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Introduzione
Negli ultimi trent’anni la realtà sociale occidentale che riguarda la
condizione femminile e le relazioni che intercorrono tra uomini e donne è
fortemente mutata: le donne sono più presenti nel mercato del lavoro
salariato, gli uomini più accudenti verso i figli e più attivi nelle faccende
domestiche e sempre più spesso i rispettivi ruoli appaiono interscambiabili
nell’educazione dei bambini e delle bambine.
Molti di questi passi avanti sono stati ottenuti anche grazie al
contributo dato dal femminismo, che a partire dagli anni Settanta ha mosso
le prime critiche all’educazione di stampo tradizionale e dato il via allo
studio degli effetti dell’educazione sulla costruzione della mascolinità e
della femminilità nei campi della psicologia, della pedagogia e della
sociologia. L’obiettivo che si perseguiva consisteva nella diffusione di
modelli educativi alternativi, nella convinzione che se buona parte delle
diverse capacità e propensioni di bambine e bambini viene appresa dalle
agenzie di socializzazione, sarebbe bastato intervenire su questo
condizionamento per ottenere equità, per rompere con gli antichi stereotipi
ed insegnare alle bambine ad apprezzarsi, valorizzando la propria differenza
o viceversa cercando di superarla.
Tutto sembrava promettere un cambiamento culturale enorme per le
future generazioni, ma non è stato del tutto così. Le donne continuano a
svolgere compiti di cura più degli uomini (Istat, 2007), investono meno
nella carriera lavorativa e, se lo fanno, trovano maggiori ostacoli: si
confrontano con una segregazione orizzontale nel mondo del lavoro e
soprattutto con un “soffitto di vetro” che impedisce loro l’ascesa ai vertici
delle aziende e delle istituzioni (Rosti, 2006), secondo i dati dell’“Inter-
parliamentary Union” del 2011 infatti sono gli uomini ad occupare la
maggioranza dei posti ministeriali, così come a loro sono riservati quasi tutti
i posti di comando nell’esercito e nella polizia e la maggior parte delle alte
cariche giudiziarie. Le donne continuano inoltre ad apparire come oggetti
sessuali nei media molto più degli uomini (Di Cristofaro Longo, 1995;
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Lipperini, 2007) e le ragazzine tendono più dei loro coetanei a concepirsi
come un corpo, come un oggetto sessuale o al più decorativo, di
conseguenza soffrono di problemi alimentari molto più dei loro coetanei
(ABA, 2014) e sono molto più ossessionate dal bisturi estetico rispetto ai
ragazzi (Ghigi, 2008); secondo i sondaggi quelle che tra di loro vogliono
diventare veline sono più numerose di quelle che aspirano a diventare
medici, avvocati o imprenditrici (Nadeau, 2010).
Spiega inoltre Campani (2009) che si sta affermando in Italia un
fenomeno detto “backlash”: con questo termine, che significa
“contrattacco”, si intende una serie di manifestazioni che “rendono peggiore
la vita delle donne attraverso l’imposizione di ruoli determinati dalla
cultura, dalla religione e dagli uomini” (p.133). Il linguaggio sessista della
nostra televisione di stato e dei politici italiani, la riduzione della donna al
solo corpo da intendersi come oggetto erotizzato o materno, e altri fenomeni
dimostrano che è in atto un’offensiva a livello sociale contro le conquiste,
soprattutto legislative, del femminismo degli anni Settanta: si sta
affermando una cultura popolare conservatrice che tenta di riportare indietro
le relazioni di genere, soprattutto a proposito di quale debba essere “il posto
del maschile e del femminile nella società”. Secondo Campani le donne
sembrano aver fatto un passo indietro e non essere in grado di difendere le
conquiste sociali e culturali che parevano consolidate in precedenza; alla
luce di queste considerazioni risulta tutt’ora attuale ciò che Elena Gianini
Belotti scrisse nel suo saggio “Dalla parte delle bambine” nel 1973:
“La parità di diritti con l’uomo, la parità salariale, l’accesso a
tutte le carriere sono obiettivi sacrosanti e, almeno sulla carta,
sono già stati offerti alle donne nel momento in cui l’uomo
l’ha giudicato conveniente. Resteranno però inaccessibili alla
maggior parte di loro finché non saranno modificate le
strutture psicologiche che impediscono alle donne di
desiderare fortemente di farli propri, sono queste strutture
psicologiche che portano la persona di sesso femminile a
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vivere con senso di colpa ogni suo tentativo di inserirsi nel
mondo produttivo, a sentirsi fallita come donna se vi aderisce
e a sentirsi fallita come individuo se invece sceglie di
realizzarsi come donna” (p.9)
È possibile ottenere questo cambiamento solamente attraverso nuovi
modelli educativi che rompano con gli antichi stereotipi e che mirino
all’equità, purtroppo però permangono tutt’ora nella nostra società forti
contraddizioni tra un modello culturale di riferimento improntato
all’uguaglianza e le concrete situazioni che i bambini anche molto piccoli
vivono ogni giorno: l’educazione oggi sembra ancora seguire per maschietti
e femminucce due percorsi paralleli improntati, afferma Ghigi (2009), “per i
primi alla vittoria, per le seconde alla perfezione”. Sono diversi i giochi che
vengono loro proposti (si scelgono infatti per le bambine giochi che
riguardano la casa e la cura, per i bambini giochi legati alle costruzioni o al
movimento), vedono che è la madre che fa il bucato mentre il padre non
lava il bagno e non stira (Istat, 2007), è il corpo della donna molto più di
quello maschile che osservano nei media o nelle pubblicità affisse sui muri.
I contenuti che vengono trasmessi ai piccoli sono in definitiva fortemente
improntati al genere, secondo un processo che si protrae lungo tutte le fasi
della formazione dell’individuo e che non può non influenzare gli schemi
mentali più profondi sia delle bambine che dei bambini, delle donne come
degli uomini, scrive infatti Margaret Mead (1935/1967):
“…il bambino che cresce è modellato altrettanto
inesorabilmente come la bambina secondo un canone
particolare e ben definito”
Per quanto le implicazioni di questo modellamento secondo i canoni
imposti dalla società siano incontestabilmente più sfavorevoli nei confronti
di donne e bambine, è importante avere ben presente che anche uomini e
bambini ne subiscono le conseguenze:
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“Il suo sviluppo [del maschio] come individuo ne viene
deformato e la sua personalità impoverita. […]. Nessuno può
dire quante energie, quante qualità vadano distrutte nel
processo di immissione forzata dei bambini d’ambo i sessi
negli schemi maschile-femminile così come sono concepiti
dalla nostra cultura.” (Gianini Belotti, 1973, p.9)
Posta la parità di donne e uomini delle future generazioni come fine
ultimo da perseguire, il tema è quanto mai attuale dal momento che questo
obiettivo appare ancora lontano. La disuguaglianza di genere continua a
contare; il fatto che percepiamo la differenziazione sessuale dei ruoli come
socialmente inevitabile, come insita nell’ordine naturale delle cose è la
prova che essa poggia su schemi sociali sedimentati e naturalizzati
(Bourdieu, 1999), assorbiti soprattutto durante la primissima infanzia.
L’appartenenza ad un sesso e la conseguente costruzione socio-culturale del
genere spesso sono dati per scontati, mentre è centrale essere consapevoli, in
particolar modo da parte di chi è investito della responsabilità educativa
come insegnanti ed educatrici, dei linguaggi latenti e degli universi
simbolici mobilitati e trasmessi, ovvero di come gli atteggiamenti, i
comportamenti, le parole ed i gesti contribuiranno a determinare le scelte
adulte di chi oggi è una bambina o un bambino. Anche le storie che vengono
narrate loro hanno una grande influenza sullo sviluppo della loro identità,
perché forniscono modelli semplificati in cui è facile identificarsi: molti dei
libri per l’infanzia e dei manuali scolastici rappresentano uno dei maggiori
veicoli attraverso i quali viene trasmessa una visione della società non
rispettosa dell’identità di genere. Afferma a questo proposito Adela Turin
(2003):
“Se al momento del loro ingresso nella scuola materna, verso i
tre, quattro anni, i bambini e le bambine si sono già
identificati nel loro ruolo sessuale e conoscono il
comportamento appropriato a ciascun sesso, i libri illustrati,
supporto essenziale nelle classi della scuola materna,
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perfezionano questa identificazione. […] I ruoli rigidi
imprigionano e modificano la personalità. La libertà e la
creatività nel comportamento dipendono dalla possibilità di
inventarsi, attingendo da modelli diversi e ricombinandoli in
un insieme originale che rappresenti una vera scelta.”
Alle insegnanti anche per quanto riguarda la scelta delle letture che
propongono ai bambini e alle bambine delle loro classi e sezioni è quindi
affidata la responsabilità di compiere scelte ragionate e consapevoli, che
contrastino gli stereotipi dominanti e offrano modelli plurali; le storie e le
immagini contenute in tali letture possono infatti dare un importante
contributo ad una trasformazione culturale e sociale il cui traguardo Elena
Gianini Belotti esprime con le seguenti parole:
“L’operazione da compiere è […] di restituire a ogni individuo
che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più
congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene.” (p.8)
È per queste motivazioni che si è deciso di incentrare il presente
lavoro di tesi sul tema delle relazioni che intercorrono tra letteratura per
l’infanzia e stereotipi di genere. Si comincerà nel primo capitolo con
l’introduzione del concetto di “genere” e, attraverso un breve excursus
storico, del ruolo determinante che la formulazione di questo costrutto ha
giocato nell’esplicitare l’origine socio-culturale, e non biologica, delle
differenze tra i due sessi. A seguire nel secondo capitolo si preciseranno i
meccanismi di socializzazione attraverso i quali le varie agenzie (famiglia,
scuola, mezzi di comunicazione, ecc.) condizionano le rappresentazioni del
maschile e del femminile che bambine e bambini si costruiscono a partire
dalla loro esperienza. Il terzo capitolo prevederà poi una rassegna dei
risultati dei più importanti studi realizzati sul territorio italiano, che hanno
analizzato quale rappresentazione dei due generi viene veicolata dai libri per
l’infanzia. Nel quarto e ultimo capitolo infine verranno presentati i risultati
di una analisi effettuata sugli albi illustrati di una scuola dell’infanzia
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imolese al fine di rilevarne gli stereotipi sessisti ed i modelli
anticonvenzionali presenti; a chiusura del lavoro verrà proposta una piccola
selezione di libri per l’infanzia che possono contribuire a comunicare
un’immagine dei due generi paritaria e libera da stereotipi.
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Capitolo 1
Genere e pedagogia di genere: un excursus storico-concettuale
1.1. Origine del concetto di genere
Che il femminile ed il maschile non siano effetti di natura ma una
costruzione sociale venne teorizzato già da Platone nel IV secolo a.C.;
l’origine del vero e proprio concetto di genere e dell’attenzione alle
questioni di genere va però ricercata nell’intuizione di Simone de Beauvoir
che “donne si diventa”, pubblicata all’interno del saggio del 1949 (1977) “Il
secondo sesso”, un classico della letteratura femminista che suscitò scandalo
e censure in tutto il mondo. L’autrice francese da un lato sostiene la
necessità del superamento di una visione gerarchica che vede l’alterità
femminile come inferiore e in cui il maschile è assunto come norma mentre
il femminile come altro, come “secondo sesso” appunto; dall’altro lato apre
la strada a quella che sarà definita “prospettiva di genere”, riflettendo
sull’influenza sociale nella costruzione di mascolinità e femminilità. La
necessità sentita da de Beauvoir è soprattutto quella di problematizzare il
processo di costruzione dell’identità femminile, da sempre fortemente
vincolata dal destino biologico e dunque schiacciata sul ruolo riproduttivo e
materno.
La prima definizione scientifica del concetto di genere venne poi
formulata dall’antropologa di ispirazione marxista Gayle Rubin nel suo
saggio “The traffic in women” nel 1975. Scrive Rubin:
“Gli uomini e le donne sono, è ovvio, diversi. Ma non sono
così diversi come il giorno e la notte, la terra e il cielo, lo yin e
lo yang, la vita e la morte. Dal punto di vista della natura, gli
uomini e le donne sono più simili gli uni alle altre che a
qualsiasi altra cosa: alle montagne, ai canguri o alle palme da
cocco. L’idea che siano diversi tra loro più di quanto ciascuno
di essi lo è da qualsiasi altra cosa deve derivare da un motivo
che non ha niente a che fare con la natura.”