Responsabilità sociale d'impresa e tipologie di illeciti nella supply chain del sistema moda
L’industria della moda rappresenta uno dei principali settori trainanti del Made in Italy, espressione, quest’ultima, che non indica la sola origine geografica delle merci ma è ormai sinonimo per il consumatore globale di elevata qualità e tradizione, tipica del prodotto italiano.
L’industria della moda, soprattutto nella forma in cui si è sviluppata in Italia dagli anni ‘70 ad oggi, è strutturata secondo una fitta rete di rapporti di fornitura e subfornitura. Sulla base di tale modello organizzativo, generalmente, le imprese svolgono all’interno della propria struttura le attività del processo produttivo a più elevata creazione di valore quali, lo sviluppo del prodotto, design e marketing. Le attività di realizzazione del prodotto vengono, invece, delocalizzate alle suddette imprese di fornitura.
Il termine delocalizzazione, più precisamente, denota l’atto di trasferire in un’altra regione o in un altro paese una parte stessa dell’azienda o alcune funzioni chiave che le sono proprie.
Il processo di globalizzazione dell’economia mondiale ha dato alle imprese dei paesi industrializzati la possibilità di delocalizzare ovvero affidare in outsourcing le attività che richiedono maggiore intensità di lavoro nei paesi in cui i bassi costi della manodopera permettono di conseguire consistenti vantaggi di costo. In tal modo, i paesi del centro e sud America e soprattutto i paesi asiatici (tra i quali spiccano in maniera particolare la Cina e l’India) hanno assunto il ruolo di centri manifatturieri globali.
Al fine di spiegare le ragioni all’origine di questo trend nelle industrie del sistema moda, è opportuno chiarire alcuni aspetti e alcune dinamiche proprie di queste ultime. Il sistema delle produzioni è innanzitutto scandito dai ritmi delle collezioni stagionali i quali prevedono l’alternanza di periodi di straordinaria intensità di lavoro e periodi di relativa calma, con scarsa quantità di lavoro.
Il numero di collezioni annue da presentare negli showroom (i punti di esposizione e, talora, di vendita promozionale ai clienti) è in continuo aumento, superando, talvolta, il concetto stesso di stagione. Ne consegue che tutte le fasi del processo produttivo, sia antecedenti che successive alla presentazione delle collezioni, sono caratterizzate da ritmi lavorativi estremamente intensi. In particolare, le commesse, vale a dire le ordinazioni dei quantitativi di merce da produrre, raggiungono picchi molto elevati. Ciò si traduce, a sua volta, in forti pressioni sui fornitori i quali hanno tempi estremamente ristretti per le consegne, pena l’imposizione di sanzioni o la risoluzione del contratto.
La capacità dei fornitori e subfornitori dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo di rispettare i tempi delle consegne, offrendo, al contempo, bassi costi di manodopera, attrae sempre più investimenti da parte delle multinazionali e delle grandi aziende di moda occidentali.
Ma in che modo queste imprese di fornitura riescono a combinare il binomio bassi costi di manodopera/rispetto dei tempi di consegna?
All’origine di tutto questo c’è l’impiego massiccio delle cosiddette condotte di “dumping sociale”, espressione ormai divenuta di uso corrente, che fa riferimento al mancato rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro . Tali condotte comprendono, tra le altre, lo sfruttamento del lavoro minorile, lo sfruttamento della manodopera (sia essa clandestina o meno) attraverso l’allungamento smisurato dell’orario di lavoro e una retribuzione con stipendi al di sotto della soglia di povertà, l’assenza di sicurezza ed igiene negli ambienti di lavoro.
La diffusione di queste pratiche è stata portata a conoscenza del grande pubblico grazie agli scandali che negli anni ’90 hanno coinvolto diverse multinazionali di abbigliamento sportivo (i più famosi sono quelli di Nike e Adidas del 1996). Ciò ha scatenato il proliferarsi di campagne di boicottaggio da parte di organizzazioni non governative e associazioni dei consumatori, le quali, a loro volta, hanno causato notevoli perdite economiche alle aziende coinvolte in termini di immagine, reputazione del marchio e, quindi, di fatturato.
Tutto ciò ha reso – e rende tuttora – indispensabile il ricorso a pratiche di responsabilità sociale che tutelino, da una parte, il consumatore e la sua domanda di “etica del consumo”, dall’altra, le stesse imprese dalle disastrose conseguenze derivanti dal mancato impiego di condotte socialmente responsabili.
Scopo del presente lavoro è analizzare le varie tipologie di condotte illecite riscontrate di frequente nella supply chain (o catena di fornitura) delle industrie di moda ed esaminare le relative strategie di risposta attuate dalle imprese coinvolte .
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Informazioni tesi
Autore: | Giovanna Grosso |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano |
Facoltà: | Sociologia |
Corso: | Scienze Sociali Applicate |
Relatore: | Ernesto Savona |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 144 |
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