5
aiuta a comprendere come l’interesse si sia, progressivamente spostato dall’individuo
con il suo corpo, le sue patologie, la sua personalità, il suo ambiente familiare, alla
struttura sociale, al rapporto individuo-società, alle norme, alla reazione della società ai
comportamenti dell’individuo. La gradualità del cambiamento, riscontrabile all’interno
della disamina svolta, permette di comprendere quel filo rosso che collega gli
accadimenti storici e le relative interpretazioni sociologiche fino ad arrivare ad oggi, al
difficile e acceso dibattito che tenta di afferrare il presente e di spiegarlo nella sua
complessità. Una complessità, riscontrabile nell’analisi del fenomeno della devianza, che
si afferma attualmente in vari modelli ed in diverse sottocategorie acquistando sempre
maggiore autonomia, arrivando a parlare di una pluralità di devianze. Se si analizza il
problema dal punto di vista quantitativo l’entità del fenomeno in Italia è inferiore
rispetto agli altri Paesi Europei. Secondo i dati dell’Interpol per ogni denuncia contro
minorenni in Italia, ve ne sono state diciassette in Germania, dieci in Francia e sette in
Inghilterra
2
. Sotto il profilo qualitativo, invece, il fenomeno della devianza minorile è
andato sempre più differenziandosi, adattandosi e reagendo alle molteplici
problematiche che investono la società odierna. Sulla base dei dati pubblicati, nel marzo
del 2006, dall’Osservatorio Nazionale dell’Infanzia, che fotografa la complessità
dell’evoluzione del fenomeno, ho ritenuto necessario, analizzare le teorie e gli studi
sociologici sulla devianza ed in particolare sulla devianza minorile. La conoscenza della
letteratura di riferimento è la base sulla quale poter formulare l’operatività della ricerca
successiva. Partendo, quindi, da questa riflessione mi sono poi concentrata nel secondo
capitolo, sul fenomeno del bullismo
3
, inteso come manifestazione di comportamenti
2
Rapporto sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, L’eccezionale Quotidiano,
Osservatorio Nazionale dell’Infanzia, Ministero delle Politiche Sociali, Istituto degli Innocenti, Istituto
Poligrafico e Zecca della Stato, Roma, 2006, p. 233.
3
Riconosciuto come una particolare forma di devianza, Ibidem.
6
conflittuali attuati in forme di prepotenze ed aggressività soprattutto a scuola. La scelta
di limitare, l’analisi del fenomeno ai bambini che frequentano le scuole elementari ha
come obiettivo quello di focalizzare l’attenzione e lo studio teorico sulle esigenze della
ricerca. Una ricerca che si è svolta proprio in una scuola elementare. L’intento è quello
di studiare il fenomeno nella sua complessità, dedicando ampio spazio sia alla
comprensione delle diverse dimensioni di cui si compone, che agli interventi di
prevenzione realizzati nelle scuole italiane. Sulla scia dell’allarme lanciato dai mass
media e dalle ricerche effettuate nel nostro paese, il tema della violenza e dei
comportamenti aggressivi in ambito scolastico ha assunto negli ultimi anni una notevole
importanza. Gli studi scientifici effettuati dalla seconda metà degli anni Ottanta del
secolo appena concluso seguono per la maggior parte un’impostazione psicologica dello
sviluppo. Queste analisi, sia quelle internazionali
4
sia le prime ricerche condotte in
ambito italiano
5
, alle quali si aggiungono riflessioni sull’intervento di prevenzione,
pongono l’attenzione sulle seguenti categorie di problemi: la definizione di bullismo, la
sua natura, l’entità del fenomeno, la caratterizzazione del bullo e della vittima.
Avvalendomi di questa ampia bibliografia ho analizzato il fenomeno sviluppando
contemporaneamente alcune aree di indagine. Rispetto alla letteratura e alle ricerche
precedenti la mia riflessione si è progressivamente spostata dall’attenzione verso il
bullismo rigidamente definito - dalla rilevazione di forme e frequenza del fenomeno -
dall’individuazione delle componenti psicologiche del bullo e della vittima, ad una
riflessione basata sulle interpretazioni delle parole degli attori coinvolti, sulle
componenti sociali e ambientali del fenomeno ma soprattutto sull’assunto che, un clima
4
D.Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996.
S. Sharp, P.K. Smith, Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Erickson, Trento,
2000.
5
A. Fonzi, Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze, 1997.
F. Marini, C. Mameli, Il bullismo nelle scuole, Arti Grafiche Editoriali, Urbino, 1999.
7
scolastico, caratterizzato da solidarietà, partecipazione, rispetto per l’altro, possa agire
come significativo fattore di prevenzione dell’antisocialità. La prospettiva che intendo
indagare nel terzo capitolo, riguarda anche una concreta proposta d’intervento che non
ha come obiettivo quello di risolvere il problema delle aggressioni scolastiche ma quello
di facilitare la comprensione, il confronto tra gli attori coinvolti e la riflessione sul
fenomeno da parte degli studenti e degli insegnanti attraverso la realizzazione di un
laboratorio di Media education. La mia idea, riguarda proprio lo sviluppo, all’interno
dell’attività didattica e in accordo con essa, di percorsi laboratoriali con l’obiettivo di
favorire una cultura del dialogo tra i soggetti coinvolti. Il dialogo è una particolare
forma di comunicazione, le cui principali componenti normative sono osservate come
apertura e rispetto, distribuzione equa della partecipazione attiva, empatia, conferma ed
inclusione delle persone coinvolte. A tal proposito ho seguito personalmente le fasi di
realizzazione nella classe V d della scuola elementare “Merelli” di Roma, del laboratorio
“Tg in classe”
6
, nel quale i ragazzi hanno scelto come tema principale proprio il
bullismo. Successivamente ho avuto la possibilità di ampliare la mia ricerca
intervistando la responsabile del progetto Dott.ssa De Cicco e l’insegnante della quinta
elementare, direttamente coinvolta nell’esperienza del Tg in classe. Per ovvie esigente di
ricerca, ho poi intervistato anche la maestra di un’altra quinta, presente sullo stesso
piano della scuola, che non ha svolto con i ragazzi lo stesso percorso laboratoriale. Il
quarto capitolo è dedicato all’elaborazione dei focus group svolti in entrambe le classi.
6
Il progetto Telegiornale in Classe nasce da un'idea del Gt Ragazzi - Tg3/Rai Tre - in collaborazione con
l' Assessorato alle Politiche Educative e alla Scuola del Comune di Roma e il supporto del Cine Tv “R.
Rossellini” di Roma. Tale progetto è stato inizialmente indirizzato agli studenti delle classi IV e V di
scuola elementare e per la seconda edizione ha sperimentato il coinvolgimento di alcune classi medie.
Nell'edizione 2004/2005 sono stati coinvolti circa 600 bambini romani che hanno prodotto 15 telegiornali;
per l'edizione 2005/2006 il numero delle classi e delle scuole coinvolte è notevolmente cresciuto: hanno
partecipato 22 scuole, di cui 17 romane, 3 toscane e 2 friulane, per un totale di 46 classi e 1000 bambini. I
Tg prodotti sono stati 34, di cui 29 di scuola elementare e 5 di scuola media.
8
La scelta di affiancare allo studio della letteratura di riferimento sulla devianza e nel
particolare, sul fenomeno del bullismo, una ricerca qualitativa, ha come intento quello di
dar voce ai bambini e alle loro insegnanti. Toccare con mano i pensieri, le sensazioni e
le opinioni degli intervistati dei bambini in particolare, mi ha permesso di delineare un
quadro complesso nel quale si contrappongono visioni opposte che hanno determinato
approcci differenti tra le due insegnanti, e di riflesso nei bambini, al fenomeno del
bullismo.
Nella costruzione della traccia del focus group, ho scelto di affiancare al modello
tradizionale, composto da una batteria di domande mirate, stimoli visivi ed un
montaggio audiovisivo. La scelta delle immagini-stimolo ha rispettato i presupposti della
ricerca: ogni personaggio possiede alcune caratteristiche rilevanti nelle quali i bambini
possono riconoscersi o rispetto alle quali possono paragonare le loro tipologie di
eventuali comportamenti o atteggiamenti devianti. Il mio compito, come moderatore
7
, è
stato quello di tenere le “redini del discorso”, evitare eccessi di protagonismo di alcuni
bambini a discapito di quelli più timidi e cercare di mantenere una discussione accesa
soprattutto riguardo al successivo stimolo audiovisivo. Il montaggio proposto ha
permesso di trattare gli aspetti sociologici più rilevanti: motivazioni delle prevaricazioni,
dinamica prevaricatori/prevaricati, comunicazione interpersonale tra coetanei e con il
mondo adulto, possibilità e significati di un intervento di insegnanti e genitori ed
significati del rispetto e modi per crearlo. Nell’ultimo paragrafo le parole dei ragazzi
saranno confrontate tra loro per far affiorare elementi significativi emersi durante i focus
7
Il compito del moderatore non è quello di controllare il gruppo bensì quello di facilitare la discussione:
«Il facilitatore dovrebbe facilitare il gruppo, non controllarlo. Nel caso del focus group un eccessivo
controllo sulle dinamiche di gruppo potrebbe anche essere disfunzionale alla buona riuscita della ricerca:
se scopo di questa è facilitare le interazioni che si generano nel gruppo, così da comprendere le norme e i
significati ad esso sottesi, allora un controllo esterno troppo vincolante rischia di produrre effetti
disastrosi». M. Bloor, J. Frankland, M. Thomas e K. Robson, I focus group nella ricerca sociale, La
Grafica, Mori (TN), 2002, p. 75.
9
group. Anche il titolo scelto per questo lavoro nasce da una battuta di un bambino che
ironizzava sul lavoro di Media education svolto in classe. Riflettendoci, ha colto
pienamente, nell’ingenuità di questa espressione, il significato di tutto il lavoro prima di
comprensione e poi operativo svolto in classe sul bullismo .Oggi, più che mai, è
necessaria una riflessione profonda sul fenomeno seguita da concrete proposte di
intervento in ambito scolastico, «Se riusciremo a ridurre le differenze cognitive,
emotive, linguistiche e tecnologiche con i minori avremo ricominciato una partita
chiamata educazione»
8
.
8
M. Morcellini, intervento pubblicato negli atti del convegno «Tv e Minori», Rivista bimestrale di studi,
documentazione e dibattito su temi e problemi della televisione e minori, Roma, 2004. p. 21.
10
Capitolo 1 - Il concetto di devianza
1.1. - Le origini sociali del concetto di devianza
Un’analisi sistematica del fenomeno del bullismo, non può che iniziare con un
viaggio nel tempo alla scoperta delle origini sociali del concetto di devianza. Si tratta di
tracciare le linee generali di una ricostruzione diacronica del concetto di devianza - visto
attraverso i vari paradigmi disciplinari e le diverse prospettive di ricerca sociale - per
arrivare ad un tentativo di ricostruzione dello stesso concetto in una chiave complessa e
problematica all’interno dell’attuale dibattito nelle scienze sociali. Per far ciò si
individuerà la connessione sociologica tra le difficoltà personali e la struttura sociale,
ponendo l’individuo in un contesto di gruppo ed il gruppo in un contesto comunitario.
Questa disamina ha inizio proprio nel momento in cui nella storia del pensiero
occidentale, grazie alle teorie illuministe, il crimine viene sottratto alla volontà divina ed
attribuito, anziché ad influenze esterne, al volere dell’uomo. Il punto centrale di tale
teoria, affermatasi attorno alla seconda metà del 1700, è la certezza che l’uomo che
delinque sia un soggetto razionale, libero ed in grado di scegliere in autonomia
decisionale tra il comportamento deviante e quello conforme alle leggi. Per Cesare
Beccaria, ispiratore della Scuola Classica italiana, il diritto dello Stato di applicare una
sanzione al cittadino deve rientrare nell’ambito di un contratto sociale, stipulato tra i vari
componenti di una società che rinunciano coscientemente ad una parte della loro libertà
per ottenere una convivenza civile ed il più possibile armoniosa. Lo Stato, in caso di
violazione di una norma, può solo applicare la pena prevista senza interporsi nella
personalità del soggetto che ha commesso il crimine.
11
In tale contesto ideologico le norme devono essere chiare e uguali per tutti e le pene
devono essere utili alle esigenze della società, umanitarie e legali. La punizione inflitta
ai soggetti che si sono resi responsabili di un crimine deve seguire dei criteri retributivi
in base al danno sociale provocato alla maggior parte dei cittadini e non a quello arrecato
ai potenti. Viene affermato il libero arbitrio del criminale e l’azione illegale diventa una
libera scelta del soggetto-criminale a cui è riconosciuta una razionalità specifica. Il
delinquente, in quest’ottica non è diverso dal non delinquente e deve essere giudicato in
base a ciò che commette e non in base a ciò che è.
Si affermava, intanto, l’importanza dello studio della società e quindi della sociologia
come scienza che analizza il campo dei rapporti intersoggettivi. Il termine fu creato da
Comte nel 1938 per indicare “la scienza di osservazione dei fenomeni sociali”
9
.
Il passaggio da una sociologia sintetica (o sistematica) avente come oggetto la totalità
dei fenomeni sociali da indagarsi nel suo complesso, ad una sociologia analitica avente
per soggetto gruppi o aspetti particolari dei fenomeni sociali è segnato dall’opera di
Durkheim il quale scrive «Ciò che esiste, ciò che solo è dato all’osservazione sono le
società particolari che nascono, si sviluppano, muoiono indipendentemente l’una
dall’altra»
10
.
Pur riconoscendo alla teoria illuminista il grande merito d’aver spostato il focus
d’interesse sull’individuo è con Emile Durkheim, sociologo francese, che, per la prima
volta, si abbandona ogni riferimento a fattori statistici o biologici per dedicarsi
esclusivamente a fattori sociali.
La prospettiva concettuale di Durkheim non considera la società come un aggregato di
contratti stipulati fra gli individui ma sottolinea l’esistenza di un’impalcatura di
9
A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Il Mulino, Bologna, 1991.
10
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità, Milano, 1963, p. 20.
12
tradizioni e pratiche, ovvero i fatti sociali. Questi ultimi, pur essendo l’opera dell’azione
umana, precedono l’esistenza di ogni singolo individuo, del quale forgiano la personalità
e conseguentemente la natura stessa. «I fatti sociali intesi come realtà che non
appartengono alla coscienza individuale, che la oltrepassano, che non possono essere
influenzati tanto dall’individuo, quanto da quella stessa realtà che è la società come
dimensione del sé»
11
.
Ciò implica che non si devono esaminare la struttura della psiche o le relazioni fra gli
individui, per capire quali forze leghino questi ultimi alla società, ma occorre, invece,
considerare le forme dell’organizzazione sociale in cui gli individui sono nati e le
istituzioni dove essi operano.
Lo scopo principale dell’autore rispetto al problema della devianza (termine che il
sociologo francese non adotterà mai) è quello della riconferma dell’autorità morale della
società. Durkheim ritiene che l’oggetto di studio della sociologia siano i fatti sociali.
L’obiettivo primario del sociologo è, dunque, quello di mettere in luce le relazioni
causali all’interno della società. I fatti sociali consistono in modi di agire, di pensare e di
sentire, esteriori all’individuo e dotati di un potere di coercizione per cui gli si
impongono. Questi fatti vanno considerati come cose.
Durkheim è il primo sociologo a parlare del crimine come un fenomeno normale e
persino socialmente necessario e ciò è facilmente individuabile già da un breve passo
tratto da Le Regole del metodo sociologico «Classificare il reato tra i fenomeni della
sociologia normale non significa soltanto dire che esso è un fenomeno inevitabile,
benché increscioso, dovuto all'incorreggibile cattiveria degli uomini, ma significa anche
affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società
11
G. De Leo, La devianza minorile. Il dibattito teorico, le ricerche, i nuovi modelli di trattamento.
Carocci, Roma, 1999, p. 118.
13
sana»
12
. Per il sociologo francese non solo è inconcepibile un’organizzazione della vita
collettiva senza la presenza di manifestazioni devianti, ma la devianza svolge delle
funzioni positive perché rafforza la struttura normativa nella coscienza collettiva: il
criminale collega e mantiene più unite tra loro le persone normali che si ritrovano
concordi nel condannare il reo e che confermano così il loro senso della realtà
comunitaria come orientamento giusto. Punto centrale e oggetto di generale consenso tra
i sociologi, è proprio l’idea di Durkheim, che la deviazione sia implicita nella società e,
indipendentemente dalla misura della rettitudine morale, è un fenomeno che continua a
verificarsi. Il miglioramento morale di una cittadinanza non diminuisce di per sé la
deviazione, poiché proprio l’elevazione morale motiva standard di condotta nuovi e più
esigenti. Poiché la deviazione è una caratteristica comune della società, in quanto insita
nell’organizzazione sociale e morale, non necessita di giustificazioni particolari.
Allontanarsi da un sentiero deve essere considerato non meno comprensibile né meno
sconcertante che percorrerlo. Dato il carattere morale della vita sociale, entrambi questi
atti si verificano naturalmente e in questa prospettiva possono essere studiati e mediati
dai sociologi.
12
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità, Milano, 1963, p. 23.
14
1.2. - Differenti approcci teorici
Sulle basi poste da Durkheim prendono avvio differenti approcci teorici adottati
dalle successive generazioni di studiosi.
Punto comune di partenza è la condivisione dell’idea che la natura umana sia forgiabile e
che, di conseguenza, la personalità dell’individuo e le sue inclinazioni comportamentali
siano delle costruzioni sociali. Ciò che differenzia gli approcci teorici successivi sono le
varie interpretazioni e soluzioni su come la società produca la devianza.
Per ricostruire una definizione diacronica del concetto di devianza sono state prese in
considerazione alcune linee d’orientamento generale. Analizzando i manuali di
sociologia della devianza si sono prospettati due percorsi: quello d’analizzare le diverse
teorie in ordine cronologico oppure scegliere un criterio d’analisi utile ai fini di tale
studio. Il focus d’interesse si concentra sulla comprensione di quelle ipotesi in grado di
spiegare le disfunzioni e le anomalie nel processo di socializzazione dei propri membri:
ovvero di quel processo che conduce l’attore sociale ad interiorizzare le regole ed i
valori vigenti in una determinata società. Filo conduttore di tale disamina sono, dunque,
le risposte e le relative teorie sviluppate nel corso del tempo rispetto a
quest’interrogativo. Come primo aspetto è interessante analizzare tutta quella tradizione
teorica che considera la devianza dal punto di vista dell’ordine sociale, un ordine sociale
che deve essere mantenuto e conservato eliminando ogni forma di devianza considerata
come un comportamento sbagliato ai fini del benessere della società. A queste teorie si
contrappongono quelle elaborate nell’ottica marxista che invece vedono i devianti
coinvolti in una lotta contro un ordine sociale oppressivo.
15
Tale scelta ha come obiettivo quello di restringere il focus d’interesse sull’elaborazione e
sui cambiamenti del pensiero scientifico rispetto al problema della socializzazione e
delle sue disfunzioni. Emergono, da un punto di vista teorico differenti ipotesi sul modo
in cui la società può fallire nella corretta socializzazione dei suoi membri. Alcune forme
dell’organizzazione sociale non trasmettono all’individuo modelli di moralità in grado di
orientare il comportamento del deviante. In caso contrario, può essere la società stessa
che a volte fornisce all’individuo dei modelli di moralità che non sono quelli corretti
oppure fornisce per tutti lo stesso modello, ma impedisce ad alcuni di loro di
comportarsi in conformità ad esso. Infine può esserci qualcosa nel modello di moralità
dominante che scatena il comportamento deviante.
1.3. - La Scuola di Chicago
È solo all’inizio del XX secolo, e precisamente all’Università Statale di Chicago,
che inizia il lavoro scientifico vero e proprio sulla relazione tra fattori sociali e
delinquenza. Un gruppo di sociologi inaugura un’analisi teorica ed empirica i cui
risultati hanno esercitato una profonda influenza sugli studi successivi; da quelli più
propriamente urbanistici ed ecologici, a quelli demografici, passando per studi sulle
subculture, sino agli stili di vita deviante.
Una premessa sulla condizione storico-sociale americana d’inizio secolo è d’obbligo per
comprendere la base di partenza dell’analisi sociologica degli studiosi della Scuola di
Chicago. Negli anni Venti ed in quelli immediatamente successivi la crescita
brutalmente rapida delle città rappresenta per gli Stati Uniti d’America un problema
sociale e politico d’estrema importanza. La grande città diventa il punto di arrivo
agognato di un flusso migratorio di vasta consistenza proveniente dall’Europa ma anche
16
dalle piccole città e dalle zone rurali americane. La città di Chicago degli anni Venti
diventa, così, il laboratorio ideale di ricerca per chi si occupa dei fenomeni di patologia
urbana. La disoccupazione, la mancanza d’alloggio, il vizio, il crimine e la devianza
caratterizzano la vita di questi giganteschi agglomerati di folle inquiete ed in continuo
movimento. Il primo lavoro del gruppo di Chicago s’intitola proprio La città ed è
firmato da Park, Burgess e McKenzie
13
. Da quel lavoro traspare un dato di fatto: i
legami che tengono unito il gruppo primario e che nella piccola comunità sono
consolidati, si perdono nella grande città. L'allentarsi dei vincoli sociali e l'indebolirsi
dell'influenza dei gruppi primari incoraggia l'aumento della disorganizzazione sociale,
della devianza e del crimine che non solo s’intensificano, ma acquistano una
connotazione marcatamente urbana. Scrive Park «La natura generale di questi
mutamenti è indicata dal fatto che lo sviluppo delle città è stato accompagnato dalla
sostituzione di relazioni indirette e 'secondarie' alle relazioni dirette, immediate e
'primarie' nelle associazioni degli individui nella comunità(...). Sotto le influenze
disgregatrici della vita cittadina, la maggior parte delle nostre istituzioni tradizionali - la
chiesa, la scuola e la famiglia - si sono notevolmente modificate»
14
. Si tratta, per l’epoca,
di tesi abbastanza nuove, ma la grande originalità è rappresentata dal tipo di indagine
svolta. Il gruppo di Chicago propone un modello d’indagine delle aree urbane di tipo
ecologico. Ritenendo che il comportamento assuma determinate regolarità entro precisi
limiti o aree naturali caratterizzate da una popolazione simile per razza, occupazione e
reddito, gli studiosi della Scuola di Chicago, analizzano le aree naturali servendosi
d’analogie con la botanica i cui concetti ricorrenti sono, infatti, quelli di simbiosi e
d’equilibrio biologico. La vita delle grandi città viene immaginata, dal gruppo di
13
R.E. Park, R.D. McKenzie, E.W. Burgess, The City, Chicago, University of Chicago Press, 1925.
14
R.E. Park, R.D. McKenzie, E.W. Burgess, op. cit., pp. 24-25.
17
Chicago, come un processo di simbiosi nel quale diverse specie di organismi, gli
individui, convivono senza effettivamente interagire tra loro, ma tendono a raggrupparsi
in aree che per le caratteristiche di isolamento svolgono su di loro un processo di
omogeneizzazione che sfugge ad ogni controllo. I devianti e i delinquenti si concentrano
in determinate aree unicamente per motivi di opportunità.
In sintesi, si può affermare che il modello sociologico della Scuola di Chicago sottolinea
l’esistenza di un rapporto molto stretto tra criminalità e aree urbane, che si traduce, in
tali realtà cittadine, in una situazione di assenza di norme morali, quindi di devianza.
Questo aspetto, così come tutta la tradizione di ricerca della Scuola, non è soltanto un
modello teorico ma essenzialmente empirico. Per comprendere, nel profondo, la portata
rivoluzionaria della Scuola di Chicago, bisogna immaginare quanto affascinante potesse
essere il lavoro di questi ricercatori, i quali, differentemente dagli studiosi che li avevano
preceduti, si calavano negli ambienti che dovevano analizzare, cercavano i soggetti per
le storie di vita, tenevano i contatti con il campo per non perdere ogni minimo indizio
che confermasse o meno le loro ipotesi.
Possiamo concludere che la teoria della disorganizzazione sociale e l’assenza di norme
sono i nodi centrali intorno ai quali ruota la Scuola di Chicago. Anche se già Shaw e
McKay ritenevano che, nelle aree socialmente disgregate, potessero esistere modelli
normativi diversi da quello corrente, sarà Sutherland a sostenere l’esistenza di diverse
forme di consenso sociale.
Si profila, così, un deciso cambio di prospettiva rispetto allo stereotipo stesso di
devianza. Sutherland rifiuta tutte le spiegazioni incentrate sulla povertà, la disgregazione
familiare, l’abitare nel ghetto, l’insabilità mentale […]. I comportamenti devianti non
sono più confinati agli strati più bassi della popolazione, ma si riscontrano anche tra
18
persone e contesti considerati assolutamente non a rischio. Sutherland parla di teoria
dell’associazione differenziale per intendere che la devianza diviene un comportamento
appreso, che non concerne solo strati marginali e bassi della società. L’individuo, per
l’autore, è un contenitore “vuoto” che si riempie attraverso le esperienze vissute
all’interno della società; un «soggetto diventa deviante quando prendono il sopravvento
le definizioni favorevoli alla violazione»
15
.
Il cambio di prospettiva, dal punto di vista sociologico, è importante, in quanto
Sutherland ipotizza un modello fondato sulla diversità culturale. Infatti, mentre «alcune
culture valorizzano la violazione delle norme di comportamento dominante, altre,
attribuiscono importanza alla conformità ad esso. Il diventare deviante dipende dalla
quantità di vita trascorsa nell’una o nell’altra cultura»
16
. Benché la teoria
dell’associazione differenziale sia stata aspramente criticata, rimane il fatto che
Sutherland apre la strada ad una nuova prospettiva nello studio del mondo deviante,
teorizzando non più l’assenza di norme, ma l’esistenza di differenti codici normativi.
Mentre Sutherland aveva sostenuto l’esistenza di diverse culture nell’ambito della stessa
società industriale, i funzionalisti, ed in particolare Cohen, ritengono che il modello
culturale dei devianti sia in opposizione con quello dominante, in quanto creato in
contrapposizione ad esso.
15
G. Gennaro, Manuale di sociologia della devianza, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 65.
16
N. Emler, S. Reicher, Adolescenti e devianza, Il Mulino, Oxford, 1995, p. 69.