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Non è però soltanto con gli occhi di una persona che si
prepara a entrare nel nuovo millennio che bisogna guardare
indietro, per cercare di capire, fino al 1968. Come insegna Lucien
Febvre
1
, primo dovere dello storico, cioè di colui che “studia il
passato per comprendere il presente per interpretare il
contemporaneo”
2
, è evitare l’anacronismo nella ricerca. Sarebbe
quindi profondamente sbagliato e in un certo senso “presuntuoso”
giudicare la guerra nel Vietnam alla luce di quello che oggi si sa,
non tenendo conto della situazione di allora: sarebbe forse facile,
oggi che l’Unione Sovietica non esiste più e che il muro di Berlino
è caduto, sostenere che il comunismo sovietico non rappresentò
mai una concreta minaccia per il mondo occidentale e che quindi il
contenimento americano, che trovò in Vietnam il proprio momento
di massima applicazione, non fu mai strategicamente giustificato e
costituì quindi, nella migliore delle ipotesi, un errore di
valutazione; nella peggiore, uno strumento di controllo e intervento
discrezionale degli Stati Uniti al servizio dei propri interessi
economici. Sarebbe facile ma non sarebbe un’operazione
scientificamente valida.
Nel 1968, infatti, il mondo era molto diverso da come è oggi,
e, soprattutto, era diversa la percezione di esso da parte americana.
L’Unione Sovietica appariva più che mai forte, in corsa per
la conquista dello spazio, abbastanza aggressiva da intervenire con
l’esercito in Cecoslovacchia, proprio nel 1968, proiettata con la sua
flotta verso il Mediterraneo. Certo il fronte comunista era
indebolito dalla rivalità tra Cina e URSS, ma la chiusura di quei
regimi non favoriva una conoscenza chiara della situazione mentre
la propaganda rivoluzionaria continuava immutata e sembrava
attecchire sempre più nei paesi del Terzo Mondo alla ricerca di
1
Lucien Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Torino,
Einaudi 1953.
2
Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi 1951.
7
un’emancipazione definitiva dal colonialismo europeo. Come
spettri erano sentiti ancora, in America, la perdita della Cina nel
1949 e l’umiliazione della Baia dei Porci a Cuba. Soprattutto la
vittoria della rivoluzione guidata da Castro, in un paese distante
poche miglia dalla costa della Florida, costituiva la prova evidente
che il comunismo continuava a rappresentare un pericolo per la
sicurezza nazionale e la stabilità degli Stati Uniti.
Se a questa situazione tutt’altro che tranquilla si aggiunge il
forte attrito con la Quinta Repubblica del generale De Gaulle
3
, un
irrigidimento dei rapporti perfino con la Germania federale a causa
della ostpolitik del ministro degli esteri Willy Brandt
4
, le difficoltà
economiche che si profilano fin dall’inizio del decennio; si può
incominciare a comprendere come il comunismo del piccolo e
distante Vietnam potesse assumere un significato effettivamente
sproporzionato rispetto alla sua portata effettiva. Esso, infatti, non
fu valutato come un fenomeno autonomo, ma venne visto sempre
più come l’ultimo atto di un dramma che vedeva il mondo
occidentale attaccato da quello comunista. Di conseguenza,
resistere in Vietnam diventò una questione di vita o di morte: un
fallimento avrebbe determinato il pericoloso tracollo dell’alleanza
occidentale e avrebbe spostato gli equilibri politici e strategici a
favore dell’Unione Sovietica.
La percezione di un “pericolo rosso” era dunque tutt’altro
che scomparsa e guidò le scelte dei governi americani nel corso
degli anni Sessanta, verso la guerra.
Proprio perché la posta in gioco in questo conflitto non era
tanto il tipo di assetto politico di un piccolo paese del sud-est
asiatico, quanto la credibilità, la potenza, la volontà di un campo
3
A proposito delle difficoltà tra Francia e Stati Uniti, vedi per esempio Andrè Nouschi, La
Francia da De Gaulle a Mitterand in Nuove questioni di storia contemporanea, Milano, ed. Marzorati,
1985, pp. 1167-1189.
4
Cfr. Enzo Collotti, Il problema tedesco ieri e oggi: lo sviluppo delle relazioni intertedesche, in
Nuove questioni di storia contemporanea, Op. cit., pp. 1032 e ss.
8
rispetto all’altro; proprio per questo, le conseguenze del conflitto
hanno investito come un maremoto, travolgendo ogni cosa, l’intera
struttura politica e sociale del paese che alla fine ne è uscito
sconfitto: gli Stati Uniti. Hanno messo in dubbio la validità del
modello americano fino a quel momento considerato pressoché
infallibile. Hanno aperto una profonda crisi nella coscienza
collettiva dell’America. Hanno infine determinato un
ridimensionamento della presenza americana nel mondo.
Il grande paradosso della guerra nel Vietnam è stato infatti
che gli Stati Uniti sono andati incontro, attraverso essa, proprio a
quella crisi di leadership che essi avevano pensato di poter
scongiurare dimostrando la propria forza e risoluzione con un
intervento militare. Il grave errore degli statisti americani fu non
comprendere che la realtà degli anni Sessanta non era più quella
della guerra di Corea, in cui ancora recente era il ricordo del
conflitto mondiale, della brutalità dei regimi totalitari, della Cina di
Mao e della prima atomica russa.
Negli anni Sessanta, si può dire che vi fu uno scollamento tra
la percezione di un pericolo comunista da parte della classe
dirigente americana, legata a ormai vecchi ma collaudati schemi
politico-strategici; e il riconoscimento, la sensazione del mondo
intellettuale, delle Università, dei media, infine della gente comune
dell’inadeguatezza di quegli schemi, della loro inapplicabilità in
una realtà attraversato da profondi cambiamenti. Dell’insensatezza
e inadeguatezza di una divisione eterna del mondo, data per
scontata, tra buoni e cattivi, di fronte a situazioni sempre più
complesse e dipendenti l’una dall’altra.
In Italia, per quanto mi è stato possibile capire attraverso la
lettura dei tre giornali su cui ho concentrato l’analisi - Corriere
della sera, L’Espresso e Rinascita - l’importanza del travaglio che
l’America conosce in questi anni emerge in modo discontinuo.
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Il problema fondamentale che pare venire a galla non è tanto
la crisi americana in quanto tale, bensì le sue conseguenze
sull’Italia, sull’alleanza occidentale, sul blocco comunista. E, a
seconda delle inclinazioni politiche, i giornali si schierano a favore
o contro l’America e il suo intervento in Vietnam.
E’ dunque comprensibile che il settimanale del Partito
comunista, Rinascita, si schieri ideologicamente contro qualsiasi
mossa americana; che il Corriere della sera, invece, caratterizzato
da una linea decisamente atlantista, appoggi incondizionatamente
Johnson e la politica ufficiale degli stati Uniti, giustificandola
comunque, anche di fronte ai suoi errori più evidenti, come
obbligata e preferibile a un cedimento seppur piccolo al blocco
comunista; che L’Espresso, infine, grazie a un approccio meno
schierato ideologicamente, esprima una posizione in qualche modo
intermedia tra le due, contro la guerra nel Vietnam, ma non contro
il sistema americano tout court.
Anche la posizione dell’Espresso, che risulta in definitiva
quella a mio avviso maggiormente condivisibile, ha tuttavia delle
limitazioni da un punto di vista giornalistico: che, per esempio, non
dia mai spazio a opinioni che sostengono le ragioni della guerra,
opposte quindi a quelle della linea del giornale, non permettendo
sulle proprie pagine un confronto diretto tra orientamenti
contrapposti. O che non si sforzi di inserire la vicenda vietnamita
nell’ambito più ampio dei modi della politica estera americana,
cioè di una politica strettamente legata ai meccanismi della guerra
fredda.
Ma la domanda che in questa introduzione mi sembra più
interessante porre - e a cui cercherò di dare una risposta attraverso
il mio studio - è se questi tre giornali raccolgano il senso di
catastrofe che incombe sulla società e il sistema americano a causa
del conflitto in Vietnam. Se, cioè, registrino il carattere di cesura
tra un’epoca e un’altra dell’anno 1968, cesura che passa appunto
attraverso il travaglio politico, culturale e sociale e la messa in
10
discussione dell’intero sistema americano. Se insomma si
dimostrino in grado di cogliere quello che abbiamo visto fu il
significato e la portata reale della vicenda vietnamita, al di là del
Vietnam stesso.
Di tale natura e portata è il problema che ho gradualmente
messo a fuoco e su cui mi sono concentrata nel corso di questo
lavoro.
Stampa e ricerca storica: il metodo
Il rapporto tra giornali e ricerca storica non è di facile
comprensione né immediatamente inquadrabile.
Prima di tutto, avvicinandomi a questo tipo di impegno, era
necessario stabilire che cosa dovessi intendere per giornale. Poi
dovevo scegliere quelle testate che mi avrebbero permesso di
rappresentare da prospettive diverse il tema della mia tesi, cioè
l’America in Vietnam e l’impatto dell’offensiva del Tet. Infine,
dovevo fronteggiare le insidie di un tipo di fonte particolare e
dispersiva come la stampa.
Alla prima questione ho trovato una risposta che mi è
apparsa soddisfacente nelle parole di Nicola Tranfaglia:
“Giornali(...)sono quei fogli quotidiani, settimanali o periodici che
si rivolgono a un pubblico più o meno generico; che per quanto
organi di partiti politici o di lobbies o di gruppi di potere della più
varia specie, hanno una circolazione non limitata a quei gruppi ma
aperta - sia pure a volte in via meramente teorica - a tutti”
5
. Grande
mezzo di comunicazione di massa, dunque, ma anche mezzo di cui
la classe dirigente come i quadri intermedi della società si servono
per guardare il mondo e influenzarlo.
5
Nicola Tranfaglia, Stampa e sistema politico nell’Italia unita, Firenze, Le Monnier, 1986, p.
10.
11
La scelta dei giornali da studiare ha invece obbedito
all’esigenza di fornirmi un quadro il più possibile vario e che mi
consentisse di prendere in considerazione punti di vista diversi
sull’America.
Quasi obbligata è stata quella del Corriere della sera, il
quotidiano più letto in Italia e tradizionalmente l’espressione della
mentalità e degli interessi della borghesia moderata, sempre attento
a non “spiacere”, rispettoso del potere, cauto nei giudizi,
fortemente filo-americano.
Altrettanto inevitabile, per uguali e opposti motivi, è stata la
scelta di un giornale che rappresentasse la voce di un’opposizione
apertamente critica della posizione italiana e di quella americana,
non soltanto da un punto di vista giornalistico ma anche politico:
Rinascita, dunque, periodico del partito comunista, che ho preferito
a L’Unità per il carattere settimanale e per la presenza di articoli e
interventi maggiormente approfonditi e ampi.
Infine, la mia attenzione è caduta su un esempio significativo
e innovativo di giornalismo indipendente, non legato al potere e
spesso critico, moderno, spregiudicato ma di frequente anche
sensazionalista: L’Espresso, che si pone “a metà strada” tra il
Corriere e Rinascita.
Il problema di come affrontare la fonte-giornale è stato senza
dubbio il più impegnativo e difficile. Il giornale deve essere infatti
considerato prima di tutto come una fonte indiretta, in quanto ci
fornisce una visione del passato attraverso la mediazione di un
informatore (cronista, articolista), mediazione che deve essere
riconosciuta, valutata e tenuta in considerazione. Inoltre, se da un
lato lo scopo evidente del giornale è di informare e intrattenere i
lettori, vi sono sempre altri obbiettivi, più o meno nascosti, di cui
bisogna tenere conto. Essi sono di solito di natura politica, nel
senso della possibilità di esercitare un’influenza e una pressione
psicologica sull’opinione pubblica a seconda del modo di
presentare le notizie e della loro scelta.
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Diventa quindi fondamentale, affrontando lo studio di un
giornale, quando ci si trova di fronte a un articolo, rispondere,
prima di poter trarre qualsiasi conclusione, a tre domande: da chi
esso è stato scritto, quali obbiettivi si propone e, soprattutto, a che
lettore è rivolto.
Tenendo conto di queste tre necessità, mi sono dedicata
all’analisi del Corriere, dell’Espresso e di Rinascita nell’arco di
tempo che va dal settembre del 1967 all’elezione di Richard Nixon
nel novembre del 1968.