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L'America in Vietnam attraverso la grande stampa italiana, 1967-1968

La guerra in Vietnam ha segnato la storia contemporanea degli Stati Uniti d'America. E ne ha cambiato il ruolo a livello globale. Attraverso la mia tesi, ho cercato di analizzare il grado di consapevolezza che la stampa italiana, luogo di formazione principale dell'opinione pubblica, dimostrò verso tale cambiamento epocale. Il primo elemento che posso sottolineare - pur non essendo una riflessione di natura strettamente scientifica - è il senso generale di precarietà e incertezza che emerge dai giornali italiani del 1968.
All’interrogativo che mi sono posta all’inizio della tesi, se cioè sarebbe emerso dalle pagine del Corriere, dell’Espresso e di Rinascita, il senso di catastrofe incombente sulla società e l’intero sistema americano, ora posso rispondere: certamente sì. Ma nemmeno questa risposta può bastare.
Se ci riferiamo, infatti, al piano di una percezione emotiva e, pertanto, sostanzialmente inconsapevole, del clima di turbamento e disordine dell’America del 1968, che deriva e si trae da una semplice lettura cronologica dei fatti che sconvolsero il paese in quell’anno, in una spirale crescente di violenza, allora una risposta positiva è senz’altro accettabile.
Ma la domanda da porsi è se i giornali fossero stati in grado di andare oltre una semplice percezione superficiale, dimostrando di avere colto, invece, la natura profonda e, soprattutto, le cause politiche e sociali alla base della crisi americana. Se insomma avessero dimostrato un approccio consapevole - e in che misura si fosse rivelata, appunto, tale consapevolezza - ai problemi aperti dalla guerra nel Vietnam.
In questo caso la risposta è ben più complessa.
La prima difficoltà è legata al fatto che, in quanto giornali strettamente legati a diverse sfere politiche, il Corriere, L’Espresso e Rinascita non hanno un atteggiamento obbiettivo e sufficientemente distaccato dai fatti. Il loro scopo è, infatti, di natura politica: essi, cioè, cercano di presentare le notizie e la loro analisi per influenzare e orientare i lettori verso le proprie tesi.
In base a un tale presupposto, emerge chiaramente dal mio studio che il giudizio che essi esprimono nel corso del 1968 sull’America e il suo coinvolgimento nel Vietnam è strettamente legato e funzionale alla collocazione politica, più o meno esplicita, delle tre testate rispetto alla grande divisione ideologica tra blocco occidentale e blocco sovietico.
Il Corriere e L’Espresso, sebbene in modi e gradi molto diversi, sono schierati “dalla parte” dell’America e quindi tendono a salvare il modello americano, al di là del Vietnam, in quanto espressione e simbolo dei valori libertari e democratici dell’intero Occidente. Nel fare questo, l’atteggiamento dei due giornali è comunque differente.
Ho infatti definito il quotidiano milanese atlantista a oltranza. La priorità del giornale è difendere l’alleanza con gli Stati Uniti per non dare spazio all’opposizione interna, rappresentata dal più forte partito comunista dell'occidente.
In questo intreccio tra divisione internazionale del mondo in due blocchi contrapposti e divisione interna dell’Italia in un sistema imperfetto privo di reali alternative al potere della Democrazia cristiana, si sintetizza e spiega l’atteggiamento difensivo del Corriere verso l’America. Incapace di vedere il conflitto come fenomeno autonomo e condividendo completamente l’interpretazione americana di esso come uno dei tanti momenti del contenimento di un comunismo aggressivo e in espansione, l’intervento degli Stati Uniti viene sostenuto e considerato inevitabile.
Anche L’Espresso, come il Corriere, si può certamente fare rientrare tra i giornali filo-americani. Ma questo schieramento del settimanale di Roma si concretizza in modo più sottile e, soprattutto, meno legato a considerazioni di carattere strettamente politico e strategico.
La prospettiva da cui L’Espresso guarda e giudica gli Stati Uniti è infatti di altra natura: il principio guida dell’America, e il suo obb?

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5 INTRODUZIONE A trent’anni dall’offensiva del Tet e dal 1968, anno climaterico della guerra nel Vietnam, molti sono i problemi e le domande ancora attuali. La guerra nel Vietnam, infatti, pur essendo stata un evento legato a una precisa contingenza storica e, in questo senso, irripetibile nella vicenda degli Stati Uniti, non può essere oggi considerata un capitolo chiuso. L’attualità di questo conflitto e dei modi in cui esso si svolse mi sono apparsi, a dire la verità, sinistramente evidenti in occasione dell’ultima crisi in Medio Oriente legata alla rivalità tra gli Stati Uniti e l’Iraq di Saddam Hussein. Leggere sui giornali di oggi espressioni come escalation o bombardamenti chirurgici mi ha portato quasi a confondere, a sovrapporre quello che stava effettivamente succedendo sotto i miei occhi e ciò che era successo, e che stavo studiando, decine di anni prima. E’ chiaro che in questi trent’anni la storia ci ha fatto assistere a profondi cambiamenti che hanno reso la situazione del presente molto diversa da quella che fu scenario del conflitto nel Vietnam. Penso tuttavia che, se la divisione bipolare del mondo creata dalla guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica può essere considerata un momento eccezionale della storia degli stati legata al “dominio” delle ideologie caratteristico del Novecento; i conflitti tra grandi potenze e piccoli paesi, per questioni economiche e strategiche, fanno parte di una storia più vecchia ed “eterna”. Sempre presente è quindi il rischio che si possano ripetere, anche se la guerra fredda è ormai finita e se all’uomo comune di oggi potrebbe sembrare pressoché impossibile assistere a un nuovo Vietnam.

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