INTRODUZIONE
2
questioni teoriche relative al rapporto tra letteratura e cinema e alla pratica della
trasposizione. Dopo una breve nota sulle diverse posizioni critiche rispetto al
fenomeno dell’adattamento, si è passati, seguendo la linea metodologica proposta
dalla narratologia moderna (in particolare, Chatman, 1978) - nella quale
confluiscono le idee della tradizione formalista russa (Jakobson, Propp) e quelle
dello strutturalismo francese (Genette, Todorov) – a descrivere le principali
caratteristiche comuni a tutti i testi narrativi, indipendentemente dal mezzo
espressivo che impieghino. In questo capitolo, che servirà da punto di riferimento
per l’analisi del testo letterario e di quello filmico, ci si è soffermati, in particolare,
su alcuni aspetti fondamentali come il concetto di ‘punto di vista’ e di
‘focalizzazione’, la costruzione e l’organizzazione della dimensione spazio-
temporale del racconto e il rapporto tra il testo e il suo destinatario. A questo
proposito, riproponendo le riflessioni di Bettetini (1984), si è sottolineato un aspetto
fondamentale del processo traduttivo in generale, che diventa molto problematico
nel caso della traduzione intersemiotica e, allo stesso tempo, cruciale per valutare
l’efficacia della trasposizione di un testo: dal momento che ogni testo è la
manifestazione di una strategia comunicativa complessa, la sua traduzione non potrà
limitarsi soltanto alle componenti semantiche del testo, ma dovrà riprodurre anche –
e soprattutto - le sue componenti pragmatiche. A partire dalle diverse possibilità
espressive del linguaggio cinematografico, si è visto come la traduzione
intersemiotica non possa essere considerata in termini esclusivamente tecnici, ma
coinvolga sempre e obbligatoriamente il ‘problema’ della creatività.
Il Capitolo II, “Beloved sulla pagina”, è il risultato di un’attenta lettura del
romanzo di Toni Morrison e presenta l’analisi delle principali caratteristiche
tematiche e stilistiche del testo, oltre a fornire una ‘panoramica’ delle moltissime
interpretazioni che la critica ne ha dato. Dopo alcune note sulla vita e sulla
formazione artistica dell’autrice e sulla nascita del romanzo, ci si è soffermati sulle
caratteristiche che rendono la lettura di Beloved tanto affascinante quanto
complessa. In primo luogo è stata presa in esame l’organizzazione di tempo e spazio
nel romanzo, che non segue mai una logica lineare, ma vede eventi, personaggi ed
ambienti del presente narrativo (con)fondersi costantemente sulla pagina con quelli
del passato. Si è visto, poi, come il racconto sia stato costruito attraverso la
INTRODUZIONE
3
giustapposizione di voci diverse che rendono la narrazione frammentata e
‘circolare’. A partire dall’analisi della complessa psicologia dei personaggi e della
valenza simbolica che questi, insieme ad altri elementi del romanzo, possono
assumere, sono state poi evidenziate alcune delle moltissime letture possibili del
romanzo di Morrison. Filo conduttore di tutte queste è il messaggio profondo
dell’opera, che vuole essere una sorta di ‘monumento alla memoria’ dedicato a tutte
le persone morte durante il Middle Passage, la traversata dell’Atlantico sulle navi
negriere.
Parallelamente, è stato affrontato, nel Capitolo III, “Beloved sullo schermo”,
lo studio del film di Jonathan Demme. Una prima parte, introduttiva, è stata dedicata
alla formazione del regista, al ruolo fondamentale che ha avuto la co-produttrice e
protagonista Oprah Winfrey nella realizzazione del film, e all’accoglienza (di fatto,
complessivamente piuttosto ‘tiepida’) che quest’ultimo ha ricevuto sia da parte del
pubblico che da parte della critica. In seguito, sono state prese in esame le
caratteristiche principali del testo filmico relative al suo contenuto (rapporto tra
fabula e intreccio, categorie spazio-temporali e punto di vista) e alle tecniche
espressive utilizzate per rappresentarlo (uso della luce, angolazione della macchina
da presa, tecniche di montaggio). Già da questa breve analisi è stato possibile
rendersi conto delle inevitabili modifiche che subisce un testo scritto nel corso della
sua traduzione in un testo audiovisivo, e di quali siano state le scelte effettuate da
regista e sceneggiatori nell’adattare il romanzo di Morrison per lo schermo.
Infine, il Capitolo IV, “La trasposizione di Beloved”, intende essere il punto
d’arrivo di tutto il lavoro di riflessione e di analisi condotto nei capitoli precedenti.
Un paragrafo breve – ma di fatto ‘obbligato’ – è stato dedicato al difficile rapporto
che il cinema hollywoodiano intrattiene da sempre con il mondo afroamericano. In
seguito, attraverso un ‘confronto diretto’ tra pagina letteraria e immagine
cinematografica (o meglio, fotogramma), sono stati evidenziati i principali punti di
contatto e di divergenza tra il romanzo e il film, relativi non soltanto alla materia
diegetica (tagli, modifiche, aggiunte), ma anche agli aspetti stilistici ed espressivi dei
due testi. Compito ben più arduo - occorre dirlo - è stato quello di cercare di
spiegare perché regista e sceneggiatori abbiano effettuato determinate scelte e cosa
queste ultime abbiano comportato per la relazione tra testo e lettore/spettatore.
INTRODUZIONE
4
Al fine di favorire una facile consultazione del testo filmico, in Appendice è
stato inserito uno schema (al quale si rimanda più volte nel corso dei Capitoli III e
IV), che propone la ‘segmentazione’ del film in macro e micro sequenze. Per
ognuna di queste è stata realizzata una breve descrizione del contenuto
(distinguendo le informazioni visive da quelle sonore) e delle principali tecniche di
montaggio utilizzate all’interno della sequenza e per passare da una sequenza
all’altra.
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
5
Capitolo I
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
1.0 – Nota introduttiva
In questo capitolo verranno affrontate le principali questioni teoriche relative
al fenomeno della trasposizione cinematografica. Prenderemo in esame e
confronteremo le diverse modalità narrative dei testi letterari e dei testi
cinematografici, nonché le loro possibilità espressive, in modo da offrire un quadro
metodologico rigoroso che servirà come punto di riferimento per proseguire, nei
capitoli successivi, con l’analisi del romanzo di Toni Morrison e del film di Jonathan
Demme.
1.1 – La trasposizione: esercizio di riscrittura creativa
Fin dalla sua nascita il cinema ha instaurato con le altre arti rapporti complessi
e controversi. La letteratura, in particolare, è un mondo con il quale il cinema è
entrato in stretto contatto molto presto. In quanto “macchina atta a raccontare
storie”, infatti, come afferma Carluccio (1988: 24), il cinema ha spesso trovato una
fonte d’ispirazione in storie di origine letteraria; per contro, “anche la letteratura del
nostro secolo sembra avere incontrato il cinema” (ibid.: 25) e averne subito
l’influenza, adottando tecniche narrative ed espressive ispirate a quelle della settima
CAPITOLO I
6
arte - come il montaggio o la mobilità della macchina da presa -, sconosciute al
romanzo tradizionale
1
.
La complessità del rapporto tra letteratura e cinema ha interessato e continua
ad interessare studiosi di vari settori, dalla semiotica alla narratologia,
dall’ermeneutica testuale alla teoria della traduzione. In particolare, un fenomeno
molto interessante sul quale i critici si sono soffermati per indagare a fondo il
rapporto tra le due arti è quello della trasposizione cinematografica di un testo
letterario. La trasposizione, o adattamento, è un fenomeno antico quanto il cinema e
in costante crescita: come ricorda Ross (1987: 1), il primo caso di trasposizione nella
storia del cinema risale al 1896, quando Edison filmò The Kiss a partire dal racconto
The Widow Jones. Negli anni ‘60 si stimava che circa il 40% dei film prodotti a
Hollywood fosse ispirato ad un precedente letterario, mentre alla fine degli anni ‘70
i dati confermavano che oltre il 75% degli Oscar per la categoria ‘Miglior film’
fossero stati assegnati a trasposizioni di romanzi o racconti. Attualmente, pare che
“almeno il 70% dei film (…) prodotti siano in varia misura debitori rispetto ad un
racconto letterario” (Bussi, 1996: 14).
Come spiegano Bussi (ibid.) e Peña Ardid (1992: 21-31), all’interno del
dibattito sulla trasposizione si sono venute a delineare nel tempo due ‘scuole di
pensiero’ principali e contrapposte. Da un lato vi sono coloro che si oppongono - per
motivi diversi ma con la stessa veemenza - alla pratica dell’adattamento. Fra questi,
alcuni sostengono “la generale superiorità della letteratura rispetto al suo derivato
filmico” (Bussi, 1995: 13) - ora a causa delle supposte carenze espressive del
linguaggio cinematografico, ora per le condizioni di produzione e ricezione del
cinema, che, volente o nolente, è da sempre destinato a fare i conti con il
‘portafoglio’ delle case di produzione e i gusti di un pubblico di massa (Peña Ardid,
1992: 23). Altri, rifacendosi alle parole di Igmar Bergman - “Film has nothing to do
with literature” (Ross, 1987: 1) - affermano l’assoluta impossibilità di un confronto
tra le due forme d’arte, che, in quanto basate su codici espressivi – la parola da un
lato, l’immagine dall’altro - radicalmente opposti, daranno vita ad opere
completamente diverse tra loro e per questo da considerarsi del tutto autonome e
incommensurabili (Bussi, 1996: 14).
1
Per un approfondimento sul tema dell’influenza del cinema sulla letteratura, vedi Peña Ardid, 1992.
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
7
D’altra parte, come osserva Costa (1993: 9), “pur nella riconosciuta autonomia
delle diverse espressioni, >romanzo vs film ≅, è impossibile negare il gioco di
interazioni che si stabilisce tra letteratura e cinema”. Per questo, presto hanno
iniziato a farsi sentire anche voci contrarie a quelle degli oppositori della pratica
della trasposizione. Già negli anni ‘40, il regista russo Eisenstein cercò di stabilire
dei principi di equivalenza tra varie strutture artistiche che prescindessero dalla
diversità dei loro linguaggi e arrivò ad individuare, in alcuni romanzi, equivalenti
letterari alle tecniche del montaggio cinematografico, come le dissolvenze (Peña
Ardid, 1992: 71-75). Lo studioso francese Bazin, a metà degli anni ‘50, riaccese il
dibattito sulla trasposizione sostenendo che il cinema avrebbe tratto grandi vantaggi
dall’imitazione delle altre arti – in particolare, della letteratura - , non solo attraverso
il ‘prestito’ di personaggi e temi, ma soprattutto attraverso la ricerca di una
equivalenza nei confronti del testo scritto, che l’avrebbe portato a migliorarsi per
trovare nuovi modi espressivi all’interno del proprio linguaggio. Da questo punto di
vista, adattare non significava tradire il testo letterario, bensì rispettarlo (Peña Ardid,
1992: 24).
A partire dagli anni ‘70, e secondo una tendenza ormai consolidata, sono stati
moltissimi gli studiosi che hanno sostenuto la validità della trasposizione e la
possibilità e l’utilità di un confronto tra testo letterario e testo filmico in nome della
forte vocazione narrativa e degli elementi caratteristici - categorie spazio-temporali,
focalizzazione, rappresentazione di personaggi ed eventi - da sempre condivisi dalle
due arti
2
. Questo nuovo approccio al fenomeno della trasposizione, basato sul valore
della nozione di intertestualità, come spiega McFarlane (1996: 8-10), è apparso
particolarmente efficace poiché è riuscito a sgomberare il campo dal controverso
concetto di fedeltà di un testo filmico nei confronti del suo antecedente letterario
come unico criterio di analisi e valutazione dell’adattamento. La discussione
sull’essere fedeli ‘allo spirito’ del testo piuttosto che ‘alla lettera’ per ottenere una
buona trasposizione ha dominato a lungo il discorso su questo fenomeno, ma in ogni
caso non ha risolto il fatto che il “fidelity issue” sia alquanto riduttivo, poiché “ >it ≅
depends on a notion of the text as having and rendering up to the (intelligent) reader
2
Si ricordi, a questo proposito, il prezioso contributo dato alla narratologia comparata dagli studi di
Chatman e Metz.
CAPITOLO I
8
a single, correct ‘meaning’ which the filmaker has either adhered to or in some
sense violated or tampered with” (ibid.: 8, corsivo mio).
Il fenomeno dell’adattamento riguarda da vicino anche il campo degli studi
sulla traduzione, trattandosi, secondo la definizione di Jakobson, di un caso di
“traduzione intersemiotica, o trasmutazione, >che ≅ consiste nell’interpretazione di
segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici” (1994: 57). Una serie
di riflessioni molto interessanti che scaturiscono dall’idea della trasposizione filmica
come punto d’arrivo di un processo traduttivo sono quelle proposte da Bettetini.
Secondo lo studioso, infatti, la traduzione di un testo - intersemiotica o
interlinguistica che sia - non può ridursi “a una equivalenza di enunciati, a una
ripetizione di senso organizzata dietro la superficie di significanti diversi” (Bettetini,
1984: 73). Poiché ogni testo è la manifestazione di una strategia comunicativa in cui
sono coinvolti un enunciatore e un destinatario, la sua traduzione, di conseguenza,
dovrà preoccuparsi non solo delle componenti semantiche, ma “anche delle sue
componenti pragmatiche” (ibid.). Questo aspetto diventa tanto più importante nel
caso della traduzione intersemiotica dal momento che
Quando si traduce un romanzo in un film (…) si costruisce, anche
involontariamente, una nuova strategia comunicativa, subordinata a circostanze di
consumo completamente diverse (fisicamente, fisiologicamente, percettivamente,
psichicamente, socialmente, antropologicamente) da quelle caratteristiche della
prima manifestazione discorsiva (ibid.: 73).
Bettetini conclude che per garantire “il non-tradimento di una traduzione”
occorre produrre con il testo di arrivo “una nuova macchina semiotica, che tenti di
ripetere per analogia (anche nei suoi rapporti con l’utente) il lavoro di quella da cui
si è partiti” (ibid.: 91) e che riproponga, quindi, “un soggetto enunciatore il più
possibile analogo a quello del testo di partenza” (ibid.: 90). Nel corso della sua
riflessione, lo studioso precisa una cosa: se la costruzione di equivalenze tra
l’universo discorsivo verbale e quello audiovisivo è “complessivamente possibile
nell’ambito dell’atteggiamento narrativo del soggetto dell’enunciazione” (ibid.: 83)
– per quanto riguarda ad esempio lo sviluppo della fabula, il modo narrativo
(discorso diretto, discorso indiretto libero, ecc…), i salti temporali, e così via - ben
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
9
più difficile, se non impossibile, diventa tradurre “le operazioni linguistiche messe
in atto dall’atteggiamento commentativo del soggetto dell’enunciazione” (ibid.,
corsivo mio). Di conseguenza, la traduzione intersemiotica - conclude Bettetini e,
insieme a lui, altri studiosi, come ad esempio Viganò (1996:27) - implica sempre un
lavoro di riscrittura selettiva da parte del traduttore-adattatore, e “non potrà mai
avere (…) uno specifico carattere tecnico ma, anche contro la sua volontà, è
‘condannata’ a coinvolgere sempre e necessariamente il problema della creatività”
(Viganò, 1996: 27).
1.2 – Testi scritti e testi audiovisivi a confronto
Soffermiamoci ora sulle diverse modalità espressive che caratterizzano i due
generi in questione, quello letterario e quello audiovisivo: quali mezzi di
rappresentazione e di trasmissione del messaggio vengono utilizzati in un romanzo?
Quali in un film?
Come è noto, un testo letterario e un testo filmico appartengono a due sistemi
semiotici diversi, sono cioè dotati di sistemi espressivi eterogenei. Al codice
esclusivamente linguistico della letteratura – i segni del sistema-lingua, tra di loro
omogenei -, infatti, si contrappone il codice composito e disomogeneo del cinema -
immagini, rumori, dialoghi, testi scritti e musica –, in cui ogni elemento contribuisce
alla costruzione del racconto e del suo significato.
Da questa prima, evidente differenza si può già intuire come la trasposizione
di un testo letterario in uno audiovisivo possa dare vita a numerose trasformazioni,
che spesso si rivelano molto interessanti da analizzare.
1.2.1 – Istanza narrante, punto di vista e focalizzazione
L’istanza narrante di un film è stata definita, nel corso della storia della
narratologia filmica, in molti modi : “grand imagier”, “narratore invisibile”,
“narratore implicito”, “mega-narratore”, “enunciatore”, come ricordano Rondolino e
CAPITOLO I
10
Tomasi (1995: 21). Aldilà dell’etichetta con cui si voglia identificarla, ciò che conta
è che sia stata riconosciuta nel film la presenza di un’istanza che crea e organizza il
testo, paragonabile a quella del racconto letterario e il cui lavoro, però, si articola su
due livelli: mostrare (e far sentire) e narrare.
Dal doppio ruolo, narrativo e rappresentativo, dell’istanza narrante, e dalla
pluralità dei mezzi espressivi a sua disposizione, deriva una serie di differenze tra il
testo letterario e il testo filmico per quanto riguarda il concetto di punto di vista.
Mentre nel romanzo ‘punto di vista’ rimanda all’atteggiamento dell’istanza narrante
nei confronti della materia diegetica e ha quindi un significato strettamente
metaforico, nel film questo concetto si carica anche - e soprattutto - di un significato
non metaforico, poiché diventa, letteralmente, un punto di vista ottico, cioè il luogo
in cui si trova la macchina da presa e dal quale si guarda e si mostra un certo oggetto
o personaggio (Peña Ardid, 1992: 143). Il ‘passaggio’ dal punto di vista ottico al
punto di vista cognitivo, vale a dire quello che regola la selezione e la combinazione
degli elementi della narrazione, viene realizzato sia attraverso il procedimento del
montaggio, sia attraverso le interazioni tra l’immagine e gli elementi sonori. Di
conseguenza, se la tradizione narratologica assimilava nel concetto di
‘focalizzazione’ le nozioni di ‘vedere’ (la posizione del narratore in rapporto ai fatti
narrati) e ‘sapere’ (quanto conosce il narratore rispetto ai personaggi e al lettore), nel
caso di un testo audiovisivo la situazione appare più complessa.
A questo proposito, Jost ha proposto un’efficace distinzione terminologica e
concettuale, adottando due nuovi termini, ‘ocularizzazione’ e ‘auricolarizzazione’,
per indicare in che modo le immagini e i suoni del film corrispondano alla
percezione di uno dei personaggi della diegesi o rimandino a una istanza anonima, e
conservando il termine ‘focalizzazione’ per quanto riguarda l’aspetto cognitivo del
punto di vista, aspetto che nel film si manifesterà attraverso la complessa interazione
tra il vedere/sentire e il sapere dei personaggi (che a volte potranno essere anche
narratori), dell’enunciatore e dello spettatore (Peña Ardid, 1992: 144-145). Jost
distingue poi tra ocularizzazione interna (ciò che io vedo è quello che viene visto da
un personaggio) e ocularizzazione zero (vedo qualcosa senza la mediazione dello
sguardo di un personaggio). L’ocularizzazione interna può essere primaria, nel caso
in cui le immagini “recano in sé le tracce di qualcuno che guarda” (Rondolino e
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
11
Tomasi, 1995: 44), come ad esempio quando mostrano un personaggio di spalle
mentre guarda qualcosa che anche lo spettatore può vedere, o quando presentano
una deformazione ottica che rappresenta lo sguardo annebbiato di qualcuno, come
un personaggio ubriaco o miope; oppure secondaria, quando vengono alternate
immagini che mostrano ora il personaggio che guarda, ora l’oggetto o la persona
guardati (ibid.).
Alla luce di questa revisione, Rondolino e Tomasi (ibid.: 45-48) spiegano
inoltre come la tradizionale distinzione, effettuata da Todorov e ripresa da Genette,
tra tre modelli narrativi fondamentali legati al concetto di focalizzazione (racconto a
focalizzazione zero: il narratore è onnisciente e sa più di qualsiasi personaggio;
racconto a focalizzazione interna: il narratore non fornisce più informazioni di
quelle date dal personaggio, assumendone il punto di vista; racconto a
focalizzazione esterna: il narratore dice meno di quello che sa il personaggio e non
ne fa conoscere i pensieri e i sentimenti), non sia del tutto sovrapponibile alla
classificazione dell’ocularizzazione. Un esempio significativo è quello per cui un
racconto a focalizzazione interna sembrerebbe intrattenere una relazione privilegiata
con l’ocularizzazione interna. In realtà, la focalizzazione interna nel film - come
spiega Jost e come è possibile notare nella maggior parte dei film - sarà data,
piuttosto, da un alternanza tra ocularizzazione zero (immagine del personaggio),
ocularizzazione interna secondaria (immagine di ciò che il personaggio vede) e
primaria (immagine del personaggio che vede ciò che anch’io vedo) (Carmona,
1993: 197).
Un’altra differenza tra testo letterario e testo filmico è determinata dalla
complicata interazione tra i molteplici elementi dell’espressione cinematografica,
che a volte possono generare una relazione tra ‘vedere’ e ‘sapere’ piuttosto
complessa, e certamente del tutto sconosciuta al testo letterario. Vedere o sentire, al
cinema, non significa necessariamente sapere: è il caso, ad esempio, in cui un
dialogo, una musica o una scritta sullo schermo contraddicono “l’apparente senso di
un’immagine, smentendo quindi il presunto sapere dello spettatore” (Rondolino e
Tomasi, 1995: 45).
Occorre precisare un altro aspetto del testo audiovisivo che condiziona non
poco la figura dell’enunciatore. La totale ubiquità della macchina da presa, unita
CAPITOLO I
12
all’invisibilità dell’istanza narrante cinematografica, fanno sì che quest’ultima in un
testo filmico possa apparire molto meno ‘concreta’ e percepibile rispetto a quella del
testo letterario. È innegabile il fatto che spesso, davanti allo schermo, si ha
l’impressione che il film ‘si racconti da sé’, senza che esista un’istanza enunciatrice
che guida e organizza i materiali della storia e del discorso. La situazione, in realtà,
appare ben diversa se si considera che, nella narrazione scritta, come ha spiegato
Gaudreault, l’istanza narrante, ogni volta che vuole dare la parola ai suoi personaggi
e permettere loro di narrare, deve cedere integralmente il suo posto e ‘tacere’, dato
che il mezzo espressivo – la parola – è lo stesso per entrambi i narratori (Peña Ardid,
1992: 147-148). Nel film, invece, e nonostante le apparenze, precisa Peña Ardid
(ibid.), non si verifica mai un’eclissi totale del narratore, poiché questi tende sì a
delegare la narrazione verbale del racconto a un narratore eterodiegetico (ad esempio
attraverso l’uso della voce fuori campo) o ai personaggi del film, ma rimane in ogni
caso a capo del processo narrativo “manteniéndose como auténtico responsable de
toda la narración audiovisual que ‘ilustra’ las palabras de ese narrador
intremediario” (ibid.:149). Mentre le ‘tracce’ lasciate nel testo dal narratore
letterario sono più evidenti e rivelano chiaramente la sua presenza, il narratore
cinematografico ha la possibilità di presentare fatti ed eventi restando nell’ombra,
ma non scompare mai del tutto e in ogni momento, anche se impercettibilmente,
guida lo sguardo, l’udito e l’attenzione dello spettatore.
Per quanto riguarda il modo narrativo, il cinema sembra essere naturalmente
destinato a narrare ‘in terza persona’, mentre si è sempre trovato in difficoltà nel
riprodurre la narrazione in prima persona. Un esempio interessante, citato da molti
critici a questo proposito, è il film Lady in the lake (R. Montgomery, 1947), nel
quale l’impiego costante della ripresa in soggettiva permette di vedere solo alcune
parti del corpo del protagonista-narratore della storia riflesse in uno specchio, e dove
gli altri personaggi, nel rivolgersi a lui, si rivolgono direttamente alla macchina da
presa. Questo film ha dimostrato la poca efficacia dell’uso continuo della soggettiva
per riprodurre una narrazione in prima persona, poiché
la identificación del espectador con el personaje, en unas condiciones psicológicas
similares a las de la novela, requiere una previa y repetida visualización del mismo
en la pantalla. En caso contrario el espectador se identifica, realmente, con la
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
13
cámara: no sólo acaba perdiéndose el efecto de ‘subjectividad’, sino que se rompen
las ‘normas’ de la diégesis fílmica, según las cuales el mundo de la ficción debe
‘ignorar’ al espectador (Peña Ardid, 1992: 146).
In senso stretto, la narrazione in prima persona in un film si dà soltanto sul
piano del sonoro, poiché l’immagine, nel momento in cui mostra il personaggio-
narratore in azione, trasforma necessariamente l’’io’ in un ‘lui/lei’.
Inoltre, il cinema, in genere, si è trovato di fronte ad uno scoglio anche nel
momento in cui ha cercato di riprodurre le forme utilizzate dal testo letterario per
presentare la soggettività e l’immaginazione di un personaggio (pensieri, memoria,
sogni), come il monologo interiore e il flusso di coscienza. Anche in questo caso è la
colonna sonora, attraverso i dialoghi o la voce fuori campo, lo strumento più
efficace ed immediato per la rappresentazione dell’interiorità del personaggio. In
genere, infatti, la critica ha rifiutato i ‘trucchi’ cui il cinema è ricorso per
visualizzare sogni o ricordi attraverso dissolvenze o rappresentazioni pittoriche di
mondi immaginari
3
(Peña Ardid, 1992: 176). Tuttavia, è interessante notare come
anche l’uso accurato della soggettiva o un montaggio particolarmente studiato che
alterni, ad esempio, immagini contrastanti tra loro per ambientazione spaziale o
temporale possa suggerire lo stato psicologico di un personaggio combattuto tra
passato e presente o fantasia e realtà.
1.2.2 – I personaggi e gli ambienti: la descrizione tra letteratura e cinema
Come spiega Chatman, elementi fondamentali appartenenti alla ‘storia’ (il
contenuto) di ogni forma narrativa sono, oltre agli eventi, gli esistenti, cioè i
personaggi e l’ambiente che la caratterizzano (Chatman, 1978: 26). Il sistema dei
personaggi è stato oggetto di diversi tipi di analisi all’interno delle teorie
narratologiche. A partire da Aristotele, passando per le teorie della scuola formalista
3
A questo proposito, spiega Costa, data “l’impressione irrefutabile di evidenza e di realtà”
dell’immagine, il cinema tende sempre a qualificare come tale il sogno cinematografico “attraverso
l’uso di segni di interpunzione marcati come la dissolvenza incrociata, deformazioni mediante
grandangolare o altro”. Di conseguenza, il cinema, in questi casi, “sembra costretto a denunciare una
sua costitutiva artificiosità, in quanto deve contrassegnare la natura ‘mentale’ delle immagini che
mostra” (Costa, 1993: 66-67).
CAPITOLO I
14
(Propp) e della scuola strutturalista (Todorov, Barthes), sono state molte e diverse le
posizioni sul valore e il significato più o meno importante dei personaggi rispetto
alla trama (Chatman, 1978: 108-119). Questi rimangono comunque uno degli
elementi essenziali dei testi narrativi, come conclude Chatman:
Stories only exist where both events and existents occur. There cannot be
events without existents. And though it is true that a text can have existents without
events (a portrait, a descriptive essay), non one would think of calling it a narrative
(ibid.: 113).
Secondo lo studioso, il personaggio viene ricostruito dal destinatario del testo
a partire da una serie di ‘indizi’ presenti all’interno della narrazione (ibid.: 119), che
possono definire in modo più o meno completo ed esplicito le caratteristiche fisiche
e psicologiche dei protagonisti della storia. E’ interessante soffermarsi non tanto su
quali siano queste caratteristiche, quanto osservare come, a seconda del mezzo
espressivo utilizzato, i personaggi vengano presentati diversamente in un testo
scritto e in uno audiovisivo.
Una differenza fondamentale è stata colta e descritta in modo efficace da
Bettetini:
Nel testo letterario, qualunque rappresentazione, anche la descrizione più
minuziosa di un carattere o di un oggetto, lascia sempre un ampio margine
interpretativo all’integrazione fantastica del lettore, perché si realizza per mezzo di
segni astrattamente simbolici; nel testo audiovisivo, invece, tutto si definisce in una
semiosi molto più costrittiva e direttiva, perché si manifesta per mezzo di segni
iconici fortemente motivati sia nel loro rapporto dinamico con l’oggetto, sia nella
verosimiglianza che presiede (quasi sempre) alle loro strutturazioni discorsive
(Bettetini, 1984: 79).
Il testo letterario deve necessariamente presentare gli elementi della
descrizione di un personaggio in modo lineare e successivo, prevedendo così che il
lettore faccia sempre ricorso all’immaginazione per completare il testo e creare la
sua immagine mentale del personaggio. Il testo cinematografico, in questo senso,
dispone di mezzi espressivi molto più ‘potenti’, in grado di presentare
simultaneamente, attraverso immagini e suoni, molte particolarità – fisiche e
Dalla letteratura al cinema: la trasposizione
15
psicologiche - di un personaggio. Alla forza e all’immediatezza dell’immagine
cinematografica corrisponde, però, una forte limitazione della libertà interpretativa
dello spettatore, la cui immagine mentale del personaggio coinciderà con quella di
tutti gli altri spettatori presenti in sala.
Le stesse osservazioni sono pertinenti per quanto riguarda la
rappresentazione dello spazio all’interno della narrazione. Anche in questo caso, nel
testo scritto l’enunciatore può decidere attraverso quali dettagli e in che ordine
descrivere l’ambiente, lasciando ampio spazio all’immaginazione del lettore, che
farà dello spazio letterario, a partire dalle parole, un’immagine mentale
4
.
L’immagine cinematografica, invece, presenta agli occhi dello spettatore tutti i
dettagli che compongono l’ambiente attraverso “an immediate visual synthesis”
(Chatman, 1978: 107). Inoltre, la forza iconica dell’immagine cinematografica rende
oggetti e ambienti molto più concreti e ‘letterali’ rispetto a quelli del testo letterario,
limitando ancora una volta la libertà interpretativa e il compito creativo dello
spettatore (ibid.: 96). Ancora, se nel testo scritto la ‘presenza’ dell’ambiente emerge
solo in determinati momenti – quelli dedicati alla sua descrizione -, nel testo filmico
lo spazio che fa da sfondo all’azione è sempre presente, come conclude Chatman:
“constant mobility makes cinematic story-space highly elastic without destroying
the crucial illusion that it is in fact there” (ibid.: 101).
Lo spazio del cinema presenta, inoltre, un paradosso: pur essendo “isomorfo
allo spazio senza confini del mondo”, resta comunque, come quello di qualsiasi arte,
uno spazio limitato, “chiuso entro confini determinati” (Lotman, 1979: 108). Questi
confini sono costituiti dalle dimensioni dello schermo (oltre alla sua
bidimensionalità) e dai ‘bordi’ dell’immagine. “Ma il modo di organizzare la
superficie è tale da sollecitare continuamente la finzione che sia possibile rompere
questi limiti”, afferma Lotman (ibid.: 106), che porta come esempio la tecnica della
profondità di campo dell’inquadratura, in grado di rompere la piattezza dello
schermo e creare l’illusione di tridimensionalità.
4
Lo spazio letterario non è inesistente, precisa Chatman, “but a mental construct rather than an
analogon” (Chatman, 1978: 101).