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Anatomia di uno stalking

Abbiamo la pessima abitudine nel nostro Paese di “inglesizzare” la vulgata comune, di per sé il fenomeno è abbastanza naturale dato che la lingua è viva e si modella attraverso influenze reciproche, cercare di cristallizzarla, come fanno i francesi, porta a volte a sfiorare il ridicolo, si pensi al termine ordinateur ed alla sua eventuale traduzione letterale.
Il rischio, però, nell’utilizzo dei termini inglesi è duplice: da una parte si rischia l’incomprensione concettuale del termine, dall’altra si rischia di “normalizzare” i concetti.
Se parliamo di criminologia bisogna essere accorti a definire comportamenti criminosi dandone il giusto peso, altrimenti si rischia di pensare a reati come il “mobbing”, i “crime economics” ecc. come concetti linguisticamente eleganti che perdono il loro reale stato di atto criminale nel pensiero comune.
La violenza persecutoria psicologica e fisica agita contro le donne (nella stragrande maggioranza dei casi) oggi viene definita “stalking”.
Termine elegante che racchiude un reato vile, agito contro vittime indifese che ancora la legislazione italiana fatica a tutelare.
Mi propongo quindi di dare una definizione comprensibile e non troppo elegante del fenomeno:

“Il fenomeno dello stalking è riscontrabile quando una persona ne perseguita un’altra come parte di un’investigazione o con intenti criminali; la segue o la molesta perché ne è ossessionata”.

Definirlo in questo modo mette perlomeno in evidenza la persecuzione e l’ossessione, genera nella mente del lettore una dinamica per la quale la vittima ha la vita pervasa dall’ossessione patologica di un’altra persona.
Allo stato attuale, anche sul piano concettuale il fenomeno rinvia ad una sindrome comportamentale (sindrome delle molestie assillanti) dotata di riconoscibilità, il cui elemento unificante può individuarsi in una patologia della relazione e della comunicazione interpersonale.
Ciò che proveremo ad analizzare in questo lavoro è il fenomeno dello stalking in senso etnografico.
Studiare un fenomeno sociale relativamente nuovo, o meglio “alla moda” come lo stalking o il mobbing, richiederebbe l’analisi storica della società in cui nasce, la disamina di cambiamenti sociali a livello macro, studi statistici che fotografino il fenomeno nella sua parte visibile: denunce e procedimenti penali, e quella invisibile, casi non denunciati e quindi non censiti.
Daremo conoscenza del fenomeno sociale tra qualche anno, forse quando, un'altra “emergenza mediatica” ne avrà già preso il posto con un termine più elegante e spendibile.
La ricerca etnografica ha uno stile differente, si pone l’obiettivo di analizzare in modo approfondito un territorio di ricerca “micro”, spendendosi sul campo e cercare di raccontare le dinamiche più intrinseche fornendo dati precisi e dettagliati per una ricerca ad ampio raggio.
Prenderemo in considerazione un caso di stalking consumatosi in un piccolo paese della provincia del nord indagando da diverse prospettive i fatti, le persone coinvolte, il vissuto del contesto sociale, i meccanismi instauratisi e le risposte legali.
Si utilizzeranno, per l’analisi del caso riferimenti di antropologia, sociologia e psicologia che interagendo tra loro ci forniranno un’analisi criminologica dell’evento.
Si cercherà di fare un “profiling” della personalità dello stalker che non è generalizzabile a tutti quanti commettono o commetteranno questo tipo di reato, ma che potrà darci almeno dei termini di riferimento rispetto alla personalità criminale.
Si analizzerà il contesto sociale perché è un elemento fondante della strutturazione delle caratteristiche della personalità e perché il contesto stesso se ne favorisce la formazione fornisce anche delle risposte, stigmatizzanti o assoluzionistiche, ai fatti criminosi commessi da un membro della proprio gruppo. In un piccolo paese questo è ancora più radicato che in una grande città.
Perché un lavoro sullo stalking? Ritengo che sia importante che le storie di abuso che abbiano ancora confini incerti nella tutela delle vittime debbano essere rese pubbliche non solo nella forma mediatica, quando sono “calde”, ma vadano comprese a fondo per dare delle risposte di tutela alle vittime stesse, che permettano alla magistratura di provvedere con leggi equilibrate e agli specialisti: psichiatri, psicologi, medici ecc. di avere conoscenza del fenomeno e di muoversi a curiosità per capire quali sono i meccanismi lavorando per la prevenzione e la difesa dai reati.

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3 PREMESSA : In questa premessa scritta da un’amica di T nonché consulente tecnico per il tribunale di Lecco ci sono tutte le motivazioni per cui mi sembrava necessario scrivere la storia di T seppur in un modesto lavoro come quello presentato di seguito. E’ estremamente difficile essere professionali quando ciò che è successo ha toccato così da vicino la tua vita; quando la violenza entra in casa tua vedi finalmente chiaramente, non attraverso la TV o i giornali, o i libri di criminologia, quale sia realmente e con quanta forza di presenti la furia dell’uomo. Di seguito non parla la d.ssa ma l’essere umano che ancora ad un anno e mezzo di distanza non riesce a farsi una ragione di come un uomo abbia ammazzato una donna, dandone come unica spiegazione che doveva punirla. Non è cosa facile esprimere in termini esaurienti cosa prova una DONNA quando assiste a ciò che è successo a T. Si continua a pensare, si arriva a scrivere, se ne parla, tutto per riuscire a fare ordine nelle emozioni, per placare la RABBIA, perché alla fine di tutto il percorso che il cuore e la mente fanno per cercare di capire, l’unica emozione che non è cambiata dal 17 settembre 2009 è la RABBIA. Ci si sfoga con le forze dell’ordine, che arrivano in fretta, ma non abbastanza per prendere G., che nel frattempo corre in macchina a “punire” un’altra donna; la rabbia cresce quando il parroco, incurante di avere parole di pietà per la vittima, ne ha invece per l’assassino, preoccupandosi che non faccia un gesto estremo verso sé stesso (cosa che in quel momento gli auguro vivamente); si trasforma poi in pietà mentre guardo il corpo di T. che ormai non è più nulla, in un lago di sangue, il viso, per fortuna forse, coperto dai lunghi capelli castani; T. non c’è più, portata via alla vita da un suo simile. Il pensiero corre a questo punto disperato ad A., e comincio a chiedermi echiedere chi lo avvertirà, che cosa farà adesso chi si occuperà di lui, ma soprattutto “ come facciamo a dirglielo, con quali parole, …” ed è una domanda senza risposta.

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