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grassi non esterificati (i NEFA) tramite lipolisi. Alcuni di questi fattori sembrerebbero
svolgere un ruolo cruciale nell‟insorgenza di vari tipi di tumori e/o nelle altre complicanze
dell‟obesità. Numerosi modelli sperimentali suggeriscono come la leptina, l‟ormone
principale prodotto dal tessuto adiposo, possa essere coinvolto nella patogenesi e nella
progressione di alcune forme tumorali, fra cui il cancro alla mammella, alle ovaie e alla
prostata. Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi lavori che illustrano i diversi,
talvolta anche controversi, effetti svolti dalla leptina nel regolare la crescita e la progressione
di linee cellulari ottenute da tumori umani. È quindi di notevole rilevanza capire il ruolo
svolto dalla leptina nel regolare i meccanismi di trasmissione del messaggio in modo da poter
individuare, eventualmente, delle strategie che potrebbero bloccarne l‟azione pro-tumorale.
L‟obesità è una patologia cronica ad eziologia multifattoriale (culturale, ambientale,
socioeconomica, psicologica e genetica) in cui si rileva un eccesso del grasso corporeo che
compromette la qualità e la durata della vita. Normalmente, la quantità di grasso non
dovrebbe superare il 9% della massa corporea negli uomini ed il 22% nelle donne; quindi al di
sopra di questi limiti, si dovrebbe già poter parlare di obesità. In realtà, l‟obesità deve essere
distinta da ciò che viene definito come sovrappeso, il quale si riferisce al peso in eccesso
rispetto alcuni standard assunti in modo più o meno arbitrario. Tuttavia, i confini tra i due
termini sono alquanto sfumati: di conseguenza, spesso il termine sovrappeso è usato come
sinonimo di obesità.
I primi tentativi di classificare l‟obesità risalgono agli inizi del „900, quando questa venne
distinta in esogena, dovuta cioè a fattori esterni all‟individuo, ed endogena, causata da
anomalie nel funzionamento fisiologico della persona. Nel corso degli anni sono stati proposti
numerosi sistemi di classificazione, ognuno dei quali si basa su criteri distintivi specifici.
Elemento comune di questi criteri classificatori è il riconoscimento che l‟obesità è una
condizione eterogenea, con eziologia multipla e con diverse conseguenze fisiche e
psicologiche.
Sebbene l‟obesità sembri una manifestazione evidente, non è facile trovare criteri scientifici
che consentano di definire quantitativamente i suoi limiti. Alcuni ricercatori hanno accettato
come criterio distintivo per poter parlare di obesità quello del rischio per la vita: i dati
mostrano, infatti, che una persona obesa corre un maggior rischio di contrarre malattie e
quindi di abbreviare la propria esistenza. In base a questi criteri, l‟obesità può essere definita
come quella condizione in cui il peso di un individuo supera di almeno il 20% il limite
superiore atteso.
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Una prima distinzione dell‟obesità è effettuata in base alla ripartizione delle masse adipose: si
individuano in questo modo due tipi di obesità. Il primo, definito come androide o centrale,
caratterizzato dall‟accumulo di grasso nella parte superiore del corpo (base del collo, spalle,
mento e capo), nel tronco e nella regione addominale. Questa situazione tipica, ma non
esclusiva, del sesso maschile è correlata con un più alto rischio di complicazioni
cardiovascolari e comparsa di diabete mellito di tipo 2. Il secondo, chiamato ginoide o
femminile, è caratterizzato dall‟accumulo di grasso nella parte inferiore del corpo. Questo
tipo di ripartizione tiene conto anche dell‟età di comparsa dell‟obesità: quella che inizia
nell‟età adulta è prevalentemente di tipo centrale, mentre quella che inizia nei primi anni di
vita è generalizzata, coinvolge sia il tronco che le estremità del corpo.
Una seconda modalità classificatoria dell‟obesità si basa sulla tipologia cellulare coinvolta: si
distingue così una obesità ipertrofica, in cui gli adipociti (cellule deputate
all‟immagazzinamento del grasso) sono poco numerosi ma notevolmente più grandi (in media
possono raggiungere oltre il 40% in più del volume cellulare rispetto a un soggetto
normopeso), ed obesità iperplastica, in cui gli adipociti sono di dimensioni normali ma
presenti in numero notevolmente superiore (oscillano tra i 40 e 120 miliardi contro i 25-30
miliardi presenti nel tessuto adiposo del soggetto in normopeso).
Un altro modo di categorizzare l‟obesità è quello di distinguerla in base all‟età di comparsa: si
hanno così una forma adulta ed una forma precoce. Questa distinzione non corrisponde,
tuttavia, ad una chiara separazione circa le cause dell‟obesità stessa.
Sebbene le classificazioni proposte trovino una certa applicazione tra coloro che si occupano
dello studio e della cura dell‟obesità, gli schemi di classificazione maggiormente usati sono
quelli basati su alcuni indici di peso corporeo. Il metodo moderno più utilizzato è quello del
calcolo dell‟indice di Qetelet, più comunemente conosciuto come Indice di massa corporea
(IMC) o Body Mass Index (BMI), definito come il rapporto tra peso (espresso in Kg) ed
altezza (espressa in metri
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); l‟indice risultante fornisce una stima attendibile della percentuale
di grasso corporeo. Come limite superiore di normalità è stato fissato un valore di BMI di
24.9, mentre sono state definite Obesità di I, II e III grado quei valori di BMI compresi
rispettivamente tra 30 e 34.9, 35 e 39.9 e maggiori di 40 (WHO,1995) (TABELLA 1). Altro
parametro di misura tenuto in considerazione nella definizione di obesità è la Circonferenza
Vita o Waist Circumference (WC), indice indiretto per la valutazione del grasso
intraddominale (valori superiori a 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini si associano ad
un aumentato rischio di sviluppo di diabete di tipo 2, dislipidemia e malattie cardiovascolari
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(Aronne et al , 2001). Sebbene la circonferenza vita migliori l‟indice predittivo del BMI, le
informazioni relative alla stima della massa grassa con entrambi i parametri non è in grado di
definire lo stato di obesità. L‟utilizzazione del BMI, rispetto alla circonferenza, rimane
confinata a studi epidemiologici condotti su un‟ampia popolazione mentre risulta assai poco
utile al giudizio prognostico del singolo soggetto. La sola certezza è che il sovrappeso e
l‟obesità aumentano il rischio di morbilità e mortalità. Vi è una chiara associazione tra BMI e
mortalità (TABELLA 1).
TABELLA 1: Classificazione di sovrappeso ed obesità basata sull‟indice di massa corporea (BMI) e rischio
relativo per malattie associate.
CONDIZIONI
BMI (Kg /m
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)
MORBILITA’
Sottopeso
<18.5
Bassa
Normopeso
18.5-24.9
Nella media
Sovrappeso
25.0-29.9
Aumentata
Obesità classe I
30.0-34.9
Moderata
Obesità classe II
35.0-39.9
Severa
Obesità classe III
>40
Molto severa
Dal punto di vista fisiologico, il fattore causale più evidente dell‟obesità è un eccessivo
consumo alimentare; l‟eccesso di grasso sarebbe dovuto ad uno squilibro tra apporto
energetico e spesa energetica. Tuttavia, non vi è una relazione diretta tra cosa e quanto si
mangia ed obesità. Le calorie necessarie per ingrassare variano da un individuo all‟altro, ed
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addirittura molti obesi hanno un apporto calorico minore alla media, della popolazione
normoponderale.
L‟obesità può essere anche frutto soltanto di una diminuzione del dispendio energetico: in
questo caso il metabolismo basale è il maggior indiziato, poiché si ritiene che esso sia
all‟origine dello squilibrio. Vi sarebbe, nelle persone obese, una diminuzione del metabolismo
basale, dovuto a diverse cause, che spingerebbe l‟organismo ad economizzare al massimo
ogni apporto energetico introdotto nell‟organismo. Ciò spiegherebbe la difficoltà di alcuni
obesi a dimagrire anche seguendo delle diete, ed il fatto che alcuni individui ingrassino anche
con un apporto calorico inferiore alla media.
Infine recenti evidenze sperimentali sostengono la prevalenza dei fattori genetici rispetto a
quelli ambientali nella formazione dell‟obesità. L‟ipotesi di fondo è che l‟eccesso ponderale
sia causato dall‟azione di geni che predispongono il soggetto che ne sia portatore
all‟insorgenza dell‟obesità.
Alcune ricerche, in effetti, dimostrano il ruolo giocato dalla familiarità nei soggetti
sovrappeso. Studi su gemelli sia monozigoti che eterozigoti suggeriscono un‟ereditabilità
dell‟obesità pari al 70%. Indagini recenti sembrano indicare che le influenze genetiche
incidono su numerosi ambiti relativi al rapporto dell‟individuo con l‟alimentazione e
all‟accumulo di grasso: preferenze alimentari, tipo di metabolismo e tipo di reazione
all‟aumento delle entrate alimentari ne costituiscono alcuni esempi. Ricerche genetiche hanno
permesso di individuare quello che è stato definito il gene dell‟obesità, ovvero il gene “ob”, e
l‟ormone espresso da tale gene, la leptina. E‟ stato riscontrato come questo ormone, prodotto
dalle cellule adipose e subito rilasciato nel sangue, possa intervenire direttamente nel
controllo ponderale. La concentrazione di leptina nel sangue è un importantissimo segnale di
comunicazione con il cervello, che, a seconda del livello ormonale, passerebbe poi al
controllo della sensazione di fame. L‟ipotesi è che questo sistema di feedback in alcuni
soggetti sia difettoso, di conseguenza, alcuni soggetti tenderebbero a diventare obesi, o, al
contrario, troppo magri, in ragione di un difetto genetico di regolazione del livello circolante
di leptina.
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1.2 Eziopatogenesi dell’obesità
La comprensione delle cause e delle modalità attraverso cui l‟obesità si sta diffondendo così
rapidamente costituiscono l‟oggetto di una sempre maggiore attenzione da parte di studiosi ed
esperti, i quali concordano nel sottolineare l‟esistenza di una forte interrelazione fra fattori
genetici, fisiologici, metabolici, comportamentali e psicosociali. L‟obesità è quindi la
risultante della combinazione variabile di due elementi: la suscettibilità genetica, cioè di una
predisposizione genetica dell‟individuo a diventare obeso, e la presenza di fattori ambientali
(ad esempio il facile accesso ad alimenti altamente energetici, nonché la sedentarietà). Si
ritiene che la componente genetica incida per il 30-40% e quella ambientale/comportamentale
per il rimanente 60-70% (Shwartz et al, 2000).
Fattori determinanti di questa patologia, cosiddetta “ multifattoriale” sono quindi rappresentati
da:
Fattori ambientali: il dispendio energetico che comprende il metabolismo basale (MB), la
spesa energetica legata all’attività fisica (LAF), e quella legata alla termogenesi indotta della
dieta (TID), condiziona lo sviluppo dell'obesità. Inoltre la sedentarietà, diffusione e abuso di
mezzi di trasporto, introduzione ed utilizzazione di comandi elettronici a distanza e computer
hanno ridotto notevolmente il consumo energetico dell'individuo (Allison et al, 2001).
Fattori genetici: parallelamente ai fattori ambientali suddetti, è innegabile che la componente
genetica abbia un‟influenza non meno importante sullo sviluppo dell‟obesità. Diverse
ricerche, hanno suggerito che sia la quantità degli adipociti che la distribuzione della massa
lipidica corporea sono determinati geneticamente. Ciò è supportato dal fatto che il numero
delle cellule adipose presenti nell‟adulto è irreversibile e quindi non può essere modificato
neanche con il più rigido trattamento dietetico. Un‟ipotesi plausibile è che l'influenza o la
predisposizione genetica possano essere attenuate o esacerbate dalla componente ambientale
con conseguente sviluppo di un fenotipo che caratterizza la distribuzione del grasso corporeo.
Nella maggioranza dei casi un individuo non è destinato al sovrappeso soltanto a causa dei
geni, ma esiste una predisposizione all‟incremento ponderale favorita dal fattore ambientale.
Le interazioni genotipo-ambiente sorgono quando c‟è una risposta, modulata dal genotipo
specifico dell‟individuo, tra un determinato fenotipo (es. massa grassa) e le variazioni
ambientali (es. intervento nutrizionale). Ci sono due effetti dell‟interazione genotipo-ambiente
attinenti all‟obesità: primo, questa interazione potrebbe essere coinvolta nel determinare un
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aumento del peso corporeo in risposta a fattori di rischio ambientali, come per esempio in
seguito ad una dieta ad alto contenuto calorico oppure in seguito ad uno stile di vita
sedentario; secondo, gli effetti dell‟interazione potrebbero favorire, sulla base della
suscettibilità individuale, sia l‟insorgenza delle malattie correlate all‟obesità che la risposta a
un determinato trattamento terapeutico. Pertanto, risulta essenziale definire i fenotipi
dell‟obesità al fine di identificare gli individui ad elevato rischio o resistenti al trattamento
terapeutico. La più recente mappa dei geni dell‟obesità ha individuato l‟esistenza di un
numero maggiore di 100 geni (o loci) come marcatori dell‟obesità. Studi condotti sul sistema
neuro-endocrino di regolazione e controllo del bilancio energetico, hanno dimostrato l‟elevata
correlazione temporale fra le varie fasi del processo alimentare e i relativi effetti
comportamentali e viscerali, facendo supporre l‟esistenza di un efficiente sistema di
informazione e di controllo. Oggi è chiaro che il tessuto adiposo è funzionalmente più
complesso di quanto si immaginava precedentemente e non è solo una sede di accumulo di
grassi e una riserva energetica metabolicamente inerte. Questo tessuto ha in realtà una
produzione autonoma di sostanze endocrine con funzioni specifiche: Leptina e altre citochine,
Adiponectina ed elementi del sistema Renina-Angiotensina (angiotensinogeno ed angiotensina
II), tutti prodotti dell‟attività endocrina del tessuto adiposo, denominato appunto “organo
adiposo”. Questi meccanismi sono utili per comprendere l‟associazione tra obesità e
l‟ipertensione arteriosa, l‟insulino-resistenza e le altre condizioni patologiche legate
all‟obesità. Ricerche condotte sui ratti avevano già fatto ipotizzare l‟esistenza di un
segnalatore chimico fra tessuto adiposo e sistemi di regolazione e controllo del bilancio
energetico. Nell‟organismo, in caso di carenza prolungata di cibo, esistono dei segnali ben
precisi che inducono ad aumentare l‟apporto calorico, e segnali che invece vengono attivati in
caso di eccessivo introito, al fine di prevenire l‟accumulo di depositi e la conseguente
insorgenza dell‟obesità. Il meccanismo per cui l‟informazione sui depositi di energia presenti
nel tessuto adiposo viene comunicata al cervello, causando una serie complessa di reazioni a
valle, è stato in parte chiarito con l‟identificazione del gene Ob. Questo gene viene espresso
principalmente nel tessuto adiposo bianco (WAT) e in piccola parte in quello bruno (BAT). Il
gene Ob, in studi condotti sui ratti obesi, era mutato (Ob/Ob) mostrando così difetti nel suo
prodotto, la leptina. A partire da questa osservazione, si è capito che la leptina funziona come
“molecola segnale” che, in relazione ai depositi del tessuto adiposo, limita l‟assunzione di
cibo e aumenta il dispendio energetico dell‟organismo. Di conseguenza, quando il gene che la
produce non è funzionale (topi Ob/Ob), l‟organismo tende all‟obesità. Ciò è stato dimostrato
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in diverse ricerche: iniettando la leptina in roditori con obesità indotta (geneticamente o con la
dieta) si otteneva un peso corporeo migliore. La leptina agisce sia su un recettore (Ob-R)
presente nell‟ipotalamo inducendo una regolazione a lungo termine che su recettori periferici.
A livello del sistema nervoso centrale la leptina agisce, dopo aver superato la barriera
ematoencefalica, attivando il centro ipotalamico della sazietà. Non sono ancora noti i fattori
che regolano i livelli sierici della leptina, tuttavia fra i canditati vi è il Neuropeptide Y,
prodotto nell‟ipotalamo e forte stimolatore della sensazione di fame, la cui sintesi viene
inibita dalla leptina stessa. L‟incremento della leptina avviene mediante il MSH (ormone
stimolante i melanociti) che agisce sui recettori MC-4 presenti sugli adipociti. Viceversa, la
diminuzione della leptina avviene mediante il Neuropeptide Y (NPY) che agisce sui recettori
Y5, stimolando la fame. Tali correlazioni molecolari si sono rivelate utili per comprendere
meglio la fisiopatologia dell‟obesità negli animali ma non sono ancora in grado di spiegare
l‟obesità nell‟uomo. A livello periferico, diversi studi in vitro hanno mostrato l‟azione della
leptina sugli adipociti, epatociti, cellule ematopoietiche e pancreatiche. Ciò è interessante per
comprendere l‟effetto della leptina sul metabolismo lipidico. È stato osservato come questa
proteina è in grado di inibire la concentrazione dei lipidi intracellulari riducendo la sintesi di
acidi grassi e trigliceridi e contemporaneamente aumentando l‟ossidazione dei lipidi; ciò
grazie all‟effetto inibitorio della leptina sull‟attività dell‟enzima coinvolto nella sintesi degli
acidi grassi, Acil-CoA carbossilasi. La funzione adipostatica di questa proteina può
determinare una riduzione del peso corporeo in soggetti obesi. Tuttavia, l‟obesità è una
condizione patologica più complessa di quanto sembra, in cui agiscono numerosi fattori di cui
alcuni ancora sconosciuti. Per spiegare meglio questa complessità possiamo menzionare il
fatto che uomini e roditori possono diventare obesi nonostante il livello della leptina sia molto
alto. Questo fenomeno è ipotizzato come resistenza alla leptina, proponibile in quelle
situazioni in cui la leptina è presente nell‟organismo ma non viene riconosciuta dal recettore e
pertanto ne viene inibita la sua attività. Servono ancora altre ricerche scientifiche che
dimostrino con chiarezza il complesso meccanismo di regolazione della leptina nella
patogenesi dell‟obesità.
Fattori alimentari: l‟iperalimentazione, ossia l‟eccessivo introito calorico rispetto alle
necessità energetiche giornaliere, costituisce la causa principale ed essenziale per lo sviluppo
dell‟obesità. L'individuo obeso assume una maggiore quantità di cibo in un tempo solitamente
inferiore rispetto agli individui non obesi. L‟alta densità energetica e la maggiore disponibilità
di alimenti ad alto contenuto lipidico e glucidico hanno un ruolo determinante nell‟insorgenza