonostante la percentuale più consistente della spesa
pubblica e privata riguardi l’istituzionalizzazione dell’ammalato, anche l’impiego di farmaci
per l’attenuazione dei sintomi ha conseguenze sia sul piano economico, viste le previsioni
sull’incidenza della malattia, sia sul piano etico, in quanto il loro impiego nelle fasi
precliniche della malattia potrebbe implicare una medicalizzazione dell’MCI (Winblad et al.
2016).
A questi costi si aggiungono quelli ancora più onerosi e difficilmente calcolabili che sono
legati alla mortalità e al carico assistenziale informale sostenuto dai famigliari. La maggior
prevalenza di depressione in queste famiglie (Hausner et al. 2010) e la riduzione della loro
qualità della vita che si riscontrano a prescindere dallo stadio della gravità della malattia del
paziente, rendono anche i caregiver potenziali vittime secondarie della malattia e destinatari
di ulteriori interventi assistenziali di tipo medico (Sallim et al. 2015).
A causa di questa emergenza, molti governi e istituzioni internazionali negli ultimi anni
hanno riconosciuto l’AD come una priorità pubblica globale (OMS 2015b, G8 2013).
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1.3. Trattamenti disponibili
Gli interventi proposti per tentare di prevenire, ritardare l’insorgenza o trattare i sintomi del
decadimento cognitivo prevedono il ricorso a varie strategie, poiché ad oggi non è ancora
disponibile un trattamento approvato e ufficialmente riconosciuto come efficace. I più
importanti interventi proposti e testati fino ad ora vengono generalmente raggruppati in due
grandi categorie, ovvero gli interventi farmacologici e quelli non farmacologici.
Tra gli interventi farmacologici proposti, complessivamente i risultati ottenuti sono stati
limitati e incerti (Winblad et al 2016). Terapie come quella antinfiammatoria, ormonale,
chelante o a base di statine non si sono rivelate efficaci nel trattamento dei sintomi; gli
inibitori della colinesterasi e la memantina hanno prodotto alcuni effetti, ma essi sono poco
significativi, limitati solo ad alcuni soggetti e non si traducono in un migliore funzionamento
quotidiano dell’ammalato (Waite 2015). Nonostante la ricerca stia proseguendo per
individuare altri principi attivi in grado di agire sulla patofisiologia dell’AD, a questo tipo di
terapie si associano anche problemi legati alla loro somministrazione, quali gli effetti
collaterali, la gestione delle comorbidità e degli altri medicinali assunti dal paziente, la
formazione e il supporto al caregiver che ha il compito di curarne l’assunzione (Waite 2015).
Queste ultime problematiche potrebbero essere evitate nel caso di interventi più naturali che
agiscano, ad esempio, sull’alimentazione al fine di ritardare la malattia; ad oggi tuttavia non si
sono rivelati significativi gli effetti dei cibi naturali (es. Ginkgo Biloba) o degli additivi
vitaminici testati, se non in associazione a stili di vita sani (Shea & Remington 2015).
Complici tutte queste problematiche legate alla terapia farmacologica, la tendenza recente è
piuttosto quella di intervenire sugli stili di vita degli ammalati, ovvero investire sui trattamenti
non farmacologici.
Gli interventi non farmacologici sfruttano e tentano di sostenere la capacità del cervello di
adattarsi alle diverse richieste ambientali sulla base delle risorse disponibili, grazie a
meccanismi compensatori di tipo strutturale o funzionale. Queste due capacità, indicate
rispettivamente come riserva neurale e cognitiva (Pieramico et al. 2014), possono dunque
contribuire al mantenimento delle abilità residue e al rallentamento della malattia
neurodegenerativa.
Rispetto ai trattamenti farmacologici, questa seconda categoria di interventi sembra produrre
effetti positivi nell’ambito del miglioramento della qualità della vita sia del paziente che dei
famigliari, in quanto una particolare attenzione è riservata al benessere psicofisico
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dell’ammalato in ogni sua fase della malattia. L’interesse è infatti quello di assicurare la
migliore qualità della vita possibile impegnandolo in attività gratificanti, che gli permettano di
affermarsi e sostenere il suo senso di agency, e lo supportino attraverso il contatto sociale
(Cohen-Mansfield 2005).
Secondo tale ottica, molti studi si sono concentrati sull’efficacia di diverse tipologie di
trattamento. Al momento tuttavia, mentre sono disponibili molti studi che hanno come
destinatari i pazienti con AD, la letteratura scientifica dedicata ai trattamenti per la
popolazione con MCI è più scarsa (Rodakowski et al. 2015).
Alcune tipologie di trattamenti non farmacologici, prevalentemente di tipo sensoriale, sono
state indagate nell’ambito dei disturbi comportamentali che si associano alle fasi più avanzate
della malattia. Tra i trattamenti la cui validità è ancora in fase di valutazione vi sono la
stimolazione multisensoriale Snoezelen (Chung et al. 2002), la terapia occupazionale (Voigt
et al. 2016), l’aromaterapia (Forrester et al. 2014), la Bright Light Therapy (Ayalon et al.
2006), il Tocco Terapeutico (Millàn-Calenti et al. 2016), il supporto psicologico insieme al
caregiver (Millàn-Calenti et al. 2016). Di queste terapie infatti i pochi gli studi
sufficientemente affidabili mancano di uniformità metodologica, riportano risultati spesso
contraddittori e i risultati ottenuti non sono distinti per livello di gravità della malattia, il che
rende necessari futuri approfondimenti a riguardo.
Alcuni trattamenti per i quali si stanno accumulando interessanti evidenze di efficacia nella
riduzione dell’ansia e dei disturbi del comportamento sono invece il giardino terapeutico e
l’uso dell’orticoltura (Gonzalez & Kirkevold 2013), la terapia della bambola (Mitchell 2014)
e, soprattutto, la musicoterapia (Raglio 2015). In particolare quest’ultima sembra anche
ottenere lievi miglioramenti nella cognizione dei pazienti trattati (Chang et al. 2015).
Gli interventi che invece si sono rivelati più efficaci per la prevenzione e la compensazione
dei disturbi cognitivi nelle popolazioni di MCI e AD sono stati la stimolazione cognitiva e
l’attività fisica (Azermai 2015, Rodakowski et al. 2015). Per le specifiche riguardanti questi
trattamenti si vedano i cap. 2 e 3.
Data l’emergenza rappresentata dalla diffusione della malattia e le conseguenze sociali ed
economiche del fenomeno, la necessità è quella di investire nella ricerca su questi approcci
alternativi implementando studi randomizzati controllati che ne stabiliscano con precisione gli
effetti sulla cognizione, sul funzionamento e sulla qualità della vita del paziente e chi gli è
accanto, anche a lungo termine.
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In letteratura sono presenti ancora pochi studi che hanno tentato di confrontare gli effetti sulla
cognizione di queste due tipologie di trattamento non farmacologico (Fabre et al. 2002,
Oswald et al. 2006, Shatil 2013). Questi studi, sebbene abbiano riportato risultati promettenti
per entrambe le terapie sul funzionamento cognitivo e un maggiore effetto per le due terapie
combinate, hanno riguardato tuttavia anziani con invecchiamento sano. Per i casi di
deterioramento cognitivo sono disponibili invece alcuni studi che hanno valutato l’esercizio
fisico in combinazione con la stimolazione cognitiva (Olazaran et al. 2004, Muñiz et al.
2015), tuttavia gli effetti di ciascun trattamento non sono stati isolati e il campione utilizzato
ha visto l’inclusione e l’analisi indifferenziata di soggetti con MCI e AD di grado lieve e
moderato.!
Lo studio di questa tesi si concentrerà quindi sull’approfondimento dell’efficacia di queste
due terapie non farmacologiche, ovvero l’esercizio fisico e la stimolazione cognitiva, nel
rallentamento della progressione del decadimento cognitivo in soggetti con diagnosi di MCI e
in soggetti con AD di grado lieve e moderato.
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