2
INTRODUZIONE
Il consumo di bevande alcoliche costituisce un rilevante problema di salute pubblica,
responsabile del 5,3 % di tutti i decessi registrati a livello globale e del 5,5 % delle morti in
Europa. In media, sono circa 2,3 miliardi le persone che assumono alcolici nel mondo
(World Health Organization, 2018a). I danni che ne conseguono si ripercuotono non solo
su chi beve, ma anche sulle famiglie e sulla comunità in generale, a seguito di abusi,
abbandoni, comportamenti violenti, perdite di opportunità sociali, incapacità di costruire
legami affettivi e relazioni stabili, invalidità, incidenti sul lavoro e stradali.
In Italia, nel 2018, quasi 16 milioni di persone sopra gli 11 anni hanno consumato alcol
lontano dai pasti e oltre 5 milioni hanno dichiarato di aver abitualmente ecceduto nel
consumo di alcolici (Scafato et al., 2020). Questi dati, in aumento rispetto alle stime
precedenti, dimostrano ancora una volta che l’alcol è uno tra i più temibili fattori di rischio
per la salute nel nostro Paese e nel mondo.
La possibilità di invertire la tendenza all’aumento dei consumatori a rischio richiede
l’attuazione di politiche incisive di prevenzione e programmazione e la necessità di
formulare una diagnosi precoce.
La diagnosi di disturbo da uso di alcol contemplata dal DSM-5 prevede l’assunzione di
alcol in quantità maggiori o per un periodo più lungo di quanto fosse nelle intenzioni del
soggetto, con sforzi infruttuosi di ridurne l’uso nonostante le difficoltà a livello sociale e i
problemi fisici e psicologici causati o esacerbati dal bere. Il soggetto può avvertire un
desiderio intenso o irresistibile per l’alcol in qualsiasi momento e impiegare una grande
quantità di tempo per procurarselo, per usarlo o recuperare dai suoi effetti. Nei casi più
gravi si sviluppano i fenomeni della tolleranza e dell’astinenza tipici della dipendenza dalla
sostanza. Il DSM-5 non considera l’abuso e la dipendenza da alcol disturbi distinti, ma
parte di un continuum di gravità, il cui livello viene espresso in base al numero di sintomi
presentati dal soggetto.
Quando si parla di prevenzione e trattamento dell’abuso e della dipendenza dall’alcol, non
si può prescindere dal considerare il terreno da cui esse si strutturano. Questo non è
costituito esclusivamente da fattori neurobiologici e da una predisposizione genetica
dell’individuo, ma anche dalla sua storia, dalla qualità della relazione instaurata con i
caregivers nei primi anni di vita e dall’assetto psicodinamico che ne deriva.
3
Un interessante contributo all’analisi della eziopatogenesi del disturbo da uso di alcol
proviene dalla teoria dell’attaccamento. Essa non solo rappresenta un riferimento
essenziale per la comprensione dello sviluppo umano, delle relazioni oggettuali e della
personalità, ma è stata anche applicata in campo scientifico per cercare di chiarire quali
possono essere i meccanismi sottostanti l’insorgenza di varie psicopatologie, compreso il
disturbo da uso di sostanze.
Nonostante la ricerca condotta in questo ambito si sia avvalsa di strumenti eterogenei per la
valutazione dell’attaccamento, le conclusioni a cui si è giunti convergono in una unica
sintesi concettuale: la maggior parte dei soggetti alcoldipendenti mostrano una
compromissione del sistema di attaccamento. Questa si manifesta sia attraverso
l’incapacità di formare rappresentazioni mentali e di sviluppare relazioni interpersonali
sicure, sia con una marcata difficoltà nella regolazione degli affetti.
A partire dalle evidenze scientifiche che hanno dimostrato il legame esistente tra
attaccamento insicuro e disturbo da uso di alcol, Zdankiewicz-Ścigała e Ścigała (2019)
hanno delineato un percorso che conduce verso la dipendenza dalla sostanza. Secondo gli
autori, il rapporto di causalità tra attaccamento insicuro e dipendenza non è diretto, ma è
mediato da fattori reciprocamente interconnessi e interagenti tra loro: alessitimia, trauma e
dissociazione. L’attaccamento insicuro compromette lo sviluppo della capacità di
riconoscere ed esprimere le emozioni e gestire gli stati affettivi negativi e, di riflesso,
l’acquisizione della abilità di mentalizzazione dell’altro. A sua volta, l’alessitimia si pone
in stretta relazione con il trauma dell’infanzia, potendo essere una reazione alla
trascuratezza, agli abusi e ai maltrattamenti. Questi eventi infantili avversi si riscontano
frequentemente nella storia dei soggetti alcolisti. L’esposizione a esperienze traumatiche
precoci rappresenta la base da cui prendono forma i processi dissociativi utilizzati come
meccanismo di difesa dal dolore psichico. Tale modalità difensiva intensifica ulteriormente
la ricerca e l’assunzione compulsiva della sostanza, che diventa a sua volta una reazione
dissociativa che consente di regolare una emotività non mentalizzata e di placare
temporaneamente la sofferenza.
L’abuso alcolico e l’alcoldipendenza si manifestano raramente come problematiche a sé
stanti. Più spesso il disturbo da uso di alcol si presenta in comorbilità con altre
psicopatologie o rappresenta un sintomo di un disturbo di personalità, in particolare
borderline o antisociale. I disturbi da uso di alcol, antisociale e borderline condividono stili
di attaccamento disfunzionali, distorsioni della funzione di mentalizzazione e difficoltà nel
mettere in atto strategie adattive per regolare le emozioni negative. Inoltre, nei soggetti che
4
ne sono affetti è possibile riscontrare una sovrapposizione di tratti disposizionali come
l’ostilità, l’affettività negativa e la disinibizione.
Integrando il modello eziopatogenetico dell’alcoldipendenza di Zdankiewicz-Ścigała,
Ścigała (2019) con la teoria TAM per i disturbi di personalità elaborata da Karterud e
Kongerslev (2019) in seguito descritta, è possibile giungere a una comprensione più
profonda della comorbilità psicopatologica nel disturbo da uso di alcol e concludere che
anche le personalità borderline e antisociale rappresentano il punto di arrivo di un percorso
che prende il via da un attaccamento insicuro e che viene definito da specifiche variabili
psicologiche e costituzionali: trauma, deficit di mentalizzazione, disregolazione emotiva,
impulsività e propensione al rischio.
5
CAPITOLO 1 – ATTACCAMENTO E DIPENDENZA
Gli aspetti psicologici e neurobiologici delle prime interazioni con le figure di
attaccamento primarie portano alla strutturazione di un modello di attaccamento specifico
con implicazioni fondamentali sullo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale del bambino
nelle fasi successive della vita. È stato ampiamente dimostrato che l’attaccamento insicuro
è correlato con i disturbi da uso di sostanze, tra cui l’abuso e la dipendenza da alcol.
Gli individui con stili di attaccamento insicuri incontrano maggiori difficoltà nel modulare
gli stati emotivi, fronteggiare lo stress, formare e mantenere le relazioni con gli altri. In
queste circostanze, l’alcol potrebbe diventare un modo per automedicare le esigenze di
attaccamento, per regolare le emozioni, i pensieri e i comportamenti, affrontare lo stress e
sostituire le relazioni sociali o facilitare la vicinanza agli altri.
Tutti gli studi trasversali hanno confermato un legame tra attaccamento insicuro e disturbo
da uso di alcol. I risultati di studi prospettici mostrano che l'attaccamento insicuro è un
fattore di rischio per la dipendenza da sostanze, ma i pochi studi longitudinali condotti
specificamente su soggetti che hanno sviluppato una dipendenza dall’alcol non consentono
di trarre la medesima conclusione. L’eterogeneità degli strumenti di valutazione
dell’attaccamento utilizzati dai ricercatori ha portato a evidenziare differenti patterns di
attaccamento nei consumatori di alcol, mentre la carenza di confronti sistematici non
consente di giungere a conclusioni certe sulle analogie e le differenze tra patterns di
attaccamento di soggetti alcol e tossicodipendenti. In generale, i risultati supportano
l’ipotesi che l’alcol assolva a molteplici funzioni e lasciano intendere che esistono stili di
attaccamento differenti in gruppi diversi di consumatori di sostanze di abuso, suggerendo
che esistono vari percorsi di sviluppo della dipendenza.
1.1 Caratteristiche psicobiologiche dell’attaccamento insicuro
Quando si parla di attaccamento ci si riferisce a un principio psicobiologico profondamente
radicato nello sviluppo evolutivo. All’interno dello sviluppo individuale esso indica un
sistema motivazionale primario che, oltre a guidare le transazioni iniziali tra madre e
bambino, media la sintonizzazione e la regolazione affettiva. L’obiettivo dell’attaccamento
è duplice: raggiungere e mantenere un adeguato livello di vicinanza fisica con la figura di
accudimento e promuovere nel bambino lo sviluppo di un senso di sicurezza interiore.
6
Le fondamenta teoriche dell’attaccamento sono state formulate da John Bowlby (1969;
1973; 1980; 1988). In contrasto con la teoria psicoanalitica, secondo la quale il legame
emotivo con il caregiver si fonda su una motivazione secondaria, rappresentata dalla
gratificazione dei bisogni orali (Freud, 1920), Bowlby assegnò un ruolo centrale alla
tendenza biologica ed etologica del bambino a sviluppare un legame di attaccamento con
un caregiver adulto: il piccolo dell’uomo entra nel mondo già predisposto a partecipare
all’interazione sociale. I comportamenti di attaccamento fanno parte di un sistema
complesso che include il sorriso, il pianto, l’orientamento dello sguardo verso la figura di
accudimento, la locomozione. Questi comportamenti svolgono la funzione di raggiungere e
mantenere un grado accettabile di vicinanza al caregiver (Bowlby, 1969). Secondo
Bowlby, le condotte del neonato e dell’adulto si sincronizzano in un “sistema
comportamentale di attaccamento”: entrambi imparano ad aspettarsi che l’altro risponderà
al loro comportamento in un certo modo.
Le aspettative del bambino sull’abilità dimostrata dal genitore nel soddisfare i suoi bisogni
e i suoi giudizi personali sulla sua capacità di meritare l'amore del caregiver vanno a
costituire i suoi Modelli Operativi Interni (MOI - Bowlby, 1973), ossia rappresentazioni
mentali delle figure di attaccamento, di sé e delle relazioni. Questi modelli di “sé-con-
l’altro” (Liotti, 2001) consentono di organizzare percezioni, memorie e attese nei confronti
dell’attaccamento e di organizzare il comportamento in maniera coerente con queste
aspettative (Main et al., 1985). I MOI funzionano quindi come filtri cognitivi capaci di
condizionare lo sviluppo di nuove relazioni e le interpretazioni del comportamento altrui.
Essi iniziano a consolidarsi fin dall’infanzia, operano a livello inconscio e sono
sostanzialmente stabili (Bowlby, 1988; Hamilton, 2000; Weinfeld et al., 2000; Ammaniti,
Speranza, 2002). Sono quindi conservati anche da adulti ed emergono nei rapporti amorosi
(Shaver, Hazan, 1993) o nelle relazioni con i propri figli. Per mezzo dei Modelli Operativi
Interni, lo stile di attaccamento dell’infanzia non solo si traspone nella vita adulta, ma si
trasmette anche alla generazione successiva (Fonagy et al., 1991; Holmes, 1993; van
IJzendoorn, 1995).
I MOI comprendono anche componenti emozionali (Main et al., 1985). Nella prospettiva
della teoria dell’attaccamento si ritiene che all’interno della relazione tra caregiver e
bambino, quest’ultimo possa apprendere specifici stili di regolazione della propria tensione
emotiva facendo riferimento alla disponibilità emotiva e alle capacità modulatorie delle
proprie figure di accudimento (Cassidy, 1994; Sroufe, 1995). Il genitore che risponde in
modo empatico al disagio segnalato dal figlio attraverso il pianto farà sì che il bambino
7
sperimenti una diminuzione delle emozioni negative e che formi una rappresentazione
mentale della figura di attaccamento come capace di contenere gli affetti negativi e una
rappresentazione di sé come soggetto amato, capace di ottenere conforto. Questa
esperienza, oltre a ripristinare il senso di sicurezza del bambino, favorisce il
consolidamento della sua capacità di regolazione affettiva. Viceversa, il genitore che nega
lo stato di disagio del bambino o ha difficoltà a rispondervi in modo adeguato, porterà il
figlio a formare un modello operativo del caregiver come figura rifiutante e di sé come
immeritevole di cure e a sviluppare strategie alternative per ridurre l’indisponibilità del
genitore e aumentare il senso di sicurezza. In questa circostanza, il distanziamento o
l’inibizione dell’espressione emotiva possono diventare col tempo meccanismi difensivi
stabili contro l’angoscia e il dolore derivanti dalla non responsività della figura di
accudimento.
Fonagy e collaboratori (2002) hanno evidenziato che il rispecchiamento affettivo non
contingente della madre può far sì che ampie aree dell'affettività del bambino rimangano
indifferenziate e non chiaramente rappresentate nell'esperienza del Sé. Soprattutto le
reazioni non contenitive, incongruenti, inappropriatamente eccitatorie, preoccupate o
preoccupanti della madre, impediscono nel bambino lo sviluppo delle rappresentazioni di
secondo ordine (simboliche) degli stati affettivi. Tali modalità di comunicazione affettiva
materna possono agire come una "parte di sé aliena" nell'auto-organizzazione matura del
bambino e formare una disposizione affettiva che, soprattutto in situazioni relazionali
stressanti, sollecita comportamenti esternalizzanti al fine di ristabilire una precaria
coerenza del Sé.
I principali modelli di attaccamento del bambino sono stati descritti da Mary Ainsworth
(Ainsworth et al., 1978) a partire dall'osservazione del comportamento infantile durante la
Strange Situation (Ainsworth, Wittig, 1969). Si tratta di un metodo standardizzato che
prevede una serie successiva di episodi di separazione e di riunione tra caregiver e
bambino. Attraverso l'applicazione di tale procedura l'autrice è giunta a distinguere tra
attaccamento sicuro, insicuro-evitante e insicuro-ambivalente (o insicuro-resistente).
Il modello di attaccamento sicuro (B) è caratteristico dei bambini che generalmente
manifestano angoscia in risposta alla separazione dalla figura di accudimento, ma che
vengono facilmente consolati da essa al momento del ricongiungimento. In questo caso il
genitore rappresenta una “base sicura”, poiché consente al bambino di esplorare l'ambiente
sapendo di poter contare sulla sua disponibilità in caso di bisogno (Ainsworth et al., 1978).