IV
combattere questa “battaglia”, sentendosi fortemente responsabili della
qualità di vita del proprio figlio.
Nel primo capitolo del presente lavoro viene data una definizione
generale di autismo, una descrizione delle basi neurobiologiche del
disturbo; vengono successivamente riportati i diversi approcci che
studiano l’autismo, le compromissioni delle aree funzionali, in particolare
le sfere che risultano maggiormente compromesse come quella della
relazione, della comunicazione e del linguaggio. Infine vengono presi in
rassegna i principali trattamenti utilizzati nell’intervento del disturbo
autistico.
Nel secondo capitolo viene messo in evidenza il tema della famiglia di
fronte alla disabilità del figlio, le risorse che vengono attivate dalla
famiglia, il momento della comunicazione della diagnosi; viene inoltre
messa in evidenza la relazione con il figlio autistico e i vissuti emotivi che
si attivano nei genitori, il rapporto di coppia in presenza di un figlio
autistico e infine viene analizzato un tipo di formazione per i genitori, il
parent training.
Nel terzo capitolo viene riportata la ricerca che è stata condotta per il
presente lavoro di tesi. Essa verte proprio sui vissuti familiari e genitoriali
in presenza di un figlio con disturbo autistico o comunque riconducibile al
quadro generale dei disturbi pervasivi dello sviluppo. L’indagine, di
carattere qualitativo, è stata effettuata mediante delle interviste
semistrutturate rivolte ai genitori, nella fattispecie alle madri.
Successivamente sono state create delle categorie qualitative che sono
state utilizzate per l’analisi dai dati e per la verifica delle ipotesi di ricerca
precedentemente formulate.
1
PRIMO CAPITOLO
L’AUTISMO INFANTILE
1.1. DEFINIZIONE DI AUTISMO
L’autismo infantile è un termine che si riferisce a un comportamento
gravemente disturbato la cui caratteristica principale è la grave incapacità
ad entrare in relazione con gli altri. Alla base dell’autismo vi è
un’alterazione neurobiologica che può essere di diversa natura da caso a
caso e che, per una parte dei soggetti, corrisponde a sindromi
neurologiche conosciute, per altri a disgenesie cerebrali di varia natura e
in altri ancora la sua ultima origine è sconosciuta (Zappella, 1996).
L’attuale definizione di autismo infantile si basa sui seguenti criteri:
a) una grave alterazione della reciprocità sociale;
b) una anomalia grave della comunicazione verbale che va dalla
completa mancanza di produzione di parole e frasi a un linguaggio
oscuro, in gran parte incomprensibile, oppure in parole e frasi
articolate in seconda o terza persona, con prosodia monotona, e spesso
in maniera ecolalica. Anche la comprensione del linguaggio altrui è
spesso alterata;
c) un repertorio comportamentale ristretto con una povertà di fantasia da
un lato e quindi, per esempio, gioco simbolico scarso o assente, e
dall’altro stereotipie motorie, povertà di interessi e un’eccessiva
insistenza a fare le stesse attività.
Il significato di questi tre gruppi di sintomi deve essere valutato in
relazione al livello generale di capacità mentali: soprattutto la reciprocità
sociale, ma anche la povertà di fantasia e di gioco simbolico, devono
2
essere nettamente inferiori alle altre abilità per esser prese in
considerazione positiva per la diagnosi di autismo. Si può seguire
l’evoluzione dei criteri diagnostici sull’autismo prendendo in esame le
varie edizioni del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders
(DSM) dal 1980 al 1994. L’American Psychiatric Association attraverso
tre edizioni (DSM III, DSM III R, DSM IV) è giunta a definire,
nell’ultima (DSM IV) i criteri diagnostici dell’autismo con maggiore
completezza e concisione.
Il primo punto, indicato come alterazioni qualitative dell’interazione
sociale, è distinto in quattro elementi ulteriori:
a) una grave alterazione nell’uso di comportamenti non verbali come lo
sguardo reciproco, le espressioni facciali, le posture corporee e i gesti
che regolano l’interazione sociale;
b) l’incapacità a formare relazioni con i coetanei in maniera adeguata al
livello mentale;
c) un’incapacità a condividere interessi e momenti gioiosi con gli altri;
d) una mancanza di reciprocità sociale o emozionale.
Il secondo riguarda alterazioni qualitative nella comunicazione ed è
suddiviso in:
a) ritardo o assenza del linguaggio verbale (non compensato da gesti o
espressioni mimiche);
b) grave alterazione nella capacità di iniziare o sostenere una
conversazione (nei soggetti con linguaggio adeguato);
c) uso ripetitivo o stereotipato della conversazione;
d) mancanza di giochi spontanei di finzione e di iniziative sociali di gioco
adeguate all’età mentale.
3
Il terzo si riferisce a comportamenti, interessi, attività ripetitive, ristrette e
stereotipie come:
a) un’intensità o una focalizzazione esagerata su uno o più schemi di
interessi ristretti;
b) un insistere su rituali o routines non funzionali;
c) manierismi motori ripetitivi;
d) preoccupazione persistente con parti di oggetti.
Per la diagnosi di autismo si richiedono almeno due elementi della prima
categoria, uno della seconda e uno della terza: almeno sei in tutto. A
questo si aggiunge una anomalia della funzione di almeno una di queste
tre aree prima dei tre anni. Molto simile è la recente definizione di
autismo fornita dall’ICD 10 (1995) che parla, inoltre, di autismo atipico e
di sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo. Nel caso in cui i
sintomi dell’autismo siano presenti in maniera incompleta o atipica il
DSM IV parla di disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti
specificati (compreso l’autismo atipico). Il concetto di pervasività che
sottende questa dizione è stato criticato da numerosi studiosi europei e
nordamericani, in quanto il termine “pervasivo” implica la particolare
estensione di un processo e non è adeguato a definire un’intera categoria
di soggetti, diversi dei quali hanno notevoli abilità nei vari settori; come
ad esempio i soggetti autistici con QI che è vicino alla norma o rientra in
questa (Zappella, 1996).
La storia del pensiero psichiatrico nei riguardi della definizione del
concetto di autismo ha inizio con Kanner, un austriaco che lavorava negli
Stati Uniti ed era direttore del reparto di Psichiatria infantile dell’ospedale
John Hopkins di Baltimora, fu il primo a dare una descrizione estesa di
questa condizione in un articolo (1943), rimasto classico, su 11 bambini, 9
maschi e 2 femmine. I gruppi di sintomi sui quali concentrò l’attenzione
4
furono: l’incapacità ad entrare in rapporto con persone e situazioni e
l’estrema solitudine del bambino, le alterazioni tipiche del linguaggio e
l’insistenza a fare le stesse cose. Fu colpito dal fatto che alcuni di questi
bambini presentavano delle isole di capacità avanzate che contrastavano
con un generale ritardo. Nell’ultima parte del suo articolo descrisse i
genitori come freddi ed eccessivamente intellettuali, ma concluse alla fine
che la natura di questa condizione era probabilmente congenita, «un
disturbo innato del contatto affettivo»: queste due ipotesi sono state poi
seguite per lungo tempo da atteggiamenti contrastanti fra i sostenitori di
una base organica dell’autismo e coloro che invece ritenevano che questo
disturbo fosse di natura relazionale. Comunque va tenuto presente che,
oltre ai limiti di ogni prima descrizione, all’epoca di Kanner non vi era
quasi nessuno degli esami di laboratorio che oggi sono disponibili per lo
studio di soggetti con alterazione del cervello (EEG, neuroimmagini, studi
del metabolismo dei cromosomi, dei neurotrasmettitori). Le sue
considerazioni sulla ipotetica freddezza e sulla classe sociale dei genitori
sono oggi considerate superate. Ciò che, invece, rimane tuttora un
importante punto di riferimento è la descrizione comportamentale fornita
da questo studioso, che è stata successivamente raffinata, ha subito
qualche aggiunta, ma nella sostanza mantiene tuttora la sua validità. Tre
decenni più tardi Rutter (1978) propose quattro punti come centrali nella
definizione di autismo: 1) l’età di inizio entro i primi 30 mesi di età; 2)
una grave alterazione dello sviluppo sociale; 3) un linguaggio ritardato e
alterato; 4) una insistenza a fare le stesse cose. Un anno dopo Wing e
Gould (1979) suggerivano che alla base dell’autismo vi era una “triade” di
difficoltà: a livello sociale, di comunicazione e di immaginazione. Di qui
si è giunti all’attuale definizione di Frith (1989) che coincide con quella
precedente di Gillberg e Coleman (1992) e che sottolinea i seguenti tre
5
punti: 1) alterazione qualitativa nella reciprocità sociale; 2) alterazione
qualitativa nella comunicazione verbale e non-verbale, oltre che
nell’immaginazione; 3) un repertorio ristretto di attività e di interessi.
Attualmente vi è la tendenza ad abbandonare come artificiale la
distinzione di Rutter dei primi 30 mesi di vita come epoca d’inizio.
La natura e la cura dell’autismo sono state oggetto in questi cinquant’anni
di aspre polemiche che, se da una parte si sono rivelate poco fruttuose ai
fini del miglioramento delle conoscenze di questa condizione, dall’altra
hanno sicuramente contribuito alla revisione dei contributi pionieristici
sull’autismo. Infatti, originariamente, nell’immaginario comune e nella
comunità scientifica, l’autismo era considerato un male incurabile di
origine psichica che annullava le capacità di relazioni sociali e di
comprensione delle persone colpite. I soggetti autistici sono stati
considerati come delle «fortezze vuote» (Bettelheim, 1967), persone
chiuse al mondo, che rifiutano ogni contatto sociale e che vivono in un
mondo assolutamente loro al punto da non cogliere e percepire ciò che
avviene nella realtà circostante. Le conoscenze sull’autismo sono
decisamente cambiate e si sono modificate nel corso di questi ultimi
decenni. L’origine psichica della malattia è stata messa in discussione e
sono state formulate ipotesi di studio che pongono l’accento sulle cause
organiche dell’autismo. Tale ampliamento di conoscenze ha contribuito
ad aprire linee di ricerca relative al trattamento che non fossero legate solo
alla terapia psicoanalitica; ciò ha sollevato i genitori dai sensi di colpa
vissuti negli anni precedenti e di conseguenza ha reso loro più facile la
relazione con i propri figli autistici. Grazie alle testimonianze di soggetti
autistici ad alto funzionamento, sono state sfatate le credenze quali la
voglia di essere chiusi in se stessi, l’incapacità di provare emozioni e
sensazioni. Le ricerche e le osservazioni sull’autismo hanno permesso di
6
capire come in ogni soggetto autistico esista un mondo interno di pensieri
e di sentimenti estremamente vivo, ma spesso confuso e difficile da
rivelare e comprendere (Venuti, 2003).
1.2. BASI NEUROBIOLOGICHE DELL’AUTISMO
L’autismo è attualmente definito un disturbo neurologico nello sviluppo
del cervello, cioè un disordine nel modo in cui il cervello si evolve; ciò
causa disfunzioni successive nell’elaborazione delle informazioni, nella
regolazione delle funzioni vitali e nell’integrazione dei comportamenti
(Venuti, 2003).
Le ricerche di Aitken e Trevarthen (1997) hanno messo in luce la
presenza di una disfunzionalità nella formazione reticolare, cioè in
quell’ampia rete di neuroni, situata nel tronco encefalico, che riceve gli
imput sensoriali e serve alla regolazione e all’equilibrio delle attività del
Sistema nervoso centrale e ai cambiamenti di stati fisiologici e
psicologici. Questa area è chiamata dagli autori Formazione intrinseca
motivazionale (Aitken, Trevarthen, 1997). Nel tronco encefalico hanno
sede vari sistemi regolatori automatici. I sistemi afferenti al tronco
cerebrale includono il meccanismo senso-motorio per l’orientamento
selettivo, la localizzazione dell’ambiente, i pattern di routine
comportamentali-adattive e la regolazione degli imput provenienti dal
mondo esterno al cervello e i conseguenti cambiamenti interni. Questo
nucleo primitivo della mente è altamente complesso ed è costruito prima
della nascita nella comunicazione diretta chimica tra cervello e il resto del
corpo; con la nascita è necessario includere gli imput provenienti
dall’esterno e le situazioni che il soggetto man mano apprende. Il bambino
da subito possiede alcune capacità: riconoscere la madre, muoversi in un
7
ritmo condiviso con lei, imitare alcune espressioni, scambiare emozioni,
provocare emozioni e risposte affettive. L’intenzionalità espressa in
alcune azioni, la ricerca di un determinato stimolo sono regolate dal
nucleo del tronco cerebrale. La motivazione, che è attivata dalle
interconnessioni tra cellule nervose specializzate nella “formazione
reticolare”, si esprime in manifestazioni dinamiche delle emozioni e
cambiamenti di umore che, partendo dal midollo allungato, coinvolgono
la regione libica della corteccia cerebrale. Altre due zone hanno un ruolo
determinante nella comprensione delle problematiche di un bambino
autistico: il nucleo subcorticale dell’amigdala, situata nel lobo temporale,
e la corteccia cingolata, collocati nella zona interna dei lobi frontali.
Queste zone sono cruciali nello scambio tra realtà sensoriale e inizio di un
atto intelligente e le funzioni motivazionali e coordinative che
coinvolgono l’ipotalamo. L’autismo si manifesta come problema nella
regolazione di elementi sia sensori che motori dell’antico sistema di
autoregolazione. Sempre nella zona reticolare, inoltre, agiscono differenti
sostanze chimiche (i neuropeptidi e le monoamine trasmettitrici:
serotonina, dopamina, adrenalina) che hanno la capacità di cambiare gli
effetti eccitatori o inibitori nella congiunzione tra cellule nervose e
dunque di cambiare le funzioni integrative dei percorsi nervosi. Spesso
nei soggetti autistici sono state riscontrate anormalità nel funzionamento
dei neurotrasmettitori (serotonina, adrenalina). La regione del cervello
colpita dall’autismo sembra quindi essere il tronco cerebrale e le anomalie
di quest’ultimo possono originarsi soltanto durante le fasi di sviluppo
dell’embrione e precisamente durante il primo mese di vita. Nasce da qui
l’ipotesi causale che fattori genetici siano responsabili di tali anomalie, in
particolare riferendosi a geni che svolgono un ruolo di primo piano nella
8
formazione del tronco cerebrale e poi smettono di essere attivi dopo
l’inizio delle fasi dell’embriogenesi (Rodier, 2000).
Numerosi dati indicano la radice neurobiologica dell’autismo: fra questi
sono la sua frequente associazione col ritardo mentale, con l’epilessia e
con varie sindromi neurologiche. Si è riscontrata un’incidenza anche con
sindromi neurocutanee come l’Ipomelanosi di Ito, la Sclerosi tuberosa,
sindromi malformative, sindromi cromosomiche (x fragile), disturbi del
metabolismo (fenilchetonuria). E’ stata riscontrata, in alcuni casi, una
comorbidità con la sindrome di Gilles de la Tourette. Infine, studi recenti
hanno dimostrato un’alta incidenza di disturbi affettivi, soprattutto di tipo
depressivo e bipolare ma anche di tipo fobico-ossessivo, di ascendenza
soprattutto materna, nelle famiglie di soggetti che appartenevano allo
spettro autistico e che non rivelavano segni di danno neurologico.