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Il marketing delle società di calcio italiane: confronto con il modello inglese e fattori critici

Dopo un lungo periodo di immobilismo, in cui le società di calcio hanno vissuto in un'organizzazione ''patriarcale'' dal punto di vista del proprio operato extra-sportivo, nell'ultimo decennio ha cominciato a manifestarsi la spinta verso il nuovo. Nel 1996 il nostro ordinamento ha recepito la Sentenza Bosman e ha riconosciuto alle società di calcio il fine di lucro. La scomparsa del ''parametro'' (Indennità di promozione e preparazione), che costituiva un tetto massimo al valore di cessione dei giocatori, ha portato alla lievitazione dei costi di ingaggio dei calciatori.
Lo scopo di lucro e l'aumento dei costi hanno spinto i presidenti delle società di calcio italiane, almeno nelle intenzioni, a strutturare più professionalmente le proprie società: il marketing (sino ad ora inutilizzato in un settore, quello sportivo, che il calcio, in Italia, dominava) davanti alla necessità di reperire nuovi fondi, è entrato nelle strutture delle maggiori squadre.
L'esempio è arrivato dall'Inghilterra, soprattutto Manchester United, dove il calcio, in seguito alla tragedia dell'Heysell, dopo un periodo di crisi, è stato riorganizzato in una logica di abbandono dei ricavi legati ai successi sportivi e alla vendita dei giocatori, passando a fonti di ricavo più stabili, legate al brand e a tutto quanto è ad essa collegato.
Se i ricavi da botteghino, sponsorizzazioni e diritti tv/comunicazione presentano poche (anche se significative) differenze tra i due modelli esaminati (inglese ed italiano), un enorme divario si osserva invece prendendo in considerazione il merchandising. Tale voce rimane una grandezza al palo che non viene neanche evidenziata nei bilanci delle società italiane, abitudine che indica la scarsa rilevanza che questa ha sul fatturato. Cause di questa arretratezza sono:
- la legislazione, che solo dal 1996 consente lo scopo di lucro alle società di calcio italiane. Sino ad allora le licenze per produrre beni con il proprio marchio venivano concesse con estrema leggerezza senza curarsi della qualità di quanto immesso sul mercato o del destinatario del prodotto (solo recentemente le squadre hanno cominciato a considerare il tifoso un cliente che, come tutti i consumatori, ha delle necessità di acquisto e hanno cominciato ad interrogarlo sui suoi gusti);
- la distribuzione, che soffre della polverizzazione dei canali distributivi e dell'assenza di un connettore unico dell'offerta;
- il black-market, cioè il mercato dei prodotti non ufficiali che, secondo stime ormai accettate, vale 20 volte almeno quello ufficiale.
Paradossalmente, davanti alla necessità di un approccio più aziendale al mercato, le società di Serie C, che godono di modesti introiti da diritti Tv, botteghino e sponsorizzazioni (praticamente nulli quelli da merchandising) e che quindi maggiormente necessiterebbero di una ristrutturazione manageriale, sono quelle che sono maggiormente restie a questa trasformazione e continuano ad essere gestite in maniera ''patronale'', basandosi sulle amicizie per trovare sponsor e su una comunicazione gestita dai giornalisti locali. Due sono le strade che si prospettano a queste società:
- divenire ''fucine'' di campioni da vendere alle grandi squadre per appianare i conti in rosso, tralasciando sogni gloriosi di ritorno nelle serie maggiori o
- grazie ad un bacino di utenza interessante, lo sviluppo di un modello che ricopia, su scala locale, quanto fatto dalle società di serie A (ciò richiede però una struttura e un personale preparato che poche società sembrano disposte a darsi).
Il modello inglese ci insegna invece che tutte le società, anche delle serie minori, sono strutturate in modo aziendalistico e l'approccio al mercato, cioè la filosofia per cui il tifoso e lo sponsor sono il ''cliente'' da soddisfare, è ormai recepito a tutti i livelli, dal presidente alla hostess che accompagna il ''tifoso'' al suo posto allo stadio.

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INTRODUZIONE Scopo del mio lavoro vuole essere l’analisi dei “fattori critici” del marketing delle società di calcio italiane e l’individuazione delle possibili soluzioni che possono essere adottate per uscire da una situazione limitante lo sviluppo di tutte quelle attività non direttamente legate alla “prestazione sportiva”: merchandising prima di tutto. Al fine di raggiungere questo obiettivo, nella prima parte del mio elaborato, ho effettuato un confronto tra il modello inglese di sviluppo commerciale dell’attività calcistica e quello italiano. Tutti i dati e le testimonianze raccolte vogliono dimostrare che il primo è senza dubbio vincente per quanto riguarda l’organizzazione “aziendalistica” delle società, mentre il secondo, nonostante i buoni propositi dichiarati dall’ambiente, incontra ancora notevoli difficoltà nella realizzazione di una organizzazione e di una gestione di tipo aziendale. La seconda parte è dedicata all’analisi della realtà commerciale del mondo del calcio italiano e allo studio delle cause della sua arretratezza. Individuati i “fattori critici”, si intendono indicare le soluzioni che i club potrebbero adottare, o che hanno in progetto di sviluppare, al fine di innescare una serie di ricavi che consentirebbero loro di pareggiare i bilanci, sistematicamente in rosso, e di approdare alla Borsa. Si dimostrerà come i maggiori problemi siano riscontrabili nel merchandising e imputabili a difficoltà nella distribuzione, alla presenza di uno sviluppato mercato della contraffazione e all’impossibilità, da parte delle società di gestire gli stadi, di proprietà dei comuni, facendoli divenire centri di sviluppo delle politiche commerciali.

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Informazioni tesi

  Autore: Rosanna Comazzi
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 1997-98
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Economia
  Corso: Economia e Commercio
  Relatore: Elena Chiadò Fiorio
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 270

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