4
computer, oggi anche in un negozio di gadget o di
abbigliamento sportivo. L’accesso a questo mondo di
emozioni richiede l’acquisto di un biglietto, la sottoscrizione di
un abbonamento, ulteriori costi per la maglietta o la sciarpa
della squadra del cuore.
La mercificazione riguarda anche il versante opposto a
quello del pubblico. I calciatori si possono considerare degli
operatori dell’industria del tempo libero: la pratica calcistica,
remunerata con ingaggi miliardari, è sempre più lontana
dall’ideale eroico dell’atleta dilettante che ispirò le prime
edizioni dei Giochi Olimpici moderni.
Rifkin afferma che “in un’economia fondata
sull’accesso, il buon esito dell’impresa dipende meno dal
singolo scambio di beni e più dalla capacità di creare una
relazione commerciale a lungo termine”
4
. Quella tra il club
calcistico ed il tifoso è probabilmente il miglior esempio
possibile di una relazione di questo genere. La squadra del
cuore è per definizione l’unica cosa che sicuramente non si
cambierà mai nella vita: il tifoso è un cliente perfettamente
fidelizzato. Tale relazione tra il club/impresa e il tifoso/cliente,
tradizionalmente limitata all’ambito dello stadio, si estende
oggi sempre più oltre, fino a coinvolgere una larga parte del
tempo di vita. Come forse nessun altro genere di azienda, le
società calcistiche riescono a creare identificazione tra
impresa e cliente. Nel calcio si vince insieme: il successo di
una squadra significa anche soddisfazione e gioia per i suoi
tifosi.
Si può affermare, con le parole dell’Economist, che
“international football is a multi-billion-dollar industry”
5
.
Secondo l’economista Stefan Szymanski l’industria del calcio
4
Rifkin J., cit., pag. 8
5
The Economist, cit.
5
a livello mondiale vale 216 miliardi di dollari
6
, una cifra
astronomica se si considera che si tratta di un gioco.
Per quanto riguarda l’Italia, il giro d'affari dello sport è
valutato in 26 miliardi di Euro, con un'incidenza del 2,4% sul
Prodotto Interno Lordo ed una crescita rispetto al 1991 del
108%
7
. Secondo uno studio di Mediobanca, il calcio è la
dodicesima industria italiana, con un fatturato complessivo di
oltre 4,5 miliardi di Euro
8
.
Certamente si tratta di un’industria particolare:
“football is a crazy business all around the world”
9
. Una delle
regole fondamentali dell’economia, secondo la quale il fine
dell’impresa è realizzare un profitto, nel calcio è ancora
un’eccezione.
Eppure nell’ordinamento giuridico italiano le società di
calcio sono oggi considerate società di capitali in tutto e per
tutto. Il decreto legge n.485 del 20 settembre 1996
10
,
modificando lo stato giuridico e patrimoniale delle società di
calcio, elimina l’obbligo di reinvestimento degli utili e
introduce il fine di lucro. Nelle intenzioni del legislatore, la
possibilità di distribuire gli utili fra i soci avrebbe dovuto
favorire l’adozione di criteri manageriali nella gestione delle
società sportive.
In realtà il risultato migliore, da un punto di vista
economico, è fatto registrare da quei club che riescono a
coniugare i successi sportivi con una relativa stabilità
finanziaria (la Juventus in Italia, il Manchester United, il Real
Madrid e il Bayern Monaco in Europa). Anche in questi casi,
6
The Economist, cit.
7
stageup.com
8
Settore Tecnico della FIGC, NewsLetter n. 6, 30 gennaio 2001
9
Dichiarazione di Macri, presidente del Boca Juniors, in The Economist, cit.
10
Il D.L. 485/96 è convertito dalla legge n.586 del 18 novembre 1996, che
costituisce l’insieme di norme attualmente vigenti per la regolamentazione
dell’attività sportiva in Italia.
6
tuttavia, non si può affermare che per le società di calcio il
successo sportivo, da fine della loro attività, diventi un mezzo
per ottenere dei successi economici. È vero piuttosto il
contrario: aumentare gli introiti serve ad allestire squadre più
competitive che permettano di vincere campionati e coppe.
D’altronde – afferma un dirigente del Barcellona – “se
vinciamo un trofeo, l’intera città festeggia; se abbiamo un
attivo di bilancio, nessuno se ne interessa”
11
.
Il modello dello sport professionistico americano è in
questo senso molto lontano per il calcio. Negli Stati Uniti i
proprietari delle franchigie considerano il basket o il football o
l’hockey un’attività economica praticamente uguale alle altre;
anche il pubblico guarda allo sport essenzialmente come
spettacolo. Da entrambe le parti manca – o è comunque
diversa – la componente di tifo, di passione (e di sofferenza)
che il calcio conosce in tutti i continenti. Nel caso del calcio,
nonostante la sua crescente rilevanza economica, “the game
is less about money than about passion and national pride”
12
.
Si può al massimo parlare di un circolo virtuoso tra
successi sportivi e successi economico-finanziari: le vittorie
nelle competizioni permettono migliori risultati economici, e i
maggiori introiti consentono a loro volta nuovi investimenti,
soprattutto in calciatori, per ottenere altri successi. Questo
spiega la relativa stabilità delle gerarchie tradizionali tra i club
durante un secolo di calcio. In realtà l’attuale situazione del
calcio dimostra che il modello riguarda l’optimum più che le
situazioni concrete.
11
Dichiarazione di J. Perez Farguell, dirigente del Barcellona, in The
Economist, cit.
12
The Economist, cit.
7
Fonte: adattato da Deloitte & Touche 2000
Lo sport, e l’industria del calcio in particolare, si
collocano quindi a pieno titolo all’interno dell’Economia
dell’Intrattenimento
13
, costituendone un segmento
importante. Sono indicativi in questo senso i dati forniti dalla
SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori) relativamente
alla spesa per gli spettacoli in Italia
14
.
13
Vogel H., Entertainment Industry Economics, quinta rist., CUP, 2001
14
SIAE, Quaderno dello spettacolo in Italia 2000-2001
□ Maggiori ricavi al
botteghino
□ Maggiori introiti
televisivi
□ Maggiori entrate
commerciali
□ Maggiore spesa per
gli stipendi
□ Maggiore spesa per
il trasferimento di
giocatori
□ Maggiori
investimenti
SUCCESSI
SPORTIVI
SUCCESSI
ECONOMICO
-FINANZIARI
8
teatro/musica
20%
cinema
29%
ballo
29%
concerti
6%
sport
16%
FIGURA 1- Spesa per lo spettacolo in Italia (2001)
Fonte: SIAE, Quaderno dello spettacolo in Italia 2000-2001
Nel 2001, degli oltre 2 miliardi di euro di spesa
complessiva, 331 milioni (il 16%) sono stati utilizzati per
assistere alle manifestazioni sportive, con un incremento dello
0,6% rispetto ai 329 del 2000. Naturalmente il dato
comprende solo la spesa per biglietti ed abbonamenti, e
dunque per lo spettacolo dal vivo, non considerando invece
altre possibili spese del pubblico per lo sport (abbonamento
alla pay-tv, acquisto di materiale vario legato alla squadra…).
Disaggregando i dati relativi alla spesa per lo sport,
risulta chiaro che il calcio ha una nettissima egemonia: vale
infatti il 75% della spesa totale per le manifestazioni sportive.
9
motori
12%
basket
7%
altri sport
5%
calcio
minore
18%
calcio
profession.
58%
FIGURA 2- Spesa per lo sport in Italia (2001)
Fonte: SIAE, Quaderno dello spettacolo in Italia 2000-2001
Per il calcio professionistico (serie A, serie B, partite
internazionali) sono stati spesi oltre 190 milioni di euro, il
58% del totale dello sport, per il calcio minore (serie C,
campionati dilettantistici e giovanili) 61 milioni di euro, il
18%. A lunga distanza seguono gli altri sport: l’automobilismo
e il motociclismo, con una spesa complessiva di quasi 40
milioni di euro, e la pallacanestro, con circa 24 milioni di euro.
I dati sulla fruizione del calcio dal vivo, allo stadio, non
bastano tuttavia a spiegare la rilevanza delle cifre
dell’industria del pallone. I numeri non sarebbero gli stessi
senza la connessione dello sport con i media ed in particolare
con la televisione, che domina il tempo libero degli individui
15
.
I pubblici di tutto il mondo seguono il calcio sul piccolo
schermo, la cui offerta è andata via via crescendo; le partite
della Coppa del Mondo e le finali dei grandi tornei per club
15
Vogel H., cit.
10
sono vere e proprie cerimonie mediali
16
. D’altra parte,
società, leghe e federazioni calcistiche fanno affidamento
sugli introiti dei broadcasters per mettere in scena il gioco.
In altre parole, tra calcio e televisione si è creata una
relazione simbiotica: nessuno dei due soggetti può fare a
meno dell’altro.
Questo lavoro vuole analizzare il matrimonio
d’interesse
17
tra il calcio e la televisione dal punto di vista del
primo: l’obiettivo è mostrare come il calcio professionistico
italiano sia diventato dipendente dalla televisione, e come i
notevolissimi introiti provenienti dalle emittenti in chiaro e
dalle pay-tv abbiano paradossalmente portato l’industria del
pallone sull’orlo della bancarotta.
16
Dayan D. – Katz E., Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna,
1993.
17
Iozzia G. – Minerva L., Un matrimonio d’interesse. Sport e televisione,
Vqpt Rai, n. 75, ERI, Roma, 1986.
11
CAPITOLO 1
Il boom dei diritti televisivi
nell’era della vendita centralizzata
1.1 I numeri
FIGURA 1.1- L’escalation dei diritti tv del calcio italiano
dati in milioni di euro
Fonte: elaborazione su dati Lega Calcio
(dati non ufficiali dalla stagione 2001-02)
Pochi numeri. Per comprendere la progressiva
trasformazione del calcio italiano in industria basta osservare
i dati relativi all’escalation dei diritti televisivi avvenuta negli
ultimi venti anni. Estremamente indicativo è il confronto tra il
campionato 1980-81, che precede la svolta nel rapporto tra il
calcio e la televisione, e il torneo 1999-2000, che segue l’altra
importante svolta, quella della soggettività dei diritti: gli
0
50
100
150
200
250
300
350
400
450
500
550
80
81
81
82
82
83
83
84
84
85
85
86
86
87
87
88
88
89
89
90
90
91
91
92
92
93
93
94
94
95
95
96
96
97
97
98
98
99
99
00
00
01
01
02
02
03
03
04
chiaro criptato (collettivi) criptato (soggettivi)
12
introiti di provenienza televisiva dell’intero calcio
professionistico italiano (serie A e serie B) passano da 1 ad
oltre 500 milioni di euro.
La crescita avviene a tappe, ogni tre anni, in
coincidenza con la firma dei nuovi contratti tra la Lega Calcio
e le emittenti televisive. Fino al 1993 solo la Rai trasmette il
campionato; tuttavia, per effetto dell’affacciarsi e del
consolidarsi della concorrenza, i successivi rinnovi contrattuali
consentono al calcio di incassare per ogni nuovo triennio circa
il doppio di quello precedente. A partire dal 1993-94
l’incremento del valore dei diritti in chiaro è più contenuto in
termini percentuali, ma ancora notevole, mentre dal 1999-
2000 si registra un decremento.
A diminuire il valore dei diritti in chiaro è la crescente
importanza di quelli criptati: la pay-tv, dal 1993, e la pay-
per-view, dal 1996, sono la nuova ricchezza del calcio. La
“regola” del raddoppio degli introiti da un triennio all’altro
vale ancora, permettendo di toccare la quota di 100 e poi
quella di 200 milioni di euro.
A partire dal 1999 la possibilità di contrattare
individualmente la cessione dei diritti televisivi criptati da
parte dei club consente addirittura un incremento più che
doppio: le stagioni agonistiche 1999-00, 2000-01 e 2001-02
valgono televisivamente oltre 500 milioni di euro ciascuna.
All’improvviso c’è un’inversione di tendenza. Dopo la
lieve flessione del 2001-02, gli ultimi due anni fanno
registrare una consistente diminuzione delle entrate, che
rimangono comunque notevoli.
Con questi numeri, è facile comprendere come i diritti
televisivi siano diventati la principale fonte di ricavi per le
società calcistiche. La dipendenza economica del calcio
professionistico dalla televisione è tale che la stessa
organizzazione di campionati e coppe è sempre più vincolata
alle esigenze dei palinsesti, anche a discapito dei tradizionali
principi sportivi. Eppure non è sempre stato così.