3
INTRODUZIONE
Il 31 ottobre 1926, durante le manifestazioni per il quarto anniversario
della rivoluzione fascista, un colpo di pistola partì verso l’auto con a
bordo Mussolini. Il Duce rimase illeso e la reazione della folla si scatenò
contro un giovane di soli quindici anni, di nome Anteo Zamboni. Dopo
essere stato colpito da numerose pugnalate e picchiato selvaggiamente, il
corpo esanime fu abbandonato in strada e qualcuno propose di
appenderlo a un lampione per terminare il massacro. Il cadavere fu
portato in questura e riconosciuto nella tarda da sera dal padre Mammolo
Zamboni. Le conseguenze dell’attentato si riversarono immediatamente
nella vita politica: per Mussolini fu il pretesto per emanare le “leggi
fascistissime”, che segnarono il passaggio alla dittatura fascista vera e
propria.
Le indagini della polizia non portarono a una soluzione definitiva del
caso e le testimonianze contrastavano anche sull’identità del possibile
sparatore. Tuttavia, la teoria portata avanti era quella di un complotto che
vedeva interessata la famiglia di Anteo, con quest’ultimo esecutore
finale. Un ragazzo di quell’età non avrebbe potuto organizzare da solo
l’attentato e, per via del loro passato anarchico, i familiari
corrispondevano al profilo di possibili complici. Le altre piste, come
quella di un fantomatico complotto interno al partito fascista, furono
abbandonate.
Dal momento dell’attentato iniziò l’odissea della famiglia Zamboni. Le
due fasi istruttorie portarono inizialmente all’assoluzione e poi all’accusa
contro Ludovico, fratello di Anteo, di aver anch’egli sparato al Duce.
Con lui furono incriminati anche il padre Mammolo e la zia Virginia,
4
condannati a trenta anni di reclusione dal Tribunale Speciale nel
settembre 1928, mentre Ludovico riuscì a provare la sua innocenza.
Solamente nel dicembre 1932 la famiglia si poté riunire e tentare a fatica
di ricominciare a vivere, col desiderio sempre vivo di vedere riconosciuta
la propria innocenza.
Questo lavoro si propone di fornire una ricostruzione storica degli eventi,
a partire dal giorno stesso dell’attentato. Si farà riferimento a tutte le
indagini seguite dalla polizia, in modo da poter offrire una disamina
completa dell’andamento dei fatti di uno dei casi più misteriosi e
controversi della storia italiana.
Le fonti utilizzate sono soprattutto quelle reperite nell’Archivio Centrale
di Stato a Roma, in cui sono presenti tutti i documenti relativi al caso
Zamboni. Nel primo capitolo si ricorderanno i tre attentati contro
Mussolini perpetrati nell’anno precedente a quello di Anteo Zamboni e
verranno ricostruite le fasi concitate dopo lo sparo, fino a trattare delle
conseguenze che l’attentato ebbe nella vita politica italiana. Il secondo
capitolo tratterà delle indagini svolte dalla polizia e le varie teorie
sviluppatesi in quei mesi. Il terzo e il quarto si occuperanno
rispettivamente delle due fasi istruttorie che modificarono lo scenario
della vicenda e dell’analisi delle carte processuali. Il quinto tratterà degli
avvenimenti successivi alla condanna, con particolare riferimento alla
vicenda di spionaggio che coinvolse Assunto, l’altro fratello di Anteo,
fondamentale ai fini dell’ottenimento della grazia sovrana per Mammolo
e Virginia. Infine, il sesto capitolo farà riferimento al modo in cui alcuni
giornali dell’epoca interpretarono l’attentato, mentre le conclusioni
cercheranno di fornire un quadro delle teorie createsi nel corso degli anni
riguardo una soluzione dell’enigma.
5
LEGENDA DELLE FONTI ARCHIVISTICHE:
ACS: Archivio Centrale dello Stato di Roma.
TSDS: Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.
CPC: Casellario Politico Centrale.
POL POL: Polizia Politica, fascicoli personali.
SPD CR: Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato.
6
CAPITOLO 1
ANTEO ZAMBONI E GLI
ATTENTATI AL DUCE
1.1 I quattro attentati al Duce.
Il 31 ottobre 1926 cadeva il quarto anniversario dell’ascesa al potere di
Benito Mussolini e del Partito nazionale fascista. La cosiddetta
“Rivoluzione fascista”, iniziata il 28 ottobre di quattro anni prima,
culminò con la decisione da parte del re Vittorio Emanuele III di affidare
a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo in carica dal 30
ottobre del 1922.
Le milizie fasciste sfilarono a Roma rendendo omaggio
al Duce e al re Vittorio Emanuele III, finché Mussolini decise la
smobilitazione e l’avvio della normalizzazione.
Quattro anni dopo, in una domenica di fine ottobre Bologna fu scelta dal
partito fascista come sede dei festeggiamenti. Tutto era stato organizzato
nei minimi dettagli e le forze di sicurezza erano state mobilitate per
garantire il normale svolgimento delle celebrazioni. Ma avvenne
l’imprevedibile: qualcuno sparò contro Mussolini, attentando alla sua
vita e scatenando la reazione della folla. L’attentatore venne subito
linciato e ucciso in maniera efferata. Venne poi identificato in Anteo
Zamboni, un giovane quindicenne di famiglia anarchica. Le ragioni che
lo spinsero a tale gesto non furono mai pienamente chiarite, come non fu
accertato con sicurezza che l’autore del gesto eversivo fosse proprio il
giovane bolognese.
7
Quello di Bologna fu l’ultimo di quattro tentativi di assassinio del Duce
in dodici mesi. Il primo fu quello progettato da Tito Zaniboni, in
collaborazione con il generale Luigi Capello il 4 novembre 1925.
Zaniboni fu socialista, massone e antifascista. Si oppose all’intervento
italiano nella Prima Guerra Mondiale, ma fu costretto comunque a
parteciparvi, ottenendo diverse onorificenze per il comportamento
valoroso in battaglia. Nel 1922 fu deputato del Partito Socialista
Unitario. Zaniboni avrebbe dovuto uccidere Mussolini, sparando con un
fucile sistemato in una finestra dell’Hotel Dragoni, mentre il Duce
parlava alla folla dal balcone d’angolo di Palazzo Chigi
1
. Ma le forze di
sicurezza sventarono l’attentato pochi istanti prima che si potesse
compiere. Fu un certo Carlo Quaglia, cui Zaniboni aveva confidato il suo
progetto, a informare la polizia, che prima sorvegliò il deputato e poi lo
arrestò proprio all’interno dell’hotel Dragoni, dove venne ritrovato anche
il fucile. Il giorno seguente, la polizia arrestò anche il generale Capello,
pronto a fuggire in Francia. Il Pubblico Ministero chiese la fucilazione
sia per lui che per il generale suo complice. In realtà Zaniboni venne
condannato nel 1927 a venticinque anni di reclusione con l’accusa di alto
tradimento, pena poi commutata nel confino a Ponza. L’8 settembre
1943 fu liberato dal carcere e rifiutò l’invito di Badoglio a entrare nel
nuovo governo. Morì a Roma il 27 dicembre 1960 e il comune
Monzambano, sua città natale, gli ha dedicato una piazza. Le
conseguenze dell’attentato fallito furono immediate e si riversarono
contro il Partito Socialista Unitario e contro la loggia massonica, dopo
che ne venne appurata l’appartenenza da parte di Zaniboni: il Pnf chiese
lo scioglimento del partito e la chiusura di tutte le logge massoniche in
Italia. Per il Duce fu in ogni caso la prima occasione per estendere il
proprio potere e per colpire ancora una volta gli oppositori. «Il Corriere
1
G.Candeloro, Storia dell’Italia Moderna vol.9: Il Fascismo e le sue guerre (1922-
1939), Milano, Feltrinelli, 2002, p.131.
8
della Sera» e «La Stampa», che avevano assunto in seguito al delitto
Matteotti un atteggiamento ostile al fascismo, furono costretti a cambiare
la linea politica, iniziando un processo di fascistizzazione che col passare
degli anni interessò tutta la stampa italiana. Inoltre, un ulteriore colpo
all’antifascismo venne sferrato nel corso del processo contro i sospettati
esecutori del delitto Matteotti: Giorgio Candeloro riporta come Filippelli,
Marinelli e Rossi furono considerati mandanti del sequestro ma non
dell’assassinio e vennero prosciolti in istruttoria per intervenuta amnistia;
Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio
preterintenzionale a cinque anni, undici mesi e venti giorni di carcere, di
cui quattro anni condonati per l’amnistia concessa nel 1925
2
.
In questo clima politico ebbe luogo il secondo attentato: pochi giorni
dopo la sentenza sul delitto Matteotti, un’anziana aristocratica inglese,
Violet Gibson, sparò un colpo di rivoltella contro Mussolini, mentre
questi si trovava in Piazza Campidoglio, a Roma. Ferì il Duce al naso, da
cui sanguinò copiosamente per qualche istante. La polizia sottrasse la
donna v al linciaggio della folla e la arrestarono. Dalle sue dichiarazioni
contraddittorie e dalle perizie psichiatriche, gli inquirenti evinsero che
non era pienamente in grado di intendere e di volere. Per queste ragioni
pensarono che il gesto fosse isolato e non frutto di una cospirazione
antifascista, in quanto non venne identificato nessun possibile complice.
Stavolta il Capo del governo rischiò seriamente la propria incolumità,
tanto che da quel momento cominciarono a diffondersi le prime leggende
sulla invulnerabilità del Duce, corroborate anche dalle foto scattate il
giorno dopo l’attentato nella sua visita in Libia, in cui egli si mostrava
con un vistoso cerotto al naso. I giornali nei giorni successivi non
mancarono di esaltare il coraggio di Mussolini, il quale si mostrò in
pubblico, nonostante il pericolo che aveva corso e i possibili nuovi
attentati in cui sarebbe potuto incappare.
2
Ivi, p.133
9
Pochi mesi dopo, l’11 settembre 1926 avvenne un terzo attentato alla vita
del Duce. Mentre l’automobile in cui viaggiava Mussolini percorreva il
Piazzale di Porta Pia a Roma, l’anarchico Gino Lucetti lanciò contro di
essa una bomba a mano, che esplose dopo aver rimbalzato contro l’auto
causando il ferimento di otto persone, ma lasciando completamente illeso
il bersaglio principale del suo gesto. La polizia ipotizzò anche in questo
caso che si trattasse di un atto individuale o al massimo di un
ristrettissimo gruppo di persone. Una volta catturato, Lucetti dichiarò di
aver preparato il piano tutto da solo, cercando di coprire gli altri
organizzatori dell’attentato, come Errico Malatesta e Luigi Damiani, i
quali erano a conoscenza dei progetti di assassinio del Duce. Il tribunale
condannò Lucetti a trenta anni di reclusione e i suoi compagni Stefano
Vatteroni e Leandro Sorio rispettivamente a venti e diciannove anni
3
. Il
piano di Lucetti ebbe una lunga gestazione: a causa di dissidi e ripetuti
scontri con fascisti, riparò a Marsiglia, dove con altri anarchici espatriati
iniziò a progettare un possibile attentato a Mussolini. Secondo Stefano
D’Errico, che analizzò la politica anarchica del ventesimo secolo, l’idea
iniziale era quella di portare a compimento il progetto nel 1925, ma
cause di forza maggiore lo costrinsero a rinviare il tutto nel 1926: rientrò
clandestinamente in Italia nel maggio di quell’anno e pochi mesi dopo
attuò il piano fallimentare
4
. Venne liberato dagli Alleati l’11 settembre
1943, ma morì solamente sei giorni dopo a Napoli, durante l’insurrezione
della città, in seguito a un bombardamento nazista nell’isola di Ischia.
Il terzo attentato ebbe come naturale conseguenza quella di glorificare
ulteriormente il Duce e la sua capacità di salvarsi dai tentati agguati ai
suoi danni, rendendo ancora più sacrali l’immagine e l’aura del Capo del
governo. Inoltre, il regime approfittò dell’occasione di servirsi degli
3
S. D’Errico, Anarchismo e Politica: nel problemismo e nella critica all’anarchismo nel
ventesimo secolo, il “programma minimo” dei libertari del terzo millennio, Milano,
Mimemis Edizioni, 2007, p.238.
4
Ibidem.
10
attentati per diffondere la paura di ciò che sarebbe potuto accadere in
caso di morte di Mussolini, evento che avrebbe gettato l’Italia nel caos,
determinando la fine dell’ordine. Già nel suo discorso alla folla, poche
ore dopo l’attentato di Lucetti, egli disse:
«Bisogna applicare altre misure e questo dico non per me. Perché
io amo vivere realmente in pericolo. Ma la Nazione, la Nazione
italiana che strenuamente lavora… non può essere, non deve
essere periodicamente turbata da un gruppo di criminali…
intendiamo frenare la serie degli attentati ricorrendo anche
all’applicazione della pena capitale. Così diventerà sempre meno
comodo mettere quasi in pericolo l’esistenza del regime e la
tranquillità del popolo italiano»
5
Mussolini evidenziò il proprio carattere eroico e la stretta connessione
esistente tra lui e la nazione, tanto da identificarsi con essa, insinuando
un possibile nuovo periodo di caos, in caso di successo di un nuovo
attentato. In tal senso cita la possibilità di ricorrere alla pena di morte
contro coloro che si fossero resi protagonisti di atti eversivi e violenti
contro di lui.
Il primo caso di “pena di morte” venne applicato circa un mese e mezzo
dopo le sue dichiarazioni successive all’attentato fallito di Gino Lucetti.
Ma fu una pena inflitta senza un processo e senza prove evidenti: la
vittima fu Anteo Zamboni, protagonista del quarto e ultimo attentato a
Mussolini in quei dodici mesi, che fornirono il pretesto per dare una forte
sterzata verso un regime di tipo dittatoriale.
5
S.Falasca Zamponi, Lo Spettacolo del Fascismo, Roma, Rubbettino Editore, 2003,
p.125.
11
1.2 L’attentato di Anteo Zamboni e il linciaggio.
L’8 Ottobre 1926 il Pnf scelse Bologna come sede per i festeggiamenti
per il quarto anniversario della “Rivoluzione Fascista”. A partire da
quella data, gli organi addetti all’organizzazione si mobilitarono per
rendere l’evento memorabile, garantendo parimenti la sicurezza del
Duce. Gli attentati avvenuti a partire dal novembre del ’25 avevano
manifestato, pur nel loro fallimento, la concreta possibilità che
l’incolumità di Mussolini potesse essere messa a serio rischio attraverso
azioni sovversive di gruppi di dissidenti o di singoli attentatori. Pertanto,
accanto alla preparazione della città all’evento mediante maestose opere
di abbellimento e l’edificazione di nuove costruzioni, la macchina
organizzativa si mosse affinché venisse garantita la massima sicurezza
col dispiegamento di massicci contingenti militari e della polizia. In una
ventina di giorni fu costruita una monumentale fontana, ornata con aiuole
e fiori nel piazzale presso la stazione, in cui Mussolini sarebbe arrivato e
furono accelerati i lavori di costruzione del “Littoriale”, il più grande
stadio dell’epoca, in modo che potesse essere inaugurato alla presenza
del Duce. Le misure di sicurezza furono di grande rilevanza: vennero
mobilitati 3900 uomini dell’esercito, 3050 della milizia, 500 carabinieri e
350 agenti della Polizia di Stato. In totale, circa 8000 uomini erano
dislocati per le vie in cui sarebbe dovuto passare il Duce. Solamente nel
tratto iniziale di via Indipendenza fino all’angolo con via Altabella erano
presenti 600 soldati, 50 carabinieri e 50 agenti al comando del
commissario Arnetta. Inoltre, il Pnf organizzò direttamente un servizio
d’ordine con scorta personale al seguito del Duce, pattuglianti cittadini,
12
varie milizie e volontari
6
. A causa del timore di un nuovo attentato, la
Questura di Bologna dispose il fermo preventivo di tutti gli individui
potenzialmente pericolosi, capaci di organizzare attività sovversive ai
danni dello Stato, tanto che il carcere di San Giovanni in Monte si riempì
completamente
7
. Il timore di un attentato aleggiava anche nella folla
festante. Alcuni cittadini, memori dei recenti tentativi di assassinio del
Capo del governo (l’ultimo risaliva solo al mese precedente), invocavano
la pena di morte per gli attentatori. Addirittura circolava per la città una
sorta di carretto in stile carnevalesco, dotato di un manichino impiccato
con accanto quattro cartelli, che riportavano i nomi di Gino Lucetti,
Violet Gibson, Tito Zaniboni e Luigi Capello.
La sera di domenica 31 ottobre 1926 i festeggiamenti stavano volgendo
alla conclusione, senza particolari intoppi o allarmi di alcun genere.
Mussolini stava terminando il suo giro per la città a bordo di un’Alfa
Romeo rossa. Dopo aver superato via Indipendenza e aver raggiunto il
“Canton dei fiori”, un colpo di pistola lo sfiorò trapassando il bavero
della sua uniforme e la fascia dell’Ordine mauriziano. Mussolini,
sorpreso dallo sparo, ma anche stavolta illeso, rassicurò immediatamente
gli ufficiali vicino a lui sulle sue condizioni.
Ci furono momenti di estrema confusione e in pochissimi attimi lo
sparatore fu bloccato da diversi cittadini e ufficiali, tanto che poco tempo
dopo lo sparo, Balbo, con in mano un pugnale insanguinato si rivolse al
Duce gridando che era stata fatta giustizia. Subito dopo, l’Alfa Romeo
ripartì verso la stazione, com’era previsto nei piani iniziali.
Quello che avvenne all’ipotetico attentatore non è mai stato chiarito del
tutto. Di certo c’è solamente l’identità: Anteo Zamboni, un ragazzo
6
I dettagli delle misure di sicurezza prese per le festività di Bologna sono presenti in
ACS TSDS Sezione H2 Complotti - Sottofascicolo 5 - Atti trasmessi dalla dir.gen. di P.S.
Div. Affari Generali e riservati – Inserto B – Inchiesta Amministrativa.
7
B. Dalla Casa, Attentato al Duce, le molte storie del caso Zamboni, Bologna, Il
Mulino, 2000, p.13.
13
appena quindicenne di Bologna. Vi furono più versioni relative ai fatti
che accaddero immediatamente dopo lo sparo e riguardanti la sorte del
giovane Anteo. L’unico fatto inconfutabile fu la morte violenta del
ragazzo causata da innumerevoli pugnalate, colluttazioni, pugni e calci,
come riferito dai testimoni. Tuttavia, la successione dei fatti che
portarono alla sua morte rimane un mistero. Le testimonianze rilasciate
alla questura nei giorni successivi portarono gli inquirenti a supporre che
il primo ad aggredire il ragazzo fu Carlo Alberto Pasolini, il quale lo
disarmò con l’aiuto di Giovanni Vallisi, in servizio anch’egli in quella
zona della città
8
. Pasolini all’epoca dei fatti era tenente del 56°
reggimento di fanteria e incaricato alla pubblica sicurezza nella zona
della città in cui avvenne lo sparo. Altri ufficiali, tra cui Arconovaldo
Bonaccorsi e alcuni cittadini aiutarono Pasolini e Vallisi nella lotta
contro l’attentatore. Tra la folla inferocita, alcuni tentarono in ogni modo
di macchiare il proprio coltello col sangue dell’attentatore e di mostrarlo
poi come segno di vendetta compiuta al resto dei presenti. La furia
vendicativa e la violenza scatenate contro il corpo del giovane Zamboni
furono tali, che rimasero contusi e leggermente feriti anche diversi
assalitori. La descrizione della volontà di vedere il sovversivo punito con
la violenza fu portata all’esasperazione: pare che anche le donne
urlassero e inveissero contro Zamboni, incitando gli altri ad assalirlo e
colpirlo ripetutamente a morte
9
. Le donne, secondo l’immaginario e la
cultura fascista, erano portatrici di valori e caratteristiche quali la
compassione e la pietà, che in questo caso accantonarono, a causa della
gravità del gesto di Anteo Zamboni.
8
ACS TSDS Sezione H2 Complotti - Sottofascicolo 5 - Atti trasmessi dalla dir.gen. di
P.S. Div. Affari Generali e riservati – Inserto B – Inchiesta Amministrativa.
9
Riferimento presente in alcune testimonianze dei presenti all’attentato, ACS TSDS
Sezione H2 Complotti - Sottofascicolo 5 - Atti trasmessi dalla dir.gen. di P.S. Div. Affari
Generali e riservati – Inserto A – Indagini.
14
Ci furono momenti di panico anche per un altro ragazzo, inizialmente
scambiato per l’attentatore e che sfuggì alla vendetta della folla. La
rapidità d’intervento di ufficiali fascisti, quali lo stesso Pasolini, lo salvò
da un linciaggio simile a quello che toccò in sorte ad Anteo Zamboni.
Dalla descrizione e dalle testimonianze dei fatti risultò che l’accanimento
che la folla e i militi scatenarono contro Anteo Zamboni fu disumano e
privo di pietà. I presenti non si fermarono davanti alla giovane età del
ragazzo e non furono colti dal minimo dubbio di compiere un errore: una
volta che identificarono l’attentatore nel giovane, tutto avvenne in poco
tempo, non ci furono attimi di respiro e molti tra cittadini e militi,
accecati dal desiderio di vendetta e dalla voglia di partecipare al
linciaggio dell’attentatore, accorsero per poter dare il proprio violento
contributo all’esemplare punizione del ragazzo. Inizialmente furono gli
addetti alla pubblica sicurezza, a scatenarsi contro di lui: era sfuggito al
loro controllo e dovevano rimediare, vendicandosi altresì contro colui
che stava per rovinare la festa della Rivoluzione fascista e che aveva
ridicolizzato coloro che si dovevano occupare dell’incolumità del Duce.
Tra di loro ci fu anche chi cercò di portare via vivo il giovane, per
poterlo poi interrogare e risalire alle cause del suo gesto e stabilire se
avesse avuto dei complici. Ma l’eccitazione della massa, spinta dal
desiderio di scaraventarsi contro il ragazzo, rese vano ogni tentativo in
questo senso.
Il milite Impallomeni ritrovò una rivoltella vicino al luogo dell’attentato.
La sua testimonianza e quella dei militi che si trovavano con lui sono
molto utili per comprendere cosa accadde immediatamente dopo lo sparo
e come la folla fosse in preda a una totale eccitazione e desiderio di
muovere violenza contro il presunto attentatore; inoltre, le loro
testimonianze descrivono il rischio che corsero tutti i presenti di essere
assaliti e sopraffatti dalla massa inferocita. Nel suo interrogatorio egli
affermò: