7
passaggio dalle metodologie tayloristiche ad i nuovi sistemi
partecipativi e flessibili conosciuti con il nome di produzione snella.
Questo cambiamento non esprime solo una semplice innovazione
nella gestione tecnica del lavoro e della produzione, ma
rappresenta, se si vuole, un passaggio dell'industria verso la
maturità. Vengono abbandonate le logiche oligarchiche del
controllo, dettate dall'utilitarismo, dalla contrapposizione e dalla
diffidenza di classe (retaggio ottocentesco), per approdare a nuove
regole democratiche di collaborazione e di condivisione delle
conoscenze.
L'apertura del mondo produttivo ha riguardato anche il rapporto con
il mercato ed il consumatore. Il mercato, in precedenza, non
rivestiva una grande importanza, e le imprese non accettavano
ancora fino in fondo di avere nel consumatore il loro giudice
imparziale. Oggi, al contrario, il mercato è il fulcro ed il motore di
qualsiasi decisione all'interno delle imprese. Anche in questo caso
si può parlare di una raggiunta maturità dell'industria.
Lungo gli ultimi trent'anni, diversi ed importanti paesi si sono
affacciati alla democrazia, non solo politica ma anche economica. I
paesi occidentali hanno abbandonato le vecchie logiche
protezionistiche aprendosi sempre più alla competizione
8
internazionale. Questi fattori, tra gli altri, sono alla base della
globalizzazione dei mercati.
Questo fenomeno, sul quale si è fatto molto giornalismo, si presta
ad accendere facili entusiasmi quanto opposizioni accanite. Pare
innegabile che esso rappresenti un altro elemento della raggiunta
maturità delle economie occidentali. Le chiusure nazionalistiche ed
i protezionismi hanno lasciato il passo ad una competizione più
trasparente. I condizionamenti politici rivestono un minor peso
nelle decisioni economiche delle nazioni. Le stesse imprese
sembrano aver accettato l'idea di dover divenire adulte. Sempre
meno, infatti, basano la propria capacità di sopravvivenza sugli aiuti
e le protezioni statali, sforzandosi di raccogliere apertamente la
sfida della competizione internazionale.
Fin qui le note positive, ma quali sono i rischi della
globalizzazione? Sempre più numerosi movimenti ne denunciano le
possibili distorsioni. Il maggior timore è che tale processo di
liberalizzazione finisca per penalizzare in modo irrecuperabile i
paesi e le popolazioni più deboli. L'odierna competizione si basa
sempre più su asset immateriali, mentre perde d'importanza il
tradizionale concetto di capitale. Ciò che conta è essere partecipi di
una rete relazionale in cui si diffondono, si condividono e si creano
9
"conoscenze". L'handicap di conoscenza dei paesi in via di sviluppo
può essere ancor più difficile da superare che non il tradizionale
divario di capitale.
Certamente il rischio di uno "sviluppo diseguale" è un problema che
non può essere ignorato. Non è possibile, invece, pensare di
difendersi dalla marginalità attraverso l'arma del protezionismo e
della tutela di interessi nazionalistici.
La rete Internet è il totem della globalizzazione, il simbolo
dell'importanza che i flussi di informazione rivestono nella moderna
economia. Il web non solo ha determinato la nascita di nuove aree
di business, ma ha interessato anche i settori produttivi tradizionali,
trasformandoli profondamente.
L'evoluzione dell'industria automobilistica riflette queste
trasformazioni nella competizione mondiale e nella società. In
alcuni casi è stata essa stessa promotrice dell'innovazione, mentre in
altri casi ha dovuto subirla. Ci si domanda se questo settore,
facendo parte della "old economy", si sia lasciato alle spalle i
momenti di maggiore gloria. Ci si chiede se il compito di pietra
angolare del mondo produttivo sarà svolto in futuro da altri settori.
La densità automobilistica nei paesi occidentali ha raggiunto livelli
tali da far ipotizzare, al più, una crescita moderata, ben lontana dai
10
tassi di sviluppo che contraddistinguono i settori più innovativi. È
innegabile che le maggiori prospettive di crescita sono legate alla
futura motorizzazione dei paesi in via di sviluppo.
In tutti i casi, è possibile ipotizzare che saranno i costruttori dei
paesi della Triade (Nord America, Europa Occidentale e Giappone)
a sovrintendere alla motorizzazione dei PVS. Il settore
automobilistico è caratterizzato, infatti, da barriere all'entrata molto
elevate e da un forte eccesso di capacità, per cui è impensabile la
nascita, nei paesi a bassa motorizzazione, di un'industria
indipendente.
Le case automobilistiche si trovano di fronte alla necessità di
sostenere costi elevatissimi per competere sul mercato globale.
L'esigenza di una continua innovazione di prodotto, necessaria per
accontentare i sofisticati consumatori dei mercati maturi, è un altro
fattore che richiede ai costruttori massicci investimenti. Questi
fattori hanno innescato, soprattutto a partire dagli ultimi anni, un
vistoso processo di concentrazione nel settore.
Il fenomeno della concentrazione, d'altronde, riguarda numerosi
settori produttivi: si pensi al settore bancario e finanziario o a quello
delle telecomunicazioni. Probabilmente, processi di consolidamento
11
interesseranno sempre più tutti quei settori in cui ha la necessità, per
competere, di raggiungere una leadership globale.
Il presente studio ha lo scopo di analizzare il processo evolutivo, a
partire dagli anni Settanta, del settore automobilistico in Europa.
Nel primo capitolo si tratterà in maniera generale, del fenomeno
della concentrazione industriale, delle sue determinanti e dei suoi
effetti. Il secondo capitolo descrive l'evoluzione dell'industria
automobilistica relativamente ai cambiamenti nella domanda, nel
prodotto e nell'organizzazione della produzione. Il terzo capitolo
analizza l'evoluzione della competizione all'interno del settore. Nel
quarto capitolo, infine, si affronta un'analisi empirica sulla relazione
tra quota di mercato delle case automobilistiche in Europa e alcune
caratteristiche dell'offerta.
12
Capitolo 1
Determinanti ed effetti della concentrazione
industriale
1.1 La natura di un settore
L'individuazione e la delimitazione di un'industria costituiscono un
passo preliminare di qualsiasi studio settoriale. Molti economisti
hanno provato ad individuare un criterio valido per ripartire il
sistema economico in settori pervenendo a risultati che, in nessun
caso, sono stati risolutivi. Le formule utilizzate, infatti, presentano
più o meno tutte limiti teorici e problemi metodologici. In via
approssimativa, potremmo definire un'industria come l'insieme
delle imprese che producono beni sostituibili agli occhi del
consumatore. Questa definizione ci consente di cogliere alcuni
importanti aspetti della realtà industriale, riconoscendo che beni e
servizi prodotti in un sistema economico sono legati fra loro da
relazioni di interdipendenza. In questo specifico caso, la
connessione rilevante fra i vari beni è offerta dal grado di
13
sostituibilità degli stessi da parte del consumatore.
Lo strumento operativo solitamente utilizzato per la rilevazione
della sostituibilità dal lato della domanda, è dato dalla misura
dell'elasticità della domanda di un bene rispetto alle variazioni nel
prezzo di un altro bene1. Indichiamo con xye la misura dell'elasticità
incrociata della domanda del bene x al variare del prezzo del bene y.
Avremo:
(1-1)
yy
xx
xy PdP
QdQ
=e
dove Qx è la quantità domandata del bene x e Py è il prezzo di
mercato del bene y. Posto un valore k>0, due imprese, di cui la
prima produce x e la seconda y, appartengono allo stesso settore se
sono rispettate le seguenti due condizioni:
1) >xye 0
2) >xye k
Quando è rispettata la prima condizione, ad un aumento del prezzo
del bene y, il consumatore reagisce aumentando la domanda del
bene x. Ciò significa che il consumatore considera, in un certo qual
14
modo, i due beni come sostituti. L'analisi empirica ha dimostrato,
però, che moltissime coppie di beni, appartenenti intuitivamente a
settori diversi, presentano valori di e maggiori di zero. Per questo
motivo, nella prassi, si è introdotto un coefficiente k>0, tale per cui
si considerano appartenenti allo stesso settore le imprese producenti
beni che, in relazione tra loro, presentano un valore dell'elasticità
incrociata e >k>0. A questo punto, la determinazione dell'ampiezza
del settore dipenderà dalla scelta arbitraria del valore di k.
Oltre che limiti merceologici un settore presenta anche confini
geografici, che individuano il contesto territoriale entro il quale le
imprese sono in competizione. Da questo punto di vista, il
fenomeno della globalizzazione di mercati e, relativamente
all'Europa, il processo di integrazione continentale, hanno spinto
verso un ampliamento sempre maggiore di questi confini. In alcuni
casi i limiti geografici della competizione industriale vengono
ormai a coincidere con l'intero pianeta.
Contestualmente all'individuazione dei confini settoriali, si affianca,
nell'analisi economica, la definizione della struttura dell'industria.
Parlare di struttura industriale significa fare riferimento ad una serie
di variabili che, appunto, caratterizzano un settore e lo
1
Grillo, M., Silva, F. (1989), Impresa Concorrenza e Organizzazione, La Nuova Italia
15
contraddistinguono rispetto agli altri. Le variabili strutturali che è
possibile individuare sono molteplici: fanno riferimento alle diverse
angolazioni da cui è possibile osservare un settore2.
In questo capitolo ci occuperemo in particolare della concentrazione
settoriale. Si cercherà di capire che cosa debba intendersi per
concentrazione e come si misuri, si indagherà su quali siano i fattori
determinanti del fenomeno, si cercherà di capire quanto influisca
sul comportamento delle imprese e sulla performance di un settore.
Infine sarà utile osservare in che modo le politiche per la
concorrenza possano affrontare il fenomeno e come, in concreto, gli
organismi antitrust abbiano operato.
1.2 La misura della concentrazione
1.2.1 Il problema della dimensione dell'impresa
La nozione di concentrazione richiama quella di grandezza delle
imprese, perciò è necessario un preliminare cenno a questo
concetto. La definizione della dimensione d'impresa costituisce un
aspetto delicato e controverso dell'analisi economica. Uno dei
Scientifica, Roma.
16
problemi che si riscontrano consiste nell'individuazione dell'unità di
misura adatta alla definizione del fenomeno3. Tra i fattori che più
spesso vengono utilizzati, alcuni hanno natura strettamente
economica, altri tecnica, altri ancora sono a contenuto organizzativo
o patrimoniale4. La scelta dell'indicatore dimensionale non è
neutrale, poiché, a seconda che si accordi la preferenza all'uno od
all'altro, si otterranno valori differenti5.
Con riferimento al presente studio, che guarda alla dimensione
d'impresa come punto di partenza per una riflessione sulla
concentrazione industriale, è necessario un indice dimensionale che
rifletta la quota di mercato detenuta dalle imprese in un dato settore.
Tale premessa porta giocoforza ad escludere gli indici di natura
organizzativa e patrimoniale, alcuni dei quali, come gli utili
prodotti, sarebbero addirittura controproducenti6. Quando si misura
il livello di concentrazione in un settore, ci si riferisce alla quota di
2
Si veda, per una sintetica lista, Scherer, F.M. (1985), Economia Industriale - Strutture di
Mercato, Condotta delle Imprese e Performance, UNICOPLI, Milano.
3
Un altro problema è l'astrattezza del concetto: nell'individuare il soggetto di cui si misura la
dimensione ci si può riferire ad una singola impresa oppure ad un gruppo di società.
4
Tra i primi, ricordiamo il fatturato o il valore aggiunto, tra i secondi si annoverano la quantità
beni prodotti o venduti o la dimensione degli impianti. Tra gli altri criteri ricordiamo il numero
degli addetti o gli utili prodotti. Si veda Confalonieri, M. (1998), Lo Sviluppo e la Dimensione
dell'Impresa , Giappichelli, Torino.
5
Un buon punto di partenza consiste nell'individuare lo scopo dell'indagine dimensionale e
scegliere quella variabile che, seppur con limiti, si dimostra maggiormente adatta.
6
Nello studio della concentrazione industriale, ci si riferisce spesso a teorie che indicano una
relazione diretta tra livelli di concentrazione e livelli di performance (misurati tipicamente dai
17
mercato detenuta dalle varie imprese: questa, nella maggior parte
dei casi viene indicata dal fatturato, oppure dalla quantità prodotta o
venduta. Nel caso dell'industria automobilistica, ad esempio, la
variabile dimensionale che si utilizza è data dal numero di
automobili vendute dalle varie case7.
1.2.2 Alcuni indici di concentrazione
Quanto più numerose ed omogenee dal punto di vista dimensionale
sono le imprese, tanto meno, intuitivamente, un settore è
concentrato. Quando pensiamo ad un indice di concentrazione,
quindi, sappiamo che questo deve tener conto di due fattori per
essere "robusto"8:
− Il numero delle imprese presenti nel settore
− La distribuzione dimensionale delle stesse
L'indice, inoltre, non deve variare in seguito a permutazioni delle
quote di mercato delle imprese e deve crescere all'aumentare della
profitti). In tal caso, ricorrere agli utili come misura della dimensione d'impresa e, quindi dei
livelli di concentrazione, equivarrebbe ad utilizzare una variabile "autoreferenziale".
7
In questo caso, l'utilizzo del fatturato causerebbe distorsioni, poiché quello delle imprese di
questo settore dipende non solo dalle vendite di automobili ma anche da una vasta offerta di
beni e servizio complementari. Le auto prodotte dalle diverse case, inoltre, presentano un'alta
differenziazione verticale e prezzi molto diversi: privilegiare il fatturato significherebbe
sopravvalutare il peso di quelle imprese la cui gamma di prodotti ha prezzi elevati. In breve,
per questo settore, il numero dei "pezzi" prodotti o venduti è sicuramente un indicatore più
affidabile della quota di mercato.
8
Per alcuni criteri di robustezza degli indici di concentrazione si veda Hannah, L., Kay, J.
(1997), Competition in Modern Industry, Macmillan, London.
18
diseguaglianza dimensionale fra le stesse. In letteratura sono molti
gli indici utilizzati per la misura della concentrazione, non tutti
robusti allo stesso modo.
1.2.2.1 Il rapporto di concentrazione
Il rapporto di concentrazione rientra nella categoria degli indici
assoluti9 e prende in considerazione solamente un numero limitato
di imprese: quelle più grandi.
Dato un settore con N imprese, il rapporto di concentrazione nCR è
pari al valore della quota di mercato cumulata relativa alle prime n
operanti nell'industria.
(2-1) ∑
=
=
n
i
in SCR
1
∀ n<N
dove
i
S è la quota di mercato detenuta dall'impresa i-esima.
Negli studi settoriali viene spesso usato il rapporto di
concentrazione riferito alle prime quattro imprese. Ipotizziamo di
avere un settore, a , in cui le quattro imprese più grandi abbiano,
nell'ordine, una quota di mercato del 30%, del 25%, del 15% e del
9
Gli indici assoluti tengono conto solamente del numero delle imprese e non della loro
distribuzione dimensionale.
19
13%. Il rapporto di concentrazione per questo settore è a4CR =0,83.
Graficamente avremo una curva di concentrazione, ottenibile
disponendo sulle ascisse il numero delle imprese, collocate in
maniera decrescente rispetto alla quota di mercato, e in ordinata la
quota di mercato cumulata.
Figura 1.1
Curva di concentrazione
(Settore α)
_____________________________________________________________________________________
Immaginiamo, adesso, di avere un altro settore, b , in cui le quattro
maggiori imprese abbiano, nell'ordine, una quota di mercato pari
del 25%, del 23%, del 22% e del 18%. Il rapporto di concentrazione
per questo settore è pari a b4CR =0,88. Confrontando questo dato
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
0 1 2 3 4 N
n° imprese
Qu
ot
a
di
me
rca
to
cu
mu
lat
a 0,83
20
con quello del settore a , si deduce che il settore b è il più
concentrato. Il risultato ottenuto dipende, però, dal valore scelto di
n. Se si pone, infatti, n=3, i due settori presentano un eguale livello
di concentrazione mentre, se si pone n=2, è il settore a ad essere
maggiormente concentrato. Ecco, dunque, un limite del rapporto di
concentrazione: il risultato dipende dalla scelta, arbitraria, di n.
L'indice, inoltre, non tiene conto del numero totale delle imprese di
un settore: due industrie possono presentare un valore del CR
identico, ad esempio 7,04 =CR , ma il primo è composto dalle
prime quattro e da altre otto imprese, mentre il secondo è composto
di centinaia di operatori. Risulta evidente che il livello di
concentrazione è notevolmente superiore nel secondo settore, con
notevoli conseguenze riguardo al tipo di competizione in esso
presente. Il rapporto di concentrazione, in questo caso non fornisce
indicazioni attendibili.
L'ampio successo ottenuto da questo indicatore è dovuto alla sua
praticità d'impiego ed al fatto che la sua costruzione richiede minori
informazioni rispetto ad altri indici10.
10
Va inoltre ricordato che il rapporto di concentrazione, pur essendo un indice molto grezzo,
presenta un elevato grado di correlazione con indici più complessi e sofisticati, come l'indice di
Herfindhal.