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Il fallimento delle misure alternative alla detenzione

Il motivo per cui l’autore ha deciso di intraprendere una tesi in Criminologia dal titolo “Il fallimento delle misure alternative alla detenzione” deriva principalmente dall’esperienza di tirocinio condotta nella Casa Circondariale “Borgo S. Nicola” di Lecce.
E’ stata un’esperienza altamente significativa sotto vari punti di vista. Passione e curiosità per il lavoro quotidiano svolto con dedizione dagli educatori e i vari operatori, come psicologi, assistenti sociali, sono state per tutto il percorso la principale fonte di sostegno. Sono state constatate nel concreto le necessità e le esigenze dei detenuti, stando a loro contatto per assistere ai colloqui con gli educatori. Come ha scritto un detenuto, tra l’altro un ragazzo di giovane età, il carcere deve servire da ponte tra l’interno e l’esterno, tra la loro e la nostra esistenza, perché questo è un mondo a parte, è una realtà difficile e complessa da vivere e descrivere, difficilmente comprensibile se percepita solo dal di fuori.
Tutto ciò aiuta a sviluppare quel senso di umanità, di dignità e di rispetto per gli altri, di sensibilità anche laddove può sembrare a volte impossibile averne.
Avere avuto l’opportunità di trovarsi ad ascoltare le vicissitudini, i problemi, le angosce dei detenuti, ha stimolato e stimola ancora la voglia di voler scoprire in profondità questa particolare realtà, per conoscere, analizzare, valutare e aiutare, dar sostegno a chi non è riuscito a creare quel ponte necessario a ristabilire un equilibrio, un’armonia con la vita vera.
Chi ha rotto questo equilibro, di sua volontà o meno, ha certamente bisogno di una guida, di un punto di riferimento per riuscire pian piano ad acquisire coscienza dei propri errori, per essere stimolato a migliorarsi, per credere ancora in se stesso, per poter vincere quella paura di non essere più accettati nella società che affligge molti detenuti. Paura questa che, se in parte fondata, deve essere superata per poter iniziare quel percorso graduale che porterà il recluso a sentirsi una persona nuova, diversa, avente diritti e doveri come tutti i cittadini, dotato di risorse e pregi, per non essere solo un numero, un detenuto appunto. L’art. 2 della Costituzione Italiana su questo punto è molto chiaro: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia come persona nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”. Portare fuori queste potenzialità insite in ciascuno è quindi compito di tutta la rete istituzionale e sociale, in particolare degli operatori del carcere che con il loro compito portano speranza e un aiuto per costruire quel ponte tra l’interno e l’esterno che il detenuto potrà un giorno attraversare con la consapevolezza di essere una persona diversa, portandosi dietro senza dimenticare il bagaglio del suo passato, conscio dei suoi sbagli ma più forte nel credere che fuori c’è ancora qualcuno e qualcosa che lo aspetta, forse diversa da quella che aveva prima ma non per questo meno dignitosa. La prospettiva di poter conoscere una vita giusta fuori dal carcere è uno dei più importanti compiti che hanno gli operatori per far nascere nel recluso la consapevolezza dei propri errori, aiutarlo ad elaborarli, analizzarli, e fare in modo che egli stesso, attraverso la propria volontà, possa migliorarsi e farsi apprezzare.
Il processo da attuare è proprio la trasformazione di sé stesso. Il programma deve essere personalizzato e calibrato sulla singola persona. Non si può imporre nulla al detenuto, nessun educatore può costringerlo a dialogare se ciò non prende principio dalla sua volontà. Senza questa volontà di cambiare si può far ben poco. Tuttavia, una persona privata della propria libertà in un modo o nell’altro cerca sempre una via per riaverla, e, durante l’esperienza in carcere, sono state osservate di persona le tantissime richieste per avere dei colloqui con educatori e psicologi: molti detenuti sanno che ci sono delle persone competenti e qualificate che vedono in loro non solo il reietto ma soprattutto la persona cosi com’è, nella sua fragilità, nella sua rabbia e sofferenza, ed è necessario affidarsi a qualcuno per essere guidati e sostenuti in un cammino difficile come quello del carcere, spinti soprattutto dalla consapevolezza di ciò che si è fatto ma anche di ciò che si potrà fare fuori per poter ricostruire la propria vita, perché “dietro il delitto esiste un passato, ma davanti vi è un avvenire; dopo qualche tempo questo stesso è un uomo completamente diverso da quello che ha commesso il delitto” (Nicolò Amato).

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