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INTRODUZIONE.
Questo lavoro si apre con una descrizione della
situazione competitiva della nostra Penisola, mettendo in
luce quelli che sono stati e che sono oggi i punti di forza e di
debolezza economico-sociali, al fine di evidenziare la
posizione che sta assumendo nei confronti dell’Italia un
grande Paese emergente come la Cina. Un ruolo sicuramente
negativo, che sta provocando diverse cattive conseguenze e
che va affrontato quanto prima se non vogliamo che
argomenti come recessione o crisi economica occupino un
posto in cima ai nostri pensieri. Allora, un’analisi di quello
che la Cina è o sta divenendo, di quelle che sono le sue
potenzialità e le sue capacità e la minaccia che essa
rappresenta, può forse servire ad effettuare efficaci
correzioni di rotta tese ad allontanare gravi pericoli per il
nostro Paese. Poche somiglianze e molte differenze ci
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separano dalla grande Repubblica Popolare, così distante
geograficamente ma per altri versi troppo vicina.
La sorprendente crescita delle economie orientali, ed in
particolare di quella cinese, con le sue conseguenze
destabilizzanti sul resto del pianeta, è stato il motivo
principale che mi ha indotto alla stesura di questo lavoro. Il
ruolo che oggi sta ricoprendo la Cina, può quasi essere
paragonato a quello che svolse diversi anni fa l’America, la
quale fu protagonista di una crescita senza precedenti,
arrivando a dominare l’intera economia mondiale. Entro
qualche tempo, la Cina potrà arrivare a costituire un terzo
polo globale, mettendosi in competizione con Usa ed Europa.
Quel che è certo, è che essa rappresenterà un notevole
ostacolo per le altre economie in via di sviluppo. Nemmeno
quelle imprese, all’inizio al sicuro dalla concorrenza
orientale grazie agli alti costi di trasporto, oggi possono stare
tranquille, visto il graduale calo (innalzamenti di prezzo del
petrolio a parte) dei costi della logistica. Inoltre, la Cina sta
diventando forte anche in attività capital intensive, come
quella dell’auto, e in linee produttive ad alta tecnologia.
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Se i numerosi licenziamenti, la concorrenza allarmante,
la chiusura di molte aziende, la crisi del made in Italy tutto,
sono alcuni tra i prodotti di questo cambiamento epocale,
allora bisogna prendere urgentemente seri provvedimenti.
Ovviamente, non esiste una ricetta che funga da panacea per
i virus da globalizzazione e competizione mondiale, ma le
vie di fuga da percorrere sono molteplici, e dipendono dai
provvedimenti che si intendono adottare in campo politico,
economico e sociale. Certamente, le imprese oggi devono
riconoscere ed accettare questa realtà, valutando l’impatto
che il nuovo equilibrio economico mondiale potrà avere sul
loro avvenire; prendere misure adeguate vuol dire anche
mettere in gioco abitudini e modalità di produzione radicate
da tempo e modificare l’ intera catena del valore.
Occorre dunque ripercorrere e analizzare con coscienza
quali sono state e quali sono le caratteristiche del sistema
Italia, sia quelle positive, che hanno permesso l’ affermarsi
del made in Italy nel mondo come sinonimo di garanzia di
qualità, design di pregio, affidabilità e sicurezza (ma anche
gusto e salute se scendiamo nel campo dell’agroalimentare e
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della cucina), che quelle negative, che hanno impedito spesso
al nostro Paese di competere al meglio, offuscando la
reputazione nei suoi confronti: problemi come mafie,
corruzione, sprechi e furti, che, insieme alla secolare
arretratezza del Meridione, ma non solo, da sempre
caratterizzano, mi duole ammetterlo, il nostro Bel Paese.
Una nazione, la nostra, con risorse invidiabili, sia dal
punto di vista naturalistico-ambientale che culturale, sia per
quanto riguarda le capacità imprenditoriali di molti individui,
che hanno permesso di trasformare molte volte un semplice
prodotto in un oggetto desiderato e di lusso e dalle
caratteristiche tanto inimitabili quanto invidiabili. Ma se
vogliamo che l’idillio continui per sempre dobbiamo
impegnarci tutti a far funzionare la nostra Grande Azienda,
affinché il made in Italy, alla stregua di un marchio, sia
considerato qualcosa di più che un semplice abito, una
semplice scarpa, una semplice ceramica o una semplice
automobile. E’ necessario che le nostre produzioni,
industriali e non, continuino ad essere competitive sui
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mercati di tutto il mondo, in modo che il problema Cina
divenga solo un brutto ricordo.
Colpisce il fatto che il modello di specializzazione
italiano, così diverso da quello degli altri Paesi
industrializzati, sia pericolosamente simile a quello di alcuni
Paesi emergenti; ciò deriva in particolare dalla differenza con
altre importanti nazioni europee e non, molto forti dal punto
di vista tecnologico e nel settore ad alta intensità di lavoro
qualificato, ma deboli nel comparto ad alta intensità di lavoro
non qualificato, al contrario dell’ Italia. Questo mette in
evidenza come quest’ultima sia tra le nazioni maggiormente
a rischio e che a ragione devono temere per la concorrenza
dei paesi in via di sviluppo.
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Ovviamente, non è solo aumentando la vendita di
prodotti che si cura questo male: lo si cura cominciando
dall’interno dell’organismo, estirpando alla radice tutte le
cause di sofferenza. Troppo è stato detto o scritto sulla
criminalità e sugli sprechi, o sulla corruzione; non sono solo
questi i problemi che ci affliggono, né, d’altronde, si
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R. Helg, La specializzazione anomala dell’economia italiana,
articolo consultabile sul sito www.lavoce.info/ news, 4/02/03.
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potrebbe fare un elenco completo di quelle che sono le
inefficienze da eliminare. Nel primo capitolo ho tentato di
ragguagliare i punti di debolezza dello Stivale, ma ho anche
descritto qualche punto di forza, tra i più importanti, ma
sicuramente non basterebbe un’enciclopedia per compiere un
lavoro esauriente in tal senso. Ciò mi è servito come base di
partenza per poter dimostrare come la Cina possa
configurarsi, insieme, come causa e conseguenza dei mali
italiani, e su cosa puntare per il rafforzamento della nostra
economia, sì da non temere mai più, in futuro, lo scoppio di
“guerre” che non possiamo combattere. Il marketing ci è
d’aiuto a tal proposito: laddove non si possono abbassare i
prezzi a livello del concorrente, si risponde con altri mezzi:
con la qualità, ad esempio; o con il rafforzamento del
marchio, o con il servizio ecc. Allora occorre far in modo
che la nostra nazione sia considerata come un prodotto da
porre ben in vista in un mercato di vasta portata per far in
modo che essa possa competere egregiamente e
dignitosamente con i suoi concorrenti. Bisogna lavorare in
sintonia, concertando le proprie forze per arrivare ad
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obiettivi comuni. Forse l’ingresso nell’ Europa Unita può
esserci d’aiuto, può costituire un salvagente, ma comunque
occorre imparare a nuotare. Come? Bisogna far leva sullo
spirito di adattamento e sulla proverbiale capacità
d’arrangiarsi che da sempre ci caratterizza e che solo noi
italiani sappiamo bene come sfruttare.
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CAPITOLO 1
LA COMPETITIVITA’ ITALIANA TRA
DEBOLEZZE CONGIUNTURALI E STRUTTURALI
1.1 Cause e conseguenze della crisi.
Il dibattito relativo alla perdita di competitività del
sistema Italia sullo scenario internazionale ha assunto oggi
enormi proporzioni. L’immagine forte che il nostro Paese
storicamente si è ritagliato nell’ambito qualitativo di
numerosi settori di produzione, sta subendo attacchi da ogni
parte del mondo. Attacchi che sono certamente figli della
globalizzazione, che sfrutta il basso costo del lavoro di realtà
anche molto distanti dal proprio territorio, ma altresì di
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numerose innovazioni apportate nelle filiere industriali da
parte di moltissime imprese estere che tentano di copiare (e a
volte ci riescono anche bene) i prodotti che da sempre sono
stati l’orgoglio del tricolore e che hanno reso famoso nel
mondo il marchio del made in Italy.
E’ vero, dunque: l’azienda Italia è malata e sta soffrendo
molto per la concorrenza di economie che fino a qualche
tempo fa consideravamo come sottosviluppate e non in grado
di competere a livello globale, ma che ora ci stanno causando
non pochi problemi, minando alla base le fondamenta del
nostro sistema che per anni ha registrato successi ovunque e
che è stato definito come secondo miracolo economico
2
. Un
sistema che per diverso tempo ha funzionato reggendosi su
una rete di piccole e medie industrie, quella Terza Italia di
cui si sono occupati eminenti studiosi come Bagnasco,
Trigilia, Becattini, Messori e altri, che sta subendo oggi duri
contraccolpi. Caratteristiche tutte italiane come la numerosa
presenza di piccoli centri, il ruolo della famiglia che
ammortizza il rischio d’impresa, l’unione di conoscenze
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A. Q. Curzio, M. Fortis, G. Galli, La competitività dell’ Italia, vol.1,
Il Sole 24 Ore, Milano, 2002.
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tacite ed informali, ma anche l’esistenza di rapporti sociali
basati su spirito organizzativo ed imprenditoriale sono stati
alcuni tra i motori che hanno favorito la nascita di distretti
industriali divenuti in seguito il fiore all’occhiello di
un’industria fiorente e spesso qualitativamente invidiabile.
Storicamente, la forte presenza del nostro modello sulla
produzione tradizionale (tessile, alimentare, calzaturiera,
meccanica, ecc., comunque spesso a basso valore aggiunto),
si è contrapposta ai gravi ritardi tecnologici di cui esso
soffre, che non facilitano l’ingresso di innovazioni radicali,
spesso le più redditizie dal punto di vista economico.
In Italia lo scontro sulla competitività ha subito un forte
incremento a partire dalla fine degli anni Novanta; uno degli
elementi determinanti è stata l’adesione alla moneta unica.
Inoltre, problemi come la specializzazione dell’ export basata
soprattutto su settori tradizionali, la cui domanda mondiale
cresce in minor misura rispetto ai settori ad alto contenuto
tecnologico ed ha una maggior capacità di variare in base
all’andamento dei prezzi, favoriscono l’ingresso in tali settori
da parte di Paesi in via di sviluppo dove il costo del lavoro è
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più basso. Si registrano numerose inefficienze anche per
quanto riguarda la rigidità delle politiche economico-
istituzionali relative a formazione, infrastrutture, trasporti,
mercato del lavoro (dove l’ingresso risulta ancora fortemente
limitato per le donne e i giovani), mercati finanziari; e si
potrebbe andare avanti ancora tanto. L’Italia sembra essere
toccata, da questi temi, più profondamente rispetto al resto
del continente europeo. La Confindustria ritiene che la
mancanza di apposite riforme riguardanti l’attività
imprenditoriale possano causare molti di questi svantaggi. La
Banca d’Italia
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, dal canto suo, aggiunge che la piccola
dimensione delle imprese (all’interno delle quali spesso e
volentieri mancano investimenti in ricerca e sviluppo e,
quando ci sono, sono a volte inadeguati), la gestione sovente
di tipo familiare oltre che la limitata internazionalizzazione
produttiva sono fattori svantaggianti per la nostra economia.
Altro importante svantaggiante fattore è la totale dipendenza
di piccole realtà industriali dalle grandi realtà; la piccola
impresa, più che essere un satellite ruotante attorno alla
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Banca d’ Italia, Bollettino Economico n.44, marzo 2005.
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grande, dovrebbe allontanarsi da questa situazione trovando
anch’essa un proprio mercato.
A complicare il quadro generale delle sofferenze
endemiche e non dello Stivale, è la situazione in cui versa la
Pubblica Amministrazione italiana, che è una tra quelle che
penalizzano maggiormente, in Europa, l’imprenditoria e la
crescita economica. Nel campo della giustizia
amministrativa, le lungaggini burocratiche, se unite alla
generale inefficienza del sistema giudiziario, costituiscono di
certo un ostacolo al sistema competitivo industriale. E così,
gli investimenti esteri diretti in Italia sono sempre scoraggiati
dall’ incertezza sulle procedure, da un’ eccessiva diffusione
delle competenze, da tempi lunghissimi, dall’ impossibilità
di individuare un interlocutore "certo".
Altre limitazioni ci sarebbero, stando a quanto ha
sostenuto l’Autorità Antitrust nel 2003, a causa degli
eccessivi costi che bisogna sostenere per l’ acquisto di fattori
che appartengono a settori troppo protetti dalla concorrenza,
come l’energia, i servizi professionali, le telecomunicazioni,
il commercio all’ingrosso ecc. Ma potremmo aggiungere le
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accuse rivolte al nostro sistema relative alla continua scarsità
delle risorse destinate alla ricerca, di cui sicuramente il
rispetto dei parametri di Maastricht ne è una concausa. Ma è
importante sottolineare che non abbiamo solo bassi
investimenti in questo campo, ma anche una loro lenta
crescita negli anni. Per il 75%, il denaro stanziato per
l’innovazione ricade sulle aziende con un minimo di 500
addetti, mentre molto basso, come si diceva sopra, è il
contributo della piccola realtà aziendale. Per quanto riguarda
i settori che maggiormente assorbono gli investimenti, la
parte del leone la fanno le attività a più spiccato indirizzo
tecnologico. E, nonostante questo, tra il 1992 ed il 2001
l’Italia ha occupato le ultime posizioni sia per quanto
riguarda le spese in TLC che quelle per l’informatica. Questa
pessima performance ha una ricaduta negativa persino sulla
crescita sociale e civile, poiché ai cittadini viene negata la
possibilità di divenire più informati ed attivi, lavoratori
produttivi, e consumatori esigenti e consapevoli. Viene cioè
negato loro l’accesso al capitalismo culturale, alla rete
sociale ed economica che tanto beneficio apporta, secondo
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Jeremy Rifkin
4
, agli individui e alle società. Beneficio che,
nella terza rivoluzione industriale, diviene essenziale se
correlato ad uno dei fattori fondamentali che permeano la
società post-fordista in cui ci troviamo, cioè la conoscenza.
Ma il permanere delle differenze tra i contributi italiani in
ricerca e sviluppo e quelli degli altri Paesi, ancora una volta
sono da attribuire alle specificità del nostro tessuto
produttivo, poco presente nei settori scientifici; questa
componente costituisce l’immagine riflessa di una fisiologica
mancanza di un adeguato numero di laureati in discipline
tecnico-scientifiche, che si attesta infatti al di sotto della
media europea, e di un esiguo numero di brevetti registrati
durante l’anno. Troppo spesso, in verità, siamo divenuti
consumatori delle innovazioni prodotte da altri; ci limitiamo
più che altro allo sviluppo di applicazioni nuove, oppure
assembliamo quelle realizzate nel resto del mondo.
Paradossalmente siamo molto portati all’ uso di tecnologia,
di cui siamo grandi acquirenti; ma purtroppo, tra lettori mp3,
4
J. Rifkin, L’ era dell’ accesso, Arnoldo Mondatori, Milano, 2000.
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televisori al plasma e computer, molti soldi se ne vanno oltre
i confini nazionali.
Fortunatamente, però, risulta che le nostre aziende
riconoscano il valore della rete. E’ alta, infatti, la percentuale
di imprese connesse ad internet. E questo non è un fenomeno
da sottovalutare, se è vero che, come sostiene Manuel
Castells, la creazione della ricchezza e la produttività del
lavoro, da cui deriva l’innovazione, dipendono oggi in gran
parte proprio dalla connessione alla rete
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. Il rovescio della
medaglia, però, risiede nel notevole analfabetismo
informatico di cui soffrono i nostri connazionali: è notevole,
cioè, l’arcidiscusso fenomeno del digital divide. Ma l’ingente
uso della telefonia cellulare, l’emergere di una nuova
mentalità imprenditoriale e l’elevato livello di risparmi, che
contraddistinguono noi italiani, costituiscono alcune tra le
premesse indispensabili per riuscire a competere
egregiamente sulla scena europea e mondiale, nonostante il
forte ritardo informatico.
5
M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano, 2002.