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CAPITOLO PRIMO
NOTE A MARGINE DELL’ARTICOLO 2103 DEL
CODICE CIVILE
SOMMARIO: 1. Mansioni di assunzione – 2. Categorie legali dei prestatori di
lavoro – 3. L’equivalenza delle mansioni – 4. Il divieto di assegnazione a
mansioni inferiori – 5. Irriducibilità della retribuzione – 6. L’assegnazione a
mansioni superiori. La promozione automatica – 7. Sostituzione di lavoratori
assenti – 8. Forma e motivazione del trasferimento. Le ragioni tecniche,
organizzative e produttive – 9. Nullità dei patti contrari
1. Mansioni di assunzione
Nella formulazione dell’art. 2103 cod. civ. trova conferma il principio della
cosiddetta “contrattualità delle mansioni”, posto che il lavoratore deve essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, che si coordina con l’obbligo
di informazione del datore di lavoro (previsto dall’art. 96, comma 1, att.c.c,
secondo cui «l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al
momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in
relazione alle mansioni per cui è stato assunto»).
Secondo il principio della contrattualità delle mansioni, la prestazione alla quale
il lavoratore è tenuto è quella determinata al momento della costituzione del
rapporto di lavoro o, diversamente da quanto in precedenza previsto, quella
corrispondente alla posizione professionale successivamente acquisita in via
definitiva, con conseguente divieto di adibire il prestatore a mansioni inferiori
rispetto a quelle d’assunzione o a quelle successivamente acquisite.
Nel contratto di lavoro non può essere dedotta un’attività imprecisata, poiché in
tal caso il contratto sarebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto (artt. 1346 e
1418, c. 2, cod. civ.). Occorre, pertanto, che le parti pattuiscano il tipo di lavoro,
cioè i compiti che il prestatore deve svolgere, definiti dalla legge come «le
mansioni per le quali è stato assunto». Questo accordo, in virtù della libertà di
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forma del contratto di lavoro, può essere raggiunto anche per fatti concludenti,
mediante la consensuale adibizione del lavoratore a determinati compiti. Sin dal
momento della stipulazione del contratto è dunque necessaria la
determinazione della posizione d’obbligo assunta dal lavoratore, vale a dire la
specificazione dell’attività lavorativa dedotta in contratto con riferimento alle
mansioni che ne costituiscono l’oggetto. Una ulteriore delimitazione della
posizione d’obbligo può risultare dalla regolamentazione collettiva in atto
nell’organizzazione aziendale, soprattutto se negoziata al livello dell’impresa o
di sue articolazioni. La valutazione del lavoro posto in obbligazione deve in ogni
caso risultare dalle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore nell’ambito di
una determinata organizzazione aziendale, indipendentemente dalle
denominazioni adottate in sede di avviamento al lavoro od anche dagli stessi
contraenti.
2. Categorie legali dei prestatori di lavoro
La legge raggruppa le diverse qualifiche in quattro grandi categorie: operai,
impiegati, quadri e dirigenti (art. 2095, c. 1, cod. civ.). I requisiti di appartenenza
alle indicate categorie sono stabiliti dai contratti collettivi (art. 2095, c. 2, cod.
civ.), solo in mancanza dei quali si applicano, per la distinzione tra impiegati e
operai, i criteri previsti da un’apposita legge (art. 95 disp. att. cod. civ., che
rinvia al r.d.l. n. 1825 del 1924).
Come ricordato poc’anzi, il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore al
momento dell’assunzione «la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in
relazione alle mansioni per le quali è stato assunto» (art. 96, c. 1, disp. att. cod.
civ.), risultando, così, espressamente sancito che l’inquadramento del
lavoratore dipende dalle mansioni dedotte in contratto.
È previsto, altresì, a carico del datore di lavoro un obbligo di informazione
scritta entro trenta giorni dalla data dell’assunzione circa «l’inquadramento, il
livello e la qualifica attribuiti al lavoratore» (art. 1, c. 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del
1997).
Il trattamento economico e normativo del lavoratore varia a seconda della
qualifica, secondo un criterio di proporzionamento alla «qualità» del lavoro che
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per la retribuzione trova un fondamento costituzionale (art. 36, c. 1, disp. att.
cod. civ.).
Il valore delle diverse qualifiche nel mercato del lavoro è fissato dai contratti
collettivi, che provvedono conseguentemente alla loro classificazione
raggruppandole «per gradi secondo la loro importanza» (art. 96, c. 1, disp. att.
cod. civ.) e stabilendo il corrispondente trattamento
1
.
Nella contrattazione corporativa e, poi, anche in quella di diritto comune, fino
all’inizio degli anni ’70 vigeva una rigida separazione tra le qualifiche operaie e
quelle impiegatizie, secondo la previsione legale di apposite articolazioni
«nell’ambito di ciascuna delle categorie indicate nell’art. 2095 del codice» (art.
96, c. 2, disp. att. cod. civ.). Queste sottocategorie contrattuali, denominate
anch’esse categorie con rischio di confusione terminologica, distinguevano
nell’ambito degli operai gli specializzati, i qualificati e i comuni e nell’ambito
degli impiegati quelli di prima categoria con funzioni direttive, quelli di concetto
e quelli d’ordine. I contratti del settore industriale prevedevano, peraltro, anche
la figura dell’intermedio, collocata tra gli operai e gli impiegati.
A partire dalla tornata contrattuale del 1973 – 1974 è stato realizzato, invece, il
cosiddetto inquadramento unico di impiegati e operai, distribuiti tutti insieme su
di una sola scala classificatoria articolata in livelli, ciascuno con una propria
declaratoria generale ed una serie di profili professionali. Nei livelli centrali si
trovano accomunate qualifiche operaie e impiegatizie con una conseguente
parificazione salariale, mentre residuano alcune differenze normative (ad es.
minor durata della prova e del preavviso per gli operai).
La categoria dei quadri, creata con la legge n. 190 del 1985, viene disciplinata,
nonostante le spinte separatiste di alcuni sindacati di mestiere, dagli stessi
contratti collettivi del personale operaio e impiegatizio, di solito con la previsione
di livelli apicali, in cui sono confluiti anche gli impiegati con funzioni direttive e,
successivamente, i funzionari già previsti dall’autonomia collettiva in alcuni
settori (ad es. il credito).
Invece i dirigenti hanno sindacati e contratti collettivi distinti da quelli del
restante personale
2
, con riferimento sia ai grandi settori economici privati
1
Il riferimento alla nozione legale della categoria è consentito solo in mancanza di definizione collettiva: Cass. 5
gennaio 1983 n. 47, GC, 1983, I, 1520; Cass. 28 gennaio 1985 n. 454, RIDL, 1985, II, 699; Cass. 5 giugno 1987 n.
4926, GC, 1988, I, 478; Cass. 18 dicembre 1992 n. 13387, RIDL, 1993, II, 768; Cass. 18 novembre 1997 n. 11461,
MGL, 1998, suppl., 11.
2
Si ricorda in proposito la CIDA, l’organizzazione che rappresenta i dirigenti, tipico esempio di sindacato di mestiere
7
(industria, commercio, agricoltura, credito, assicurazioni), sia alle pubbliche
amministrazioni con gli appositi contratti di area (art. 40, c. 2, d.lgs. n. 165 del
2001). Le associazioni sindacali e i contratti collettivi dei dirigenti si riferiscono a
grandi settori economici, senza le articolazioni per ramo di industria tipiche della
contrattazione nazionale degli altri lavoratori. La disciplina legale del rapporto
dei dirigenti è caratterizzata dall’esclusione di alcune tutele, come in materia di
orario di lavoro e di riposi, contratto a tempo determinato, e di licenziamento
ingiustificato, per il quale solitamente opera una disciplina collettiva.
Quando il datore di lavoro inquadri come dirigente in via di favore un
dipendente addetto a mansioni non classificate come dirigenziali dal contratto
collettivo, si verifica l’ipotesi dello pseudodirigente, al quale resta inapplicabile la
disciplina legale della categoria, con particolare riguardo alle riduzioni di tutela
rispetto alla disciplina degli impiegati e dei quadri. Il problema si è posto, in
concreto, per la protezione legale contro il licenziamento ingiustificato, da cui
sono esclusi i dirigenti, secondo alcuni solo di vertice, ma non gli
pseudodirigenti, essendo inammissibile il baratto, mediante un inquadramento
convenzionale, di una tutela inderogabile con un miglior trattamento relativo ad
altri aspetti del rapporto (ad es. retribuzione, preavviso). La Cassazione ha
affermato che: soltanto il lavoratore che effettivamente “sostituisca” il capo di
un’impresa di dimensioni medio-grandi nelle funzioni strettamente sue proprie,
ovvero la cui posizione corrisponda sostanzialmente al prototipo del c.d. top
manager, può essere considerato dirigente
3
.
Ad ogni modo il giudice non può sovrapporre una nozione ontologica della
categoria dirigenziale a quella in concreto ricavabile dal contratto collettivo
4
,
che può qualificare come dirigenti anche lavoratori che occupino posizioni in
parte diverse da quella tradizionale del cosiddetto alter ego dell’imprenditore,
preposto all’intera azienda o ad un ramo autonomo di essa con ampi poteri
decisionali e di rappresentanza, sottoposto soltanto alle generali direttive del
datore di lavoro.
3
Cass. 11 febbraio 1998, n. 1434, FI 1998, I, 729
4
Se, invece, il contratto collettivo manca occorre fare riferimento alla nozione legale: Cass. 23 marzo 1998 n. 3056,
MGL, 1998, suppl., 48.
8
3. L’equivalenza delle mansioni
La modifica delle mansioni disposta unilateralmente dal datore di lavoro è
possibile soltanto se le nuove mansioni siano equivalenti alle precedenti,
intendendosi per precedenti le ultime svolte dal lavoratore: il testo dell’articolo in
esame consente al datore di lavoro l’iniziativa per una mobilità per così dire
laterale od orizzontale, vale a dire prevede che il lavoratore possa essere
adibito a «mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte».
Se si ritiene, come sembra corretto, che le mansioni equivalenti siano
anch’esse dedotte nel contratto individuale, esplicitamente o implicitamente o
per integrazione legale ex art. 1374 cod. civ., l’assegnazione di mansioni
equivalenti rientra anch’essa nell’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore.
Se, invece, le mansioni equivalenti si considerano estranee al contratto, occorre
affermare che la legge riconosce al datore di lavoro un’eccezionale facoltà di
modificare unilateralmente il contenuto del contratto (c.d. jus variandi) oppure
,all’opposto, che per l’adibizione a mansioni equivalenti è necessario il
consenso del lavoratore. La giurisprudenza dà per scontata la facoltà del datore
di lavoro di assegnare al lavoratore mansioni equivalenti senza necessità di
ottenerne il consenso
5
.
L’equivalenza non può che valutarsi rispetto alle due situazioni che risultano
previste dal legislatore, vale a dire le mansioni per le quali il lavoratore è stato
assunto o le mansioni superiori che egli abbia successivamente acquisito a
titolo definitivo; questo, tenendo conto della situazione in atto per quel
determinato lavoratore, e precisamente delle mansioni da lui effettivamente
svolte al momento in cui il datore di lavoro procede alla variazione.
La nozione di equivalenza viene riferita al patrimonio professionale acquisito dal
lavoratore, che deve poter essere utilizzato anche nelle nuove mansioni,
escludendosi che l’identità di livello contrattuale significhi automaticamente
equivalenza, stante l’eterogeneità delle qualifiche raggruppate in ciascun livello.
Il giudizio di equivalenza prescinde dalla corresponsione di un eguale
trattamento retributivo, posto che la norma in commento prevede
autonomamente la garanzia retributiva. A ciò si aggiunga che l’equivalenza
5
Cit. Vallebona A., Istituzioni di diritto del lavoro [volume 2] – Il rapporto di lavoro, Padova, Cedam, 2008, p. 158
9
economica non è sempre considerata esauriente, prospettandosi, anche di
fronte ad un progressivo appiattimento dei livelli retributivi, il più complessivo e
differenziato concetto di una equivalenza di classificazione professionale.
L’equivalenza deve essere valutata con riferimento ad un’area professionale,
cioè ad un ambito più o meno circoscritto di differenziate prestazioni, il cui
svolgimento richiede un determinato complesso di conoscenze tecniche e di
capacità professionali, connesse anche all’esperienza del lavoratore.
La nozione di equivalenza delle mansioni è ricostruita dai giudici con riferimento
all’obiettivo, proprio dell’art. 2103 cod. civ., di tutelare la professionalità del
lavoratore che subisce un mutamento di mansioni. Secondo la giurisprudenza
maggioritaria, affinché si realizzi la tutela della professionalità del lavoratore non
è sufficiente che mansioni precedenti e mansioni di destinazione siano
inquadrate al medesimo livello nel sistema di inquadramento previsto dal
contratto collettivo, essendo invece necessario che le nuove mansioni
consentano lo sviluppo delle competenze e dell’esperienza acquisite nello
svolgimento delle precedenti mansioni.
Aderisce a questo orientamento Cass. 17 luglio 1998, n. 7040
6
, relativa alla
vicenda di una dipendente di Fiat Auto s.p.a., la quale, assunta per
l’espletamento di mansioni di assemblaggio, era stata successivamente adibita
alla pulizia di alcuni locali dell’azienda: mansioni, queste ultime, classificate allo
stesso livello professionale e retributivo delle precedenti dal contratto collettivo
in concreto applicato.
Secondo la Cassazione, tuttavia, la tutela della professionalità è garantita solo
verificando l’equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza
assegnate
7
, alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità di
svolgimento delle stesse, atteso che la suddetta equivalenza presuppone che le
nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza espletate,
corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne
salvaguardino il livello professionale, non lo danneggino altrimenti nell’ambito
del settore o socialmente e siano comunque tali da consentire l’utilizzazione del
patrimonio di esperienza lavorativa acquisita nella pregressa fase del rapporto.
Altra giurisprudenza, sporadica e nettamente minoritaria, propende per una
interpretazione della regola dell’equivalenza delle mansioni che prende in
6
In RIDL 1999, 276
7
Cfr. Cass. 20 marzo 2004, n. 5651; Cass. 29 settembre 2008, n. 24293
10
considerazione anche le prospettive di crescita professionale, e dunque le
capacità professionali acquisibili, in divenire, dal lavoratore nell’espletamento
delle nuove mansioni. Secondo Cass. 26 gennaio 1993, n. 931
8
, il giudizio di
equivalenza delle mansioni deve essere effettuato raffrontando il contenuto
professionale delle mansioni di partenza con quello delle mansioni di
destinazione in una prospettiva dinamica, di valorizzazione delle capacità di
arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze.
La giurisprudenza si mostra tuttavia sensibile all’esigenza di interpretare in
maniera non eccessivamente rigida l’equivalenza delle mansioni di cui all’art.
2103 cod. civ. L’esigenza è avvertita in special modo in casi di ricorso al
mutamento di mansioni al fine di evitare provvedimenti espulsivi di lavoratori in
esubero
9
.
Secondo alcune interpretazioni del tutto minoritarie, il criterio dell’equivalenza
comprenderebbe anche la possibilità di spostamento a mansioni inferiori alle
ultime effettivamente svolte, traendo spunto dall’esplicita previsione della
garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, che non avrebbe avuto senso se il
legislatore avesse voluto escludere il potere di effettuare spostamenti
peggiorativi. In giurisprudenza, è stato in ogni caso ritenuto legittimo
l’affidamento di mansioni inferiori purché temporaneo, o dettato da ragioni
straordinarie e d’emergenza e non produttivo di dequalificazione. Nella
giurisprudenza di merito si ammette l’ipotesi del declassamento temporaneo
dovuto alla necessità di sostituire lavoratori assenti a causa di sciopero.
Nel giudizio di equivalenza delle mansioni la giurisprudenza ha verificato
l’esistenza di una condizione “oggettiva” (in virtù della quale le mansioni di
destinazione devono essere collocate nel medesimo livello di inquadramento
contrattuale o nella stessa area professionale di quelle originarie) e di una
condizione, più restrittiva, di tipo “soggettivo” (in virtù della quale le nuove
mansioni devono consentire l’utilizzo del corredo di nozioni, esperienza e
perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto di lavoro. Nell’evoluzione
giurisprudenziale ha assunto prevalenza la sussistenza del requisito soggettivo;
infatti, è stato ritenuto che nel giudizio di accertamento sull’equivalenza delle
mansioni assegnate al lavoratore il giudice deve verificare, da una parte, il
8
In RFI 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 732
9
Ballestrero M.V., Diritto del lavoro – Domande e percorsi di risposta, con la collaborazione di M. Novella e A.
Rivara, Milano, Giuffrè Editore, 2003, p. 108
11
contenuto e le modalità di svolgimento delle nuove mansioni e, dall’altra,
l’idoneità, o meno, delle nuove mansioni ad arricchire il patrimonio
professionale del lavoratore, senza limitarsi alle astratte classificazioni operate
dal contratto collettivo, ma avendo riguardo alle attività effettivamente espletate
dal lavoratore
10
.
4. Il divieto di assegnazione a mansioni inferiori
Con una recente sentenza
11
, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha
stabilito che, per configurarsi il demansionamento, le nuove funzioni assegnate
devono essere decisamente dequalificanti. Il trasferimento ad altro settore,
dunque, non può essere contestato, soprattutto se è stato effettuato da
un’azienda in crisi, per evitare al dipendente il licenziamento o la mobilità e
dopo la soppressione del vecchio servizio di appartenenza. Il fatto è il seguente:
un’azienda aveva dequalificato tre guardie giurate, assegnandole a mansioni
produttive dopo l’esternalizzazione del servizio di guardiania, avvenuta in una
fase di crisi dell’azienda.
Uno dei tre dipendenti era ricorso in Tribunale e aveva ottenuto il diritto
all’inquadramento nella quinta categoria contrattuale, ma l’azienda aveva
presentato ricorso in Corte d’Appello.
La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, aveva respinto la
domanda del superiore inquadramento proposta dal dipendente. Però per la
stessa Corte, la partecipazione degli attori a corsi di riqualificazione non
risultava decisiva ai fini di un loro consenso al mutamento di mansioni e non
risultavano dequalificazioni concordate con le Organizzazioni Sindacali come
alternativa al licenziamento o alla mobilità. Inoltre le nuove mansioni
(produzione) non erano equivalenti al bagaglio professionale acquisito dai
lavoratori che, peraltro, avevano avuto un trattamento economico deteriore a
causa della perdita di varie indennità aggiuntive (turno, pausa mensa, monte
ore mensile e settimanale, premio speciale). Nondimeno la nuova
10
Al riguardo: Cass. 9 giugno 1997, n. 5162, in Giust. civ. mass. 1997, 950; Cass. 2 luglio 1992, n. 8114, in Giust. civ.
mass. 1997 fasc. 7)
11
Cass. 18 febbraio 2008, n. 4000