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Contributo all'esegesi dell'articolo 2103 del Codice Civile

I ricorsi in tema di demansionamento rappresentano, senza dubbio, una quota non indifferente del contenzioso giuslavoristico, sia sotto il profilo quantitativo, sia in riferimento agli importanti valori costituzionali sottesi.
Il ricorso per demansionamento trova fondamento nel divieto previsto dall’art. 2103 del codice civile, che limita a tutela del lavoratore lo jus variandi del datore di lavoro, ovvero il potere di quest’ultimo di modificare le mansioni in virtù di esigenze di organizzazione del lavoro, a fronte di situazioni dinamiche e imprevedibili. La limitazione consiste in un divieto inderogabile (è nullo infatti ogni patto contrario) di demansionamento, e in una facoltà quindi di adibire a mansioni diverse ma equivalenti, che vengano però retribuite allo stesso modo, o a mansioni superiori con conseguente innalzamento della retribuzione.
Il divieto di demansionamento e la possibilità di reagire alla sua violazione trova fondamento nel principio che la qualifica della propria mansione sia un diritto soggettivo del lavoratore. Questo perché la mansione è collegata alla professionalità del lavoratore che non può essere per nessun motivo danneggiata perché, come ha affermato la Corte Costituzionale con sentenza del 2004, tale danneggiamento provoca compromissione delle aspettative del lavoratore, danni alla persona e alla sua dignità. Viene accolta, così, una concezione del lavoro come attività che concorre al progresso materiale e spirituale della società di cui il divieto di demansionamento è garante.
La nuova disciplina è stata introdotta dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), che ha modificato in maniera incisiva, senza tuttavia abolirlo, l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.
Nel corso della seguente trattazione viene analizzato nel dettaglio il dettato dell’art. 2103 cod. civ., con l’ausilio della dottrina e di alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità.

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4 CAPITOLO PRIMO NOTE A MARGINE DELL’ARTICOLO 2103 DEL CODICE CIVILE SOMMARIO: 1. Mansioni di assunzione – 2. Categorie legali dei prestatori di lavoro – 3. L’equivalenza delle mansioni – 4. Il divieto di assegnazione a mansioni inferiori – 5. Irriducibilità della retribuzione – 6. L’assegnazione a mansioni superiori. La promozione automatica – 7. Sostituzione di lavoratori assenti – 8. Forma e motivazione del trasferimento. Le ragioni tecniche, organizzative e produttive – 9. Nullità dei patti contrari 1. Mansioni di assunzione Nella formulazione dell’art. 2103 cod. civ. trova conferma il principio della cosiddetta “contrattualità delle mansioni”, posto che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, che si coordina con l’obbligo di informazione del datore di lavoro (previsto dall’art. 96, comma 1, att.c.c, secondo cui «l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto»). Secondo il principio della contrattualità delle mansioni, la prestazione alla quale il lavoratore è tenuto è quella determinata al momento della costituzione del rapporto di lavoro o, diversamente da quanto in precedenza previsto, quella corrispondente alla posizione professionale successivamente acquisita in via definitiva, con conseguente divieto di adibire il prestatore a mansioni inferiori rispetto a quelle d’assunzione o a quelle successivamente acquisite. Nel contratto di lavoro non può essere dedotta un’attività imprecisata, poiché in tal caso il contratto sarebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto (artt. 1346 e 1418, c. 2, cod. civ.). Occorre, pertanto, che le parti pattuiscano il tipo di lavoro, cioè i compiti che il prestatore deve svolgere, definiti dalla legge come «le mansioni per le quali è stato assunto». Questo accordo, in virtù della libertà di

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